Bosnia Erzegovina

Monstar, la dimenticata


 

Nel capoluogo erzegovese prosegue la paralisi istituzionale iniziata nel 2010. Se nulla cambia, la città potrebbe essere a un passo

 dall'essere nuovamente divisa in due municipalità

 

Nessuna nuova da Mostar. Da mesi la città versa in una sorta di oblio collettivo, senza che sia stato ottenuto alcun passo in avanti nella ricerca di una soluzione alla grave crisi istituzionale che si protrae da due anni. Se, solamente qualche giorno fa, i leader dell'HDZBiH Dragan Čović e dell'SNSD Milorad Dodik non si fossero incontrati proprio nella città dell'Erzegovina, sarebbe difficile anche solo trovarne menzione nei giornali.

 

“Non c'è nulla di strano nel nostro incontro. Tra i due partiti c'è sempre stato un ottimo rapporto, e questo non è in discussione”, hanno chiosato i due leader. Čović nelle ultime elezioni ha ottenuto la legittimazione per rappresentare, inequivocabilmente, i croati di Bosnia Erzegovina. Il suo sostegno sarà obbligatorio per qualsiasi maggioranza di governo. E Milorad Dodik, da parte sua, ha sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti dell'HDZBiH, in un'ottica di indebolimento del governo centrale. Nella campagna elettorale era stato anzi il solo a evocare apertamente la creazione di una terza entità croata, in un’intervista rilasciata a Jutarnji List nella quale assicurava che “avrebbe aiutato i croati ad avere il proprio stato in Bosnia Erzegovina”.

 

Da Mostar, i due leader si sono dichiarati pronti a formare una coalizione valida “a tutti i livelli di governo”, cercando così di mandare un messaggio chiaro all'SDA, proprio mentre sono in corso i difficili negoziati per la formazione del nuovo esecutivo: la via più breve per ottenere una maggioranza in parlamento è anche la più semplice, un triumvirato costituito da SDA, HDZBiH e SNSD.

 

Popolazione sempre più povera

 

Nell'incontro tra i due politici, Mostar è servita al massimo da sfondo. Negli ultimi anni, infatti, nulla è cambiato in città. Le cronache parlano di una popolazione locale sempre più povera, con un tasso di disoccupazione registrata del 50,1%, e con sempre più cittadini costretti a mettersi in fila alle mense popolari, secondo il ritratto drammatico che della città ha fatto recentemente il locale Dnevni List.

 

Eppure, nonostante il crescente disagio sociale, la situazione rimane sempre la stessa. Le ultime elezioni hanno provato per l'ennesima volta la tenuta dei due storici partiti identitari, l'HDZBiH croato e l'SDA bosgnacco. E' crollata invece la cosiddetta “alternativa civica”, rappresentata (per quanto malamente, dopo quattro anni di governo fallimentare) dalla socialdemocrazia. Quanto alla nuova creatura politica di Željko Komšić, il Fronte Democratico, questa non è sembrata impegnarsi particolarmente per costruire una propria base in città. Altre formazioni minori e non etniche, come Naša Stranka, a Mostar non hanno nemmeno presentato le proprie liste. La città è stata ufficialmente abbandonata in balia di se stessa, con un predominio incontrastato dei due partiti tradizionali, “ipocriti e antieuropei”, secondo il politologo Mile Lasić, dell’Università degli studi di Mostar.

 

Lasić ha lavorato alle proposte di riforma della costituzione: “La mia idea era di rendere questa città una città normale, non gestita cioè attraverso statuti e regole particolari, e di renderla magari anche la capitale della Federacija”, spiega a Osservatorio. “Tutti obiettivi realizzabili, se chi è al governo lo volesse. Il punto è che a loro non interessa migliorare la situazione di Mostar, così come non interessa loro il bene del paese”.

 

Verso la divisione

 

I prossimi mesi potrebbero comunque rivelarsi decisivi. Se, come sembra molto probabile, il nuovo esecutivo sarà formato da una coalizione tra HDZBiH e SDA, la questione di Mostar diventerà sicuramente parte degli argomenti all'ordine del giorno nelle trattative tra i due partiti.

 

Non è detto, però, che questo aiuterà la normalizzazione nella città. Al contrario, la soluzione potrebbe rivelarsi quella più sbrigativa, ovvero dividere Mostar in due municipalità, ritornando così alla situazione preesistente al 2004, quando l’Alto rappresentante Paddy Ashdown impose il nuovo statuto alla città, riunificando la parte croata e quella bosgnacca. Nel corso delle trattative, le voci che riguardavano la nuova spartizione del comune in due municipalità divise dall’antica linea di fuoco del bulevar si sono susseguite costantemente, ma ora sembrerebbero avere un nuovo fondamento.

 

Quello che rispetto al passato potrebbe fare la differenza, ora, è il disimpegno da parte della comunità internazionale. Fin dall’inizio dell’impasse, infatti, UE e OHR hanno ribadito che la riforma dello statuto di Mostar avrebbe dovuto avvenire nel quadro complessivo della questione Sejdić-Finci e del cambiamento della costituzione.

 

Nel periodo intercorso tra le proteste di febbraio e le elezioni, tuttavia, abbiamo assistito al progressivo disimpegnarsi dell’UE su questo fronte. Anche gli uffici di Valentin Inzko, che finora hanno ufficialmente condotto i negoziati su Mostar, non si sono più espressi sull’argomento da quando è stato chiaro (in luglio) che l’approvazione di un nuovo statuto sarebbe stata impossibile nei tempi necessari a far coincidere le elezioni amministrative, mai svolte nel 2012, con quelle generali.

 

Un vicolo cieco

L’impressione è che la Comunità Internazionale, dopo aver realizzato di essersi infilata in un vicolo cieco nel tentativo di risolvere la spinosa questione, e vista l’impossibilità attuale di superare i limiti costituzionali di Dayton, sia ben lieta di disinteressarsene, preferendo concentrarsi su temi quali sviluppo economico e occupazione. All’OHR negano l’ipotesi che sia in corso una ritirata su questo fronte e continuano a definire “l’implementazione della sentenza della corte costituzionale sul caso di Mostar un obbligo”, come confermato a Osservatorio da Mario Brkić, portavoce di Valentin Inzko. Al tempo stesso, però, Brkić ci tiene a precisare che “la responsabilità di trovare un compromesso è esclusivamente dei partiti politici, soprattutto SDA e HDZBiH. Sono loro a dover trovare un modo affinché i diritti politici dei cittadini vengano rispettati”.

 

Brkić, ad ogni modo, preferisce glissare su due questioni fondamentali: se l’OHR si atterrà al proprio piano presentato durante i negoziati (Mostar come una municipalità unica con tre distretti elettorali misti) e, soprattutto, se (e quando) riprenderanno i colloqui tra i due partiti al governo in città. Anche Maja Maričić, portavoce dell’OSCE, invoca “flessibilità da parte dei leader politici di Mostar”, affinché “le elezioni municipali vengano svolte non più tardi del 2016”. Ma è evidente che, in questo preciso momento, non esiste alcuna road map. E che, molto probabilmente, occorrerà ripartire da zero. “Da parte nostra, siamo pronti a ricominciare il dialogo in qualsiasi momento”, assicura a Osservatorio il presidente del gruppo bosgnacco al consiglio municipale di Mostar, Salem Marić (SDA), “il fatto è che in questo momento sia il nostro partito che l’HDZBiH sono impegnati da faccende più importanti”. E assicura: “Non c’è alcuna base per la divisione di Mostar, la città resterà una municipalità unica, con un solo sindaco”.

 

 

Bosnia: la politica della divisione

e del sabotaggio

 

 

 balcanicaucaso.org di Hrvoje Šimičević   -   4 marzo 2014

Valentina Pellizzer

 

Il desiderio del Plenum di Sarajevo di un'articolazione di lungo periodo delle istanze di giustizia sociale, le strategie dell'establishment politico di screditarle e le opportunità nuove e inaspettate della democrazia diretta. Uno sguardo "da dentro" il Plenum di Sarajevo: intervista a Valentina Pellizzer

 

Venerdì 21 febbraio il Consiglio dei Deputati del Cantone di Sarajevo ha accettato le richieste dei cittadini articolate dal Plenum, e adesso sarà l'Assemblea parlamentare a decidere. Cosa ti aspetti?

 

 La tattica scelta è la stessa del 12 febbraio, quando ebbe luogo il primo Plenum. La presenza di centinaia di persone nel piccolo spazio delle assemblee del campus universitario sta mostrando i suoi effetti. I media parlano di richieste accettate. Ma dovrebbe essere sottolineato che si tratta di una tattica e di un modo per il governo di presentare se stesso come attento alle richieste dei cittadini continuando, nello stesso tempo a non fare niente. Da un lato, da parte delle persone al potere, c'è un'indicazione di "volontà ed apertura" nei confronti dei manifestanti, mentre la polizia e i media continuano a diffondere il panico su potenziali gruppi di dimostranti pronti all'uso della violenza. In questo senso, la pressione su chi partecipa a questo processo è enorme. Ma, dall'altro lato, c'è una crescita di consapevolezza di qualcosa di completamente nuovo, di un nuovo modo di comunicazione libero dal consueto linguaggio politico. In tutto questo, nonostante la continua criminalizzazione della protesta e dei manifestanti, sento il desiderio dei cittadini di articolare le loro richieste di giustizia sociale nel lungo periodo.

 

Quali sono le ragioni dietro l'ostruzionismo di cui parli?

 

La strategia è piuttosto chiara: dividere i manifestanti in piccoli gruppi in modo da rendere facile la loro rimozione dalla pubblica attenzione. I Plenum e le proteste si legittimano a vicenda, sono una spina costante nei fianchi del sistema perché incoraggiano le persone ad unirsi e pensare. Il sistema è stato scosso, e la sua unica risposta è diffondere paura ed intimidazione. A questo riguardo, la notizia del giorno è la denuncia di Human Rights Watch, che ha ufficialmente confermato che la polizia ha usato violenza in modo ingiustificato contro 19 cittadini bosniaci, tra cui donne e alcuni minori.

 

Quali questioni hanno avuto il più grande consenso tra i cittadini di Sarajevo e quali, invece, saranno abbandonate presto?

 

Tre richieste sono state approvate all'unanimità, mentre una, sulla costituzione di un "parlamento di esperti", è passata con il voto di maggioranza. Dopo la prima ondata di "moralizzazione" in seguito alla diffusione delle immagini degli edifici danneggiati, i cittadini presenti al Plenum e alle manifestazioni hanno riconosciuto le ragioni e le cause della violenza. La "decriminalizzazione" delle proteste e dei manifestanti, le responsabilità della polizia e del sistema che la sostiene, insieme alle altre due richieste - la revisione degli accordi di privatizzazione e la riduzione degli stipendi e dei benefici della classe politica - sono definitivamente le questioni che costituiscono le fondamenta di queste proteste. I cittadini non hanno condiviso le tesi che tutti i politici hanno propugnato fino ad ora e la solidarietà e la comprensione sono sentimenti chiave, non solo a Sarajevo ma in tutte le città in cui si tengono i Plenum. Il sistema è marcio e corrotto, e i cittadini hanno riconosciuto questa "cupola mafiosa" e non la tollereranno più a lungo.

In cosa consiste esattamente la creazione  di un "parlamento di esperti" e cosa implicherebbe la sua realizzazione nel caso in cui il Parlamento accogliesse la richiesta?

 

Si tratta di una delle questioni più discusse dal Plenum e richiede una maggiore elaborazione. I tentativi di implementazione da parte degli attuali politici implicherebbero la formazione di un proprio governo di esperti e la continuazione del loro "furto esperto". Al contrario, il Plenum non vuole vedere gli attuali politici a lavoro grazie ad un mandato tecnico, ma piuttosto vuole individuare persone competenti, indipendenti e preferibilmente senza alcun legame con nessuno dei partiti, la cui funzione sarebbe di proporre ed assicurare che il governo lavori all'implementazione del "programma di rilancio".

 

C'è poi la richiesta di una revisione delle privatizzazioni. Secondo la tua personale opinione, ci sarà l'opposizione dei politici che di fatto hanno permesso questo tipo di privatizzazioni?

 

Certamente ci sarà opposizione. Tutte le richieste che incoraggiano lo smascheramento del sistema politico-mafioso incontreranno resistenza. La pratica di iniziare le indagini è diffusa in Bosnia. Tuttavia, esse generalmente si concludono senza portare a niente, oppure con accuse formali che assicurano la continuazione del "business as usual". Un altro aspetto interessante è la questione delle "reazioni incrociate" che di fatto implicherebbe il riposizionamento di una nuova élite al posto della vecchia. 

 

Il Plenum ha avvertito che l'accettazione delle richieste non implica automaticamente la loro implementazione. Cosa può accadere se il Parlamento del Cantone di Sarajevo non dovesse accettare le richieste del Plenum?

 

Le richieste non possono che essere accolte. Il processo che si è messo in moto non può essere fermato. Se le domande dovessero essere rigettate, il messaggio sarebbe l'assoluta resistenza del sistema a qualsiasi cambiamento. Sarebbe comparabile all'indifferenza del sistema alle richieste formulate in tutta la Jugoslavia nel 1968. Se, all'epoca, il sistema si fosse aperto un po' per volta, probabilmente sarebbe sopravvissuto più a lungo. Dal 7 febbraio i politici hanno espresso comprensione nei confronti dei manifestanti. Naturalmente ci aspettiamo costanti tentativi di sabotaggio e delegittimazione delle manifestazioni e dei manifestanti. In queste circostanze è praticamente impossibile prevedere cosa accadrà. Ci sono diversi scenari, ma la cosa più importante è fare il possibile per assicurare il funzionamento del Plenum. Il Plenum offre spazi di dialogo e decisione, mentre le proteste sono una forma di pressione pubblica. Sono anche uno spazio di politica e "guarigione", per canalizzare energia e rabbia attraverso la formulazione di richieste e di soluzioni.

 

Qual è l'attuale situazione a Sarajevo? Come vedono i residenti le proteste e i Plenum?

 

Io ho la sensazione di stare in una stanza con molti specchi distorti. Euforia, speranza, silenzio, paura, inerzia... c'è tutto. Una parte della popolazione partecipa alle proteste, mentre la restante parte le osserva da lontano come se fossero un inconveniente. Ogni giorno, dalle 200 alle 300 persone scendono in strada di fronte al palazzo presidenziale, con una disinformazione costante, che ha trattato i manifestanti come un impedimento al traffico.

 

Il Plenum è molto partecipato e dai 1000 ai 1200 cittadini vengono regolarmente al centro giovanile. Dal primo Plenum, dove ci fu il maggior ostruzionismo, le autorità hanno sviluppato un modo di "accettazione" delle richieste dei cittadini come è avvenuto a Tuzla. Ma Sarajevo non è Tuzla: l'ossatura di questa città non sono i lavoratori lasciati a casa dalla bancarotta delle loro aziende, ma gli impiegati dell'apparato amministrativo e delle sue agenzie, dipartimenti e ministeri a tutti i livelli: dai municipi, ai cantoni e alle entità fino al governo della Federazione. Questa macchina è il freno più grande, che osserva e borbotta dai margini. Ovviamente non tutte le persone all'interno di questo apparato pensano allo stesso modo. Ci sono anche quelli che guardano con favore ai Plenum come l'unica possibilità per il cambiamento. Tuttavia, questo gruppo di persone è un mistero. Decideranno di essere ostaggi delle burocrazie per cui lavorano? Capiranno che anche loro possono essere nelle strade a nei Plenum perché senza correre rischi anche personali nessuna "rivoluzione" è possibile?

 

Perché hai deciso di prendere parte alle proteste e di partecipare all'organizzazione del Plenum?

 

Ho deciso di partecipare osservando le proteste a Tuzla e la spirale di violenza nella mia città, guardando i politici accusarsi l'uno l'altro mentre contemporaneamente accusavano i cittadini, mentre ascoltavo Lagumdžija dire che i cittadini di Sarajevo sono peggio di Karadžić, o quando ho visto con i miei occhi la rabbia della polizia anti-sommossa e la volontà di spazzare via tutto per "eseguire gli ordini".

Ho deciso di partecipare per cambiare l'attuale stato di arroganza, paternalismo... Sono anche stata costretta dalle sensazioni che ho provato fuori dalla stazione di polizia, insieme a quei genitori che non sapevano dove fossero i propri figli e che avevano paura di chiedere, di avvicinarsi... Semplicemente mi sono sentita chiamata. Non potevo, non volevo, solo osservare questi eventi, criticarli da lontano. Sono consapevole del fatto che ogni persona che si oppone al sistema  è un "nemico" e sono consapevole della complessità e della fragilità del Plenum e della dinamica delle proteste. E' per questo che mi sono unita ai manifestanti. Volevo dare il mio contributo, per quanto piccolo potesse essere. E' iniziato tutto il 14 febbraio, quando questa storia ha iniziato ed essere scritta. Ed io mi sono ritrovata, insieme a molti cittadini di Sarajevo, ad alzare la mano e votare a favore di quelle quattro famose richieste. Sono orgogliosa di essere qui e di testimoniare la resistenza alle menzogne e alle manipolazioni.

 

Quanti cittadini ci sono attualmente al Plenum? Sono aumentati rispetto al primo Plenum? Come vedi l'esperienza della democrazia diretta? Quanto è efficiente il Plenum nel giungere ad una decisione collettiva?

 

Sin dall'inizio, il Plenum ha circa 1000 partecipanti, e le richieste ricevute sono state più di 2200. I gruppi di lavoro coinvolgono attivamente un minimo di 300 persone che lavorano volontariamente. Il Plenum è uno degli "spazi" più persistenti che io abbia mai avuto modo di osservare. La democrazia diretta è un'esperienza incredibile, diversa e difficile da immaginare. Ogni giorno imparo qualcosa su me stessa e sugli altri. Le proteste hanno posto un freno simbolico al "collettivismo etnico" e mostrato che il coraggio individuale basato sulla solidarietà personale e politica esiste. La domanda di giustizia sociale è ciò che unisce i manifestanti, dimostrando che la società della BiH può pensare e mostrare il lato della storia raccontato dai cittadini, senza le solite colorazioni etno-nazionaliste. Le proteste hanno aperto il processo di lustrazione a tutti i livelli, non solo nel governo, ma anche nel settore privato e in quello non-governativo. Siamo tutti sotto esame ogni giorno, ogni decisione ed ogni errore è parte di una pratica politica collettiva. Ciò che è in corso è una formulazione di nuovi discorsi e la ricerca di un modello funzionale, trasparente ed aperto. 

 

Qual è il tuo commento rispetto ai tentativi di ridurre le proteste ed i Plenum a questioni etno-nazionali, e di sostenere che solo i bosgnacchi stanno protestando mentre croati e serbi non sono in alcun modo coinvolti nelle proteste?

 

Si dice che quando un regime è in pericolo, colpisce nei modi che meglio conosce. I romani lo hanno descritto al meglio con l'espressione "divide et impera". La realtà è che le attuali manifestazioni sono parte di un più lungo processo e ciclo di proteste. Già durante la Bebolucija i cittadini hanno mostrato di essere in grado di distinguere e articolare nonostante e oltre l'etno-nazionalismo. E' normale che all'interno di un movimento di massa esistano differenti opinioni e credenze, incluse diverse forme di patriottismo. E' importante, tuttavia, sottolineare il dialogo, la comprensione, l'accettazione reciproca, la differenza e la creazione di una consapevolezza collettiva del fatto che esiste una "bandiera" delle proteste e dei Plenum, che è quella della giustizia sociale. Negare le differenze è come negare la democrazia genuina dei Plenum la cui apertura può essere strumentalizzata, ma che resta la migliore strategia per creare un fronte di solidarietà senza nazionalismi o altri "ismi". E' necessario comprendere che nessuno parla nel nome di qualcun altro e che ciascuno ha il diritto di parola ed il dovere di portarne avanti il messaggio.

 

Esiste la possibilità che le proteste si diffondano in Republika Srpska (RS), dove le élite socio-politiche hanno lavorato duramente, negli ultimi giorni, per dimostrare ai cittadini che l'obiettivo delle proteste è la distruzione della loro entità?

 

Come ho già detto, quello che sta accadendo è una lotta universale per la giustizia sociale, non un tentativo di colpo di stato. I tentativi di presentare gli eventi come uno sforzo coordinato per distruggere gli accordi nazionali sono falsi. Le persone non sono più interessate alla retorica degli interessi nazionali vitali. Le persone vogliono istituzioni che funzionino nell'interesse dei cittadini. Questa è una protesta contro l'egemonia dei partiti politici, che sono stati come sanguisughe negli ultimi venti anni, succhiando dalla fibra economica, culturale e sociale del paese. Le proteste vogliono restituire il messaggio che il bene pubblico è davvero un bene pubblico. Quello che la maggioranza non sa o non vede è che ci sono state e ci saranno proteste anche in RS. C'è una spirale di resistenza che si diffonde ogni giorno. Le proteste attuali nella Federazione sono idealmente connesse con gli eventi della Bebolucija, dove per la prima volta i cittadini bosniaci hanno smesso ciecamente di credere che l'appartenenza etnica e nazionale sia la chiave di ogni evento. LA RS è in crisi e anche lì i cittadini sono arrabbiati e affamati. Ma lì c'è un sistema diverso ed un diverso controllo del territorio. Più centralizzato: quelli che governano, lo fanno in modo più brutale ed efficace. Un Plenum ha iniziato ad aggregarsi anche a Brčko, e le proteste hanno avuto luogo anche a Banja Luka e Prijedor, e persino il fatto che dopo le proteste da parte dei veterani di guerra e i soldati smobilitati, il governo si sia affrettato a fare promesse ed accordi al di là delle porte chiuse è il segno che persino in RS il conto alla rovescia è iniziato.

 

Sei in contatto con i manifestanti in altre città? C'è una comunicazione regolare con altri Plenum e ci sono strategie di azione comune?

 

Ci sono numerosi canali orizzontali di comunicazione e contatto. All'ultimo Plenum di Sarajevo hanno partecipato attivisti di Tuzla, e sono arrivate delegazioni da Konjic, Fojnica e Mostar. Le informazioni stanno fluendo, ma noi stiamo lavorando di più alla comunicazione "formale" con l'obiettivo di definire ed implementare le richieste comuni. Personalmente ritengo che i Plenum stiano formulando richieste che non riguardano soltanto cantoni specifici, ma che sono di interesse comune. Tutto questo è fatto con lo spirito di costruire una struttura migliore, e non per distruggere qualcosa. La domanda corretta da porsi non è se l'attuale sistema è necessario o no, ma come trasformarlo in un sistema funzionante. Venti anni di retorica sulla riforma della Costituzione ha condotto la società bosniaca all'attuale situazione.

 

Tu sei italiana, ma vivi a Sarajevo da quindici anni ed hai trascorso gli ultimi venti anni nei Balcani. Come vedi da questa posizione la complessità della società bosniaca e le condizioni sociali in questo paese?

 

Vengo dal sud Italia, da un piccolo paese della Calabria, dove la mafia, il ladrocinio e la corruzione sono sempre presenti. So cosa significano paura e silenzio, e quanto sia difficile dire qualcosa apertamente allontanandosi dall'"anonimato di sicurezza". In questo senso, non credo che la Bosnia sia così diversa, eccetto che per la particolare costruzione dell'etno-collettivismo, una sorta di "malattia" che soffoca ogni tentativo di cambiamento, o per lo meno così è stato fino ad ora. Per questo credo che una scintilla di democrazia quale è il Plenum possa soltanto provenire da posti che non hanno niente ma hanno tutto da inventare, costruendo un sistema a partire da zero.

 

Quanto sono simili le proteste bosniache rispetto a quelle che hanno avuto luogo a partire dal 2011 in molti paesi europei e dell'America Latina?

 

Siamo tutti uniti dalla condizione dell'ingiustizia. In tutti i paesi la democrazia diretta ha mostrato limiti, disfunzionalità e corruzione. I politici hanno tessuto il loro mondo e non permettono a nessuno di entrarci. Collaborano a vicenda, si imitano e si sostengono l'un l'altro. E' sufficiente osservare a livello globale la macchina politico-economico-corporativa e diventa chiaro che le élite politiche perseguono soltanto i propri interessi personali, politici e di partito, mentre i cittadini sono lì soltanto per esprimere un voto pro-forma, per pagare le tasse e diventare carne da cannone quando osano ribellarsi. Anche se non mi piacciono le divisioni del tipo "noi" e "loro", penso che tutte queste proteste abbiano in comune il fatto che i cittadini si sentono sfruttati e i politici dichiarano di sostenere la democrazia oltre i confini, ma soffocandola in casa.

Che ruolo hanno giocato i social media in queste proteste, ed in generale nelle manifestazioni nel mondo negli ultimi anni?

Se ci fosse stato un blocco completo di Internet - Facebook e soprattutto Twitter - niente sarebbe accaduto. Il mondo ha cambiato la sua posizione rispetto agli eventi in Bosnia grazie agli attivisti che su Twitter hanno diffuso informazioni e dialogato con i giornalisti stranieri, hanno ispirato le persone in altre città, e che continuano a giocare un ruolo alternativo. Video, immagini, attitudini, sostegno... tutto questo è parte di una conversazione orizzontale, bi-direzionale e costruttiva tra cittadini e politici, a livello locale ed internazionale. Ogni Plenum, grazia alla sua pagina web, può fornire ai cittadini informazioni accurate, mentre i social network provvedono alla comunicazione informale; gli streaming video dei Plenum permettono a chi non può partecipare di seguire le discussioni e le azioni.

 

Esiste la possibilità che, come sostengono alcuni analisti, si possa raggiungere un punto di saturazione e le proteste termineranno?

 

Si tratta di un processo totalmente aperto, che richiede un'incredibile quantità di energia, tempo, disciplina, fiducia, e tutto questo viene costruito, ogni giorno. Ciò che è incoraggiante è la trasparenza del sistema dei Plenum, che non ha leader e dove ciascuno dà e contribuisce come meglio può.

 

Come giudichi le accuse secondo cui dietro alcuni Plenum e proteste in Bosnia ci siano certe élite e gruppi di interesse? Dichiarazioni simili si sentono nei media e da parte di alcune figure pubbliche...

 

Se consideriamo che a Sarajevo il Plenum è seguito da circa 1000 cittadini, è ovvio che oltre alle persone oneste, ci sono poliziotti in borghese, elementi infiltrati, provocatori e tutto quanto fa parte di un processo di massa. Ma la reazione delle élite al governo è stata una reazione disperata. Credo che all'inizio, non riuscivano a credere che non ci fosse nessuno dietro al Plenum, nella loro convinzione che le persone siano semplicemente pronte ad accettare un nuovo modello. Poi hanno tentato di bloccare il Plenum. Queste pressioni sono ancora presenti, e l'unico modo per contrastarle è fare in modo che sempre più persone si uniscano al lavoro del Plenum, mantenendolo sempre vivo attraverso suggerimenti, discussioni e voto.

 

Quanto la rivolta dei cittadini ha smascherato l'impossibilità fondamentale di funzionamento dell'attuale modello politico in Bosnia, e quanto questo modello è da accusare per la difficile situazione sociale in questo paese?

 

Il sistema non funziona e la sua disfunzionalità è usata strategicamente da tutte le parti. I blocchi etno-nazionalisti hanno paralizzato per anni la riforma sanitaria, portato avanti privatizzazioni disastrose, e distrutto il sistema di welfare. La novità di queste proteste è che la giustizia sociale è diventata qualcosa di concreto e reale, qualcosa per cui qualsiasi organismo di governo è chiamato a lavorare, indipendentemente dal livello di giurisdizione e di costituzione. Quando parliamo di un modello politico, dobbiamo capire che non stiamo parlando di una costituzione, di una entità o di un cantone, ma di una ruberia sistematica, nascosta dietro la cortina etnica. I cittadini hanno visto che il re è nudo, e questa volta hanno deciso di fare qualcosa, assumersi le responsabilità e costruire qualcosa che molti credevano impossibile. In questo senso, gli avvenimenti del 7 febbraio sono stati un punto di svolta. La violenza non risolve i problemi, ma il fuoco, il fumo, gli arresti e la brutalità hanno di fatto creato un vuoto riempito dal Plenum che si è trasformato in qualcosa di assolutamente inaspettato: un esercizio di democrazia diretta dove i cittadini ripensano l'intero sistema e lo fanno a proprio nome.

 

* Valentina Pellizzer è direttrice di OneWorld-SouthEast Europe, femminista e attivista per i diritti umani

 

 

Serbia: "Stipendi, non elezioni"

 

Marcia di protesta degli operai della Yumco (foto: okradio)

Marcia di protesta degli operai della Yumco (foto: okradio)

 

Nel mese segnato dalle proteste in Bosnia Erzegovina, anche in Serbia è stagione di scioperi, motivati da ritardi nel pagamento degli stipendi e dalla mancata regolarizzazione dei contributi previdenziali. Con le elezioni politiche di marzo si preannuncia un’intensificazione delle proteste

 

Le proteste che hanno avuto luogo in Serbia nell’ultimo mese sono state organizzate dai lavoratori di tre aziende in “ristrutturazione”. In questa posizione si trovano 153 società serbe, che lo Stato, attraverso investimenti diretti e il ripianamento dei debiti, dovrebbe predisporre per la vendita e la conseguente privatizzazione. Il piano del governo serbo, secondo l’impegno preso con la Banca mondiale, è di concludere il processo di ristrutturazione entro l’estate. Questo potrebbe significare la chiusura delle aziende per le quali non si trovi un acquirente, e il possibile licenziamento di alcune decine di migliaia di persone.

 

Stipendi bassi e in forte ritardo

Per molte aziende la ristrutturazione è diventata una condizione quasi permanente, a seguito della quale non vengono garantiti né il pagamento degli stipendi ai lavoratori, né il versamento dei contributi previdenziali, né la copertura sanitaria. In Serbia, circa 50.000 impiegati non ricevono lo stipendio ormai da anni. La maggior parte di loro sono proprio lavoratori di aziende in fase di ristrutturazione. I sindacati sommano a questa cifra le circa 100.000 persone che hanno un lavoro, ma i cui stipendi sono in arretrato anche di 12 mesi. Sono queste le ragioni dietro alle tre proteste che si sono verificate nel corso delle ultime settimane. Nel frattempo sono state indette le elezioni politiche anticipate, e la campagna elettorale, che vede i politici a caccia di voti, è purtroppo una delle rare occasioni in cui i lavoratori possano vedere accolte le loro istanze.

I lavoratori della fabbrica Yumco di Vranje hanno dichiarato lo sciopero generale a gennaio. La protesta si è però radicalizzata il 12 febbraio, quando circa mille operai hanno bloccato per dieci ore l’autostrada per la Macedonia.

A discutere con Osservatorio Balcani e Caucaso della situazione di quello che fu un gigante dell’industria tessile jugoslava, e che oggi dà lavoro a più di 1.700 persone, c’è Snežana Veličković dell’Associazione sindacati liberi e indipendenti: “Gli stipendi sono inferiori al costo minimo del lavoro, tra i 7.000 e i 15.000 dinari al mese [tra 60 e 130 euro, nda]. Oltre a essere bassi, gli stipendi non vengono pagati. Al momento le mensilità in arretrato sono otto, l’ultimo stipendio pagato è quello di maggio; alcuni lavoratori hanno ricevuto la retribuzione di giugno, ma questo è accaduto più di due mesi fa. I libretti sanitari non sono stati convalidati. Io mi sono offerta di portare quelli del governo casa per casa perché vedano la miseria in cui vivono i lavoratori, che non ricevono abbastanza né per mangiare né per pagare le bollette. La situazione è simile a quella di altre fabbriche di Vranje, e ci sono casi di famiglie in cui entrambi i coniugi, pur lavorando in fabbriche diverse, non percepiscono lo stipendio da mesi”.

Con l’ultima protesta e il blocco dell’autostrada, i lavoratori della Yumco sono riusciti a negoziare un incontro con i rappresentanti del governo, con i quali è stato raggiunto un accordo che prevede l’erogazione di un sussidio equivalente a due stipendi minimi (lo stipendio minimo mensile è di circa 200 euro) e la convalida dei libretti sanitari.

Nello stesso periodo si sono mobilitati anche i lavoratori della Fabrika vagona (Fabbrica di vagoni) di Kraljevo, nella Serbia centrale. La protesta ha assunto toni più agguerriti il 10 febbraio, quando i dipendenti della Fabrika, a cui nel frattempo si erano uniti i dipendenti di altre due imprese, hanno occupato i binari della ferrovia, interrompendo così la circolazione dei treni nella regione.

 

Baratro esistenziale

Ai lavoratori che fanno parte di questo collettivo non sono state corrisposte in media diciotto mensilità; inoltre, i libretti sanitari non sono stati convalidati, e i contributi previdenziali non sono stati regolarizzati. I lavoratori sono ufficialmente in sciopero da maggio del 2013, ma non hanno ancora ottenuto nulla. Molti di loro hanno dichiarato di trovarsi di fronte a un baratro esistenziale. Una delle richieste era che venisse corrisposto loro l’equivalente di due paghe minime, denaro necessario per coprire le spese quotidiane e pagare le bollette.

Dal momento che neanche questa richiesta è stata accolta, i dimostranti hanno deciso di inasprire la protesta bloccando la ferrovia, e solo così sono riusciti ad avviare un negoziato con il governo. Tuttavia, la replica li ha lasciati insoddisfatti: la maggior parte delle richieste non potrà essere accolta prima della formazione del nuovo governo dopo le elezioni. Si è quindi deciso di continuare la protesta.

Richieste simili sono state avanzate dagli operai della fabbrica di veicoli ferroviari Želvoz di Smederevo, che chiedono la validazione dei libretti sanitari e il pagamento delle ultime sei mensilità. Questo è solo l’ultimo episodio di una mobilitazione che dura ormai da anni, da quando cioè la fabbrica è stata venduta a un consorzio romeno nel 2007. A seguito del mancato rispetto degli obblighi previsti dal programma sociale e della discontinuità nell’attività produttiva, il contratto di privatizzazione è stato annullato nel 2011, e la partecipazione di maggioranza nella società per azioni della Želvoz è stata acquisita dallo stato.

L’ultima protesta ha avuto luogo a metà gennaio: gli operai hanno fatto irruzione nella sede del governo municipale, dove alcuni hanno anche trascorso la notte; inoltre, è stato proclamato uno sciopero della fame, e sono state bloccate alcune vie della città. Il 16 febbraio, dopo un mese di blocco, gli operai hanno ottenuto che il vicepremier Aleksandar Vučić, in visita a Smederevo per la campagna elettorale, si rivolgesse a loro durante il suo comizio.

Saša Milovanović, presidente del Movimento sindacale dei lavoratori (sindacato attivo presso la fabbrica Želvoz) descrive per Osservatorio le fasi iniziali dell’incontro: “Ci è stato detto che stava arrivando Vučić, quindi ci siamo diretti verso la sede del suo partito, dove il politico avrebbe dovuto fare la sua apparizione. Tuttavia, simpatizzanti e membri del partito hanno cominciato a infiltrarsi tra le nostre fila, per dare l’apparenza di essere un unico raggruppamento. Allora noi della Želvoz abbiamo deciso di distinguerci da loro sedendoci per terra, visto che il nostro non era un raduno di carattere politico, ma di natura sindacale e socio-economica. E dato che ci sentiamo cittadini di seconda classe - mentre i politici sono di prima classe - ci siamo seduti per terra per marcare questa differenza”.

In quell’occasione, ai lavoratori della Želvoz è stato promesso che lo stato aiuterà la fabbrica a restare aperta, e che nella settimana seguente sarebbero stati affrontati i problemi più urgenti. Anche se gli scioperanti hanno poi accettato di cessare l’occupazione del municipio, un nuovo raduno è annunciato per il 3 di marzo nel caso in cui l’accordo non dovesse essere rispettato.

 

Proteste operaie che durano da anni

Gli scioperi a Vranje, Kraljevo e Smederevo fanno parte di una serie di proteste operaie che in Serbia durano già da anni. Esse sollevano richieste molto simili a quelle che in questi giorni hanno portato sulle strade il popolo della Bosnia Erzegovina, dove molti dimostranti sono appunto operai di aziende privatizzate o in bancarotta, privati dei loro diritti.

Resta da vedere in che misura i lavoratori e i sindacati in Serbia riusciranno, come hanno fatto le proteste in Bosnia Erzegovina, a portare l’attenzione sulla povertà, sulle disuguaglianze e sulle malversazioni della privatizzazione quali questioni chiave del processo di transizione. Nonostante buona parte della popolazione in Serbia (e in Bosnia Erzegovina) sia afflitta da questi problemi, i partiti politici non sembrano prenderli seriamente in esame, né si differenziano in termini di approccio. Anche se adesso la rivolta generale contro la povertà e le disuguaglianze in Bosnia Erzegovina appare comprensibile anche alle élite politiche, alla comunità internazionale e alle organizzazioni non governative, resta il fatto che fino a tre settimane fa la questione era presente solamente nella sfera invisibile e isolata delle svigorite proteste operaie.

Uno degli slogan delle recenti proteste in Serbia è “Stipendi, non elezioni”, il che segna probabilmente la distanza dalle élite politico-economiche.

 

 

Le proteste a Sarajevo

e il risveglio della Bosnia Erzegovina

 

Una società intorpidita da 20 anni di dopoguerra

e immobilismo ha deciso di ribellarsi

a una classe politica irresponsabile.

Il nazionalismo non è la chiave di lettura

 

 

Limes oggi  su  repubblica.it   di  Adriano Remiddi - 20 febbraio 2014



[Macchine bruciate durante le proteste a Sarajevo. Foto di Adriano Remiddi]

SARAJEVO - Gli ultimi 10 giorni hanno visto sorgere in Bosnia Erzegovina la più importante manifestazione di protesta civile a partire dai tempi della formazione della Repubblica federale, nel 1995. È da oltre una settimana che le manifestazioni di dissenso - dopo aver preso il là nei principali centri ex industriali di Tuzla, Brčko, Bihać - interessano anche la capitale Sarajevo e cittadine periferiche come Zenica, Mostar, Kakanj, Sanski Most, Gračanica, Zavidovići, Bugojno e Orašje.

 

La mobilitazione è iniziata a Tuzla, nel nord-est del paese, dove mercoledì scorso oltre 500 operai hanno manifestato davanti al governo cantonale puntando il dito contro il processo di privatizzazione degli ex colossi industriali di proprietà statale che ha lasciato senza lavoro nè protezione oltre 10 mila lavoratori.

 

La protesta, che chiedeva al governo cantonale misure urgenti per far valere i diritti contrattuali o almeno di pilotare la bancarotta delle aziende in modo da ottenere i sussidi di disoccupazione e recuperare le spese di previdenza sociale, è rapidamente montata. Il giorno seguente i partecipanti sono diventati alcune migliaia e davanti al rifiuto delle autorità di dialogare, la mobilitazione è sfociata in scontri con la polizia e nell’incendio della stessa sede del governo cantonale.

 

A due giorni di distanza, la protesta si è diffusa anche nella capitale Sarajevo, dove non ci sono grandi poli industriali in declino ma la disoccupazione - come nel resto del paese - raggiunge il 30%. Qui, come negli altri centri urbani, la manifestazione ha avuto un carattere spontaneo, è stata priva di affiliazioni partitiche e non è stata supportata dai sindacati nè caratterizzata da richiami etnici o nazionalisti.

 

Come accaduto a Tuzla e Zenica, anche a Sarajevo una componente circoscritta di manifestanti ha radicalizzato la protesta, dando alle fiamme il palazzo cantonale, distruggendo gli uffici e saccheggiando alcuni chioschi adiacenti. Nel caso di Sarajevo, la polizia ha lasciato agire la frangia violenta senza opporsi, così permettendo la devastazione anche di parte del palazzo che ospita la presidenza tripartita. In questo laissez-faire si potrebbe legge un tentativo di delegittimare l'intero movimento di protesta spostando l’attenzione sulle violenze, palesi e facilmente condannabili.

 

Nei giorni seguenti la partecipazione è scemata, soprattutto nella capitale, senza tuttavia spegnersi. È anzi nato un forte dibattito nella società civile, che legge queste manifestazioni come l’espressione di una protesta trasversale a lungo attesa in un paese bloccato dall’immobilismo politico.

 

La Bosnia Erzegovina, con i suoi 3 presidenti, due entità, un distretto speciale, 10 cantoni e un alto rappresentante internazionale, versa da quasi due decenni in uno stallo istituzionale, economico e sociale. La complessa transizione post-socialista, i danni materiali e morali del conflitto degli anni Novanta, l'assetto costituzionale da questo derivato, l'impudenza di una classe politica cooptata e che non conosce l'alternanza di potere hanno reso il caso bosniaco un unicum in termini di disfunzionalità.

 

Alla distruzione dell'apparato produttivo del paese avvenuta durante la guerra di secessione dalla Federazione jugoslava è seguito un drastico processo di deindustrializzazione, che interessa tutta la regione balcanica. Le privatizzazioni degli anni Duemila delle poche fabbriche statali sopravvissute hanno portato al definitivo fallimento di interi comparti produttivi, alla disoccupazione e all'impoverimento.

 

In un paese già in ginocchio alla metà degli anni Novanta, l'impalcatura istituzionale scaturita dagli assetti post-conflittuali ha rappresentato un ostacolo più che uno strumento per guidare la transizione. Gli accordi di pace di Dayton del 1995, negoziati tra Slobodan Milošević, Alija Izetbegović e Franijo Tuđman sotto la mediazione dalla comunità internazionale, prescrivevano la creazione di una repubblica federale divisa in due entità su base etnica: una unitaria e a maggioranza serbo-ortodossa (la Republika Srpska), l'altra organizzata in cantoni divisi tra la componente croato-bosniaca e quella musulmana (la Federacija).

 


[Carta di Laura Canali]

 

L'assetto istituzionale previsto dalla costituzione di Dayton, redatta in inglese e solo successivamente tradotta nelle lingue locali, avrebbe dovuto consentire l'avvio di una transizione. In 19 anni ogni tentativo di riforma è fallito; gli accordi hanno indubbiamente fatto deporre le armi, ma non hanno posto le basi di un'effettiva pacificazione, proiettando il paese in due decenni di un interminabile dopoguerra.

 

Oggi, l'errore principale sarebbe propio quello di ricollegare le proteste di questi giorni alla guerra, per via di risentimenti etnici o di frizioni nazionaliste. Al contrario, non sono queste le ragioni della mobilitazione. Le piazze sono mosse dal sentimento spontaneo di discredito dell'intera classe politica - della quale chiedono le dimissioni, rifiutando di sottostare al divide et impera su base etno-nazionale che nelle repubbliche ex jugoslave (e soprattutto in Bosnia Erzegovina) ha permesso alle élite di mantenere indisturbata il potere.

 

Proprio il nazionalismo è stato prontamente tirato in ballo a margine degli eventi di questa settimana nel tentativo di delegittimare l'intera protesta. Nel gioco perpetuo del porre gli uni contro gli altri, nel quale l’appartenenza etno-religiosa viene prima della cittadinanza, la politica punta il dito sul fatto che a protestare sono stati principalmente i bosgnacchi, come a Brčko e Sarajevo. L'accusa è apparsa presto inconsistente; se ne ha la prova guardando la mappa delle manifestazioni, che come detto coinvolgono anche Mostar, Tuzla o Bihać, città ancora multiculturali.

 

Quindi, almeno nella Federacija, la partecipazione civile non è indebolita dalla questione etnica; nella Republika Srpska si respira invece un'aria diversa. A Banja Luka per esempio, principale centro della seconda entità bosniaca a maggioranza serba, le piazze non si riempiono. Eppure, i problemi e la frustrazione sono gli stessi, come la mancanza di un'alternativa alla protesta.

 

Nella Republika Srpska, il presidente Milorad Dodik è stato abile nel veicolare i media, facendo diffondere l'idea che le proteste nella Federacija avessero lo scopo di destabilizzare anche l'entità serba. Soprattutto le violenze e le fiamme di Sarajevo e Tuzla sono state usate come strumento per fiaccare la mobilitazione, rievocando gli anni del conflitto con i roghi dei palazzi cantonali bruciati e facendo leva sul senso d'insicurezza e sulla paura. Il gioco pare funzionare se è vero che in quella parte del paese non si è scesi in piazza (per non essere etichettati come traditori), a conferma di come proprio la politica in Bosnia Erzegovina resti una macchina per la produzione di disuguaglianze.

 

All'interno della Federacija, nessuno è ancora riuscito a etichettare le proteste con l'accusa del nazionalismo. Grazie al rifiuto per l'odio etnico, queste hanno goduto di solidarietà anche dall'estero (presso le comunità americane e australiane), prima di diffondersi timidamente ai vicini balcanici, come Belgrado, Podgorica e Skopje. Isolato il nazionalismo e le differenze etno-religiose e condannati gli hooligans autori dei roghi di Tuzla e Sarajevo, la protesta civile punta ora a consolidarsi per non perdere l'inerzia. Nella capitale sono così continuate per circa una settimana manifestazioni spontanee e disorganizzate, dalla partecipazione altalenante: un segno evidente che la protesta è nata dal basso e che ha ora bisogno di essere indirizzata da qualcuno.

 

Al momento, nessuna componente dello spettro partitico del paese è in grado di interpretare credibilmente le proteste e di canalizzare la voce della piazza. Non sembra riscuotere particolare credito Fahrudin Radončić, leader del partito Sbb BiH (Unione per il futuro migliore della Bosnia Erzegovina) e ministro della Sicurezza, le cui dichiarazioni di solidarietà paiono una manovra utilitarista in vista delle prossime elezioni autunnali che, a questo punto, potrebbero essere anticipate. In una società civile notoriamente poco feconda, afflitta da un disimpegno diffuso e dalla frustrazione, manca un leader che possa rappresentare credibilmente la spinta al cambiamento.

 

La protesta rimane per il momento completamente autonoma e comitati di organizzazione vanno diffondendosi sul territorio; a Sarajevo, a partire dallo scorso venerdì 4 assemblee plenarie dei cittadini (plenum građana) sono state organizzate nello spazio pubblico della Casa dei Giovani, Dom Mladih. Un notevole esempio di democrazia diretta che ha visto la partecipazione attiva e ordinata di un migliaio di cittadini, i quali hanno approvato una lista di richieste concrete: la formazione di un governo tecnico ad interim per il cantone di Sarajevo; la revisione delle procedure di privatizzazione e adeguamento salariale; la formazione di un comitato indipendente di inchiesta che chiarisca le responsabilità rispetto agli eventi di venerdì 7 febbraio; il rilascio dei manifestanti arrestati. Concluso il ciclo di consultazioni pubbliche tra cittadini, fino a venerdì 21 l’assemblea si divide in di gruppi di lavoro. Durante il fine settimana si é iniziata a registrare la solidarietà transfrontaliera di noti intellettuali e professori universitari della regione, che stanno convergendo su Sarajevo per partecipare alle assemblee pubbliche.

 

In attesa di capire se da queste assemblee e dai gruppi di lavoro possa scaturire una solida piattaforma di proposta politica, va constatato che per la prima volta l’élite al potere paga per il proprio discredito verso i cittadini mentre già si registrano alcune dimissioni eccellenti: quella dei presidenti cantonali di Sarajevo, Tuzla, Zenica-Doboj, Una-Sana e Bihać, che ritirano contestualmente tutte le giunte dei propri ministri.

 

Se le assemblee dovessero tradire le grandi aspettative di queste ultime ore, ovvero se il malcontento non si dovesse tradurre in una forma leggibile e costruttiva di dissenso, la frustrazione per un'occasione mancata potrebbe avere effetti pericolosi e degli imprevedibili sviluppi. Una società pienamente democratica deve essere in grado di tramutare una frattura apertasi nella società in effettiva rappresentazione politica. Se ciò non avviene c’è il rischio che l’insofferenza si esacerbi e che riemerga in forme più radicali.

 

Questa settimana potrebbe dunque sciogliere molti nodi. Servirà a verificare non solo la reale compattezza e la credibilità del collettivo nato dalle assemblee dei cittadini, ma anche il ruolo che vuole avere l'Unione Europea. Bruxelles ha organizzato le visite dell'Alto rappresentante Catherine Ashton (prevista per venerdì 21) e del commissario all'Allargamento Štefan Füle (avvenuta lunedì 18).

 

È presto per dire se la protesta in Bosnia Erzegovina sia l’inizio di una primavera, ma è certo che nel paese sta accedendo qualcosa di nuovo e non è detto che non possa servire da esempio per i suoi vicini.

 

 

Sarajevo, per la dignità dell'Europa

 

 

   balcanicaucaso.org  di Emilio Molinari -  18 febbraio 2014

Sarajevo (Foto A. Rossini)

 Sarajevo (Foto A. Rossini)

 

Le proteste in corso in Bosnia Erzegovina e il prossimo voto per il Parlamento europeo. Una riflessione che parte dal movimento di solidarietà con i Balcani negli anni '90. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Se qualcuno in vista delle elezioni europee volesse capire qualcosa di più del lato oscuro dell'Unione europea, del fiscal compact e del vincolo del 3%, non dovrebbe guardare a Berlino. Dovrebbe prendersi una settimana di ferie e correre in Bosnia Erzegovina: a Zenica, Tuzla, e soprattutto a Sarajevo dove la protesta, questa volta sociale ed operaia, attraversa le divisioni della guerra e della pulizia etnica.

 

Viaggiare nella storia

 

Andare a Sarajevo viaggiando nella storia. Da dove 100 anni fa il colpo di pistola di Gravilo Princip diede il via alle due guerre mondiali (la seconda è il prosieguo della prima), partorite dall'Europa del “laissez fair capitalista”, dei nazionalismi e del fallimento delle socialdemocrazie.

Dall'inizio del secolo breve degli orrori, ma anche delle Resistenze, del welfare e del “mai più guerre”. Il secolo delle grandi mattanze, ma anche del ripensamento che accantona il liberismo dalle Costituzioni e giura di fare dell'Europa un continente unito, in pace e senza razzismi.

A Sarajevo inizia il '900, e a Sarajevo finisce, tra le macerie del sogno di poter vivere assieme tra diverse culture.

 

Sarebbe un viaggio negli omissis “democratici e di sinistra”, che non sono solo le foibe, ma secoli di storia. Nei ritorni del liberismo e nella cattiva coscienza dell'Europa, sempre civilissima, sempre mitteleuropea e sempre affascinata dalla superiorità germanica. E nelle italiche e provinciali convinzioni che civiltà e democrazia stanno sempre a Nord, mentre i Balcani sono sempre un buco nero, una barbarie da ignorare, anche se vicini a noi più di Parigi.

 

I Balcani non stanno negli itinerari del popolo democratico e di sinistra, non stanno nella nostra conoscenza, nei nostri interessi. Sono cancellati come luoghi di vita vissuta da una umanità. Si va a fare il bagno in Croazia o a caccia in Bosnia, ma non vediamo...

 

Noi e i nostri ragazzi, per vedere, andiamo a Londra, Berlino, Parigi, Barcellona. Andiamo a cercare conferma del nostro essere civilissimi ed europei e per nasconderci il fallimento, il cannibalismo dei forti, l'autodistruzione delle comunità: sociali, istituzionali, culturali e umane, che avanza.

 

La Bosnia è il luogo dove se ti specchi vedi le brutture dell'anima europea nascosta. Vedi le rotture, le grandi faglie della storia del continente che si incontrano e si accavallano.

 

Identità europea

 

Chi cerca l'identità europea deve andare a Sarajevo tra i brandelli che ancora vivono nella realtà e nella memoria delle tante culture che l'hanno composta: la greca, la romana, la slava, l'ottomana, la mitteleuropea, l'ebraica, l'italiana, la zingara.

Nel febbraio del 1994 iniziavo il mio viaggio dentro la Bosnia, parte di una pattuglia di europei, portatori di un'altra Europa: di riconciliazione, di ambasciate della democrazia locale. Un viaggio più volte ripetuto, lungo tutte le strade di Bosnia, passando in mezzo a macerie reali e metaforiche ancora fumanti, in mezzo ai volti dei criminali di guerra.

 

Chilometri e lunghe discussioni tra di noi, per capire il senso di una tragedia che ci colpiva occhi, mente e cuore attraverso la sistematica distruzione della “casa del vicino”, e i profughi. Per capire il senso delle domanda: di chi la colpa?

 

Del crollo del comunismo? Della fine del coperchio titoista che per decenni ha nascosto antichi odi? Della mancata rielaborazione dei conflitti del passato? Della criminalità organizzata e della corruzione politica, nate nel ventre degli apparati del comunismo? Degli odi delle campagne verso le città? Della svendita culturale degli intellettuali ai nuovi poteri etnico religiosi?

 

Cercavamo le colpe nel passato della ex Jugoslavia, nel fallimento del mondo al di là della cortina di ferro.

 

Il peso del liberismo

 

Tutte cose vere, pertinenti, che non andavano nascoste e giustificate con il pensiero del complotto occidentale. Ma che non coglievano il peso avuto dalla volontà liberista europea su quegli avvenimenti e come questi fossero, in forme diverse, l'anticipazione degli attuali disastri economico-sociali dell'Unione europea, della Grecia, del nostro paese. Non coglievano il perché, mentre infuriava la guerra, il marco tedesco fosse in quelle contrade l'unico elemento unificante.

 

Avremmo dato un senso diverso alla responsabilità della Germania, del Vaticano, dei partiti europei, dell'ambientalismo e persino di alcune figure del pacifismo italiano che soffiarono sul fuoco della separazione della Slovenia e della Croazia dalla Serbia, e poi della Bosnia, dove la separazione era impossibile.

 

Avremmo capito che in quel momento l'Europa applicava la “teoria dello shock” di Milton Friedman, attraverso la quale si impongono ai cittadini le riforme strutturali che altrimenti troverebbero resistenze. Che lo spezzatino delle repubbliche era veicolo per vincoli di bilancio, privatizzazioni dell'apparato industriale, liquidazione di tutto ciò che è pubblico, svendita del patrimonio naturale.

 

E che tutto ciò anticipava l'odierna attualità.

 

Lo potevamo vedere già nei nostri viaggi a macerie ancora calde, nei grandi camion pieni dei tronchi delle foreste disboscate, nei trafficanti di rifiuti tossico/nocivi alla ricerca di discariche, nelle fabbriche smembrate e comprate a prezzo di rottame dalle multinazionali.

 

Oggi lo puoi vedere nell'assalto, con le dighe, all'acqua dei meravigliosi fiumi di Bosnia da parte delle imprese tedesche ed italiane, nelle miniere e nelle acciaierie privatizzate, negli operai licenziati in massa, nella disoccupazione, nel territorio venduto.

 

Un “water grabbing” e un “land grabbing” silenzioso alle porte di casa nostra, che oggi si estende alla Grecia, all'Italia e al suo patrimonio artistico e naturale, che diventa politica nelle direttive e nel Blueprint, il piano europeo che annuncia la monetizzazione di tutte le acque: dei fiumi, dei laghi e delle falde dell'Unione europea.

 

Una comunità di popoli

 

22 anni fa, in Bosnia, si misurava la volontà europea di tenere assieme tutte le culture che l'hanno partorita; la scommessa quindi di poterci unire noi, i fondatori dell'Unione, e trasformarci in effettiva comunità di popoli, non più in competizione, non più portatori di guerre, non vassalli del più forte economicamente o dei poteri transnazionali. La scommessa fu persa e vinse l'avidità.

 

Ecco perché andare a Sarajevo è scoprire la metafora dell'odierno fallimento dell'UE, dei nostri partiti, della nostra arrogante modernità, della cecità e della logica di potenza della Germania che ancora una volta si fa motrice di altre macerie.

 

Tornare a Sarajevo sul ponte della Milijacka, o a Mostar, sul ponte della Neretva, per ripensare all'Europa non come Unione ma come comunità di popoli e di beni comuni.

 

Per ricordare l'origine: la CECA, Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio, beni comuni fondamentali per la ripresa dalla guerra e per l'idea che il 900 aveva dello sviluppo. Per ripensare oggi ad una Comunità Europea dell'Acqua e del Territorio. Una comunità di popoli che fa i conti con il limite delle risorse, e che pensa ad una gestione in comune dei beni essenziali, al vivere assieme sobriamente e nella dignità.

 

 

 

balcanicaucaso.org  di Andrea Rossini  - 13 novembre 2013

 

La Costituzione della Bosnia Erzegovina, il suo sistema elettorale e il censimento da poco conclusosi nel Paese portano al rafforzamento delle divisioni, congelando i confini tra i diversi gruppi religiosi e nazionali. L'analisi di Nenad Stojanović.

 

Si è da poco concluso in Bosnia Erzegovina il censimento generale della popolazione. Ai cittadini è stato richiesto di dichiarare la propria appartenenza nazionale, la religione e lingua materna. Era necessario porre queste domande?

 

No. Qualsiasi sarà il risultato, questo verrà strumentalizzato dalle élite etno-nazionaliste al potere. La cosa è evidente in particolare per quanto riguarda una delle tre domande, quella sulla lingua, che è la più assurda di tutte. Sappiamo tutti che in Bosnia si parla una stessa lingua.

 

Sarebbe stato meglio non chiedere?

 

Certamente. Non è un caso che in Paesi dove esiste una conflittualità latente tra diversi gruppi nazionali o religiosi queste domande vengono evitate. In Belgio ad esempio, a partire almeno dagli anni '50, non viene posta la domanda sulla lingua, proprio per evitare possibili strumentalizzazioni. In Francia, dove una percentuale importante della popolazione è di origine araba, ma anche dell’Africa subsahariana, è assolutamente vietato porre domande sull’identità etnica delle persone. Anche l'esempio del Libano è interessante, mostra i potenziali rischi di un sistema che invece si basa sulle quote etniche, in quel caso etno-religiose. Le richieste di una rappresentanza maggiore da parte di sunniti e sciiti sono state tra i motivi di tensione che hanno portato all'esplodere della guerra nel '75.

 

Quali saranno i possibili effetti del censimento svoltosi in Bosnia Erzegovina?

 

A prescindere da quelli che saranno i risultati, questi verranno strumentalizzati dalle élite al potere e potrebbero portare a rivendicazioni. Ipotizziamo che i bosniaci musulmani siano più del 50%, mentre i bosniaci croati, i cattolici, solo il 10%. Qualche politico bosniaco musulmano potrebbe richiedere un maggior numero di seggi, rimettere in gioco l'attuale sistema delle quote, con ripercussioni sulla stabilità del Paese e il funzionamento delle istituzioni.

 

L'esempio dell'Alto Adige ci può insegnare qualcosa?

 

Anche in Alto Adige questi censimenti erano legati a quote etniche, ed erano ancora più problematici dal punto di vista della democrazia liberale, della libertà del singolo individuo di dichiararsi come voleva. Nei censimenti dell'81, '91 e 2001 infatti era in vigore il censimento etnico nominale. La dichiarazione di appartenenza etno-linguistica di un cittadino era registrata, esisteva una specie di schedatura etnica. Se ti dichiaravi ad esempio tedesco, per ogni cosa che volevi fare nei 10 anni successivi, cercare lavoro nell'amministrazione, beneficiare di sussidi o anche solo candidarti alle elezioni, dovevi entrare nella quota destinata al tuo gruppo, e potevi far parte solo di quella. Una situazione molto problematica dal punto di vista del rispetto dei diritti individuali. Non a caso è nato il movimento dei cosiddetti obiettori etnici, guidato da Alex Langer, che rifiutavano di dichiarare la propria etnicità.

Quindi oggi in Europa sarebbe meglio non avere più strumenti di discriminazione positiva, come quote fisse, per rappresentare i diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici nelle istituzioni?

Penso che sia utile che la diversità della società, linguistica, culturale, etnica, del colore della pelle, di genere, si rifletta nelle istituzioni, più o meno secondo le reali proporzioni dei diversi gruppi presenti all'interno della società stessa. Questo è indice di una società sana, dove tutti hanno la possibilità di accesso e rappresentanza nelle istituzioni.

Per raggiungere questo scopo, però, l'utilizzo di quote rigide, formali, di durata illimitata, non è lo strumento migliore. In primo luogo viola il diritto dei singoli di autodeterminarsi, decidendo se appartenere ad una o ad un'altra categoria o semplicemente di qualificarsi come cittadini di un Paese. In secondo luogo, con il sistema delle quote, i confini tra i gruppi vengono ancora più accentuati, anzi congelati. Prima di arrivare alle quote bisognerebbe provare altri strumenti quali la cooptazione informale o l'approvazione di leggi che in modo indiretto aumentino la probabilità che le istituzioni siano più rappresentative della società, senza che questo sia ancorato a quote formali.

Se proprio le quote dovessero risultare necessarie, ad esempio per aiutare un Paese dopo un conflitto, bisognerebbe affermare da subito che si tratta di quote transitorie. In Bosnia Erzegovina, dopo la guerra, queste quote sono state poste per sempre, e questo non aiuta a superare i conflitti creando una società basata su principi di pari opportunità e uguaglianza.

 

L'attuale forma costituzionale della Bosnia Erzegovina, creata con i trattati di Dayton, non è più adeguata?

 

L'attuale assetto costituzionale non è utile alla creazione di una democrazia sana e stabile nel medio e lungo periodo. Si basa su di un modello di consociativismo etnico che di fatto premia i partiti che pretendono di rappresentare un unico gruppo etnico, invece di incoraggiare partiti multietnici o che superano queste divisioni. Il sistema elettorale in particolare, e quello delle quote etniche, fanno sì che anche quei politici che una volta erano moderati dal punto di vista della retorica nazionale siano diventati più radicali, più estremi. L'esempio più emblematico è quello dell'attuale presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik.

 

Bisognerebbe riformare il sistema elettorale?

 

Sì, dando incentivi a coloro che vogliono superare le barriere affinché possano creare formazioni multietniche o con più chiare connotazioni politiche tradizionali, quali la destra e la sinistra. Oggi in Bosnia Erzegovina non è chiaro quali partiti siano di destra e quali di sinistra, che è la distinzione principale nella stragrande maggioranza dei Paesi.

 

Come?

 

Ci sono sistemi elettorali cosiddetti “preferenziali”, noti in ambito anglosassone come sistemi di “alternative vote”, che permettono al cittadino di scegliere tra due, tre coalizioni che si presentano alle elezioni, elencando i candidati secondo un ordine progressivo. Questo favorirebbe le posizioni moderate e i partiti multietnici, che avrebbero così molte più possibilità di pesare all'interno del processo elettorale. Inoltre le coalizioni sarebbero chiare sin dall'inizio. Quello che avviene oggi in BiH invece è totalmente assurdo, possono passare anche uno o due anni dopo le elezioni prima della formazione del governo. Non a caso lo stesso accade anche in Belgio, Paese che si basa sullo stesso sistema di consociativismo etnico. Il cittadino vota un partito, ma non sa in quale coalizione questo partito finirà. Tutto è poco trasparente, e produce una situazione per cui sempre più elettori si allontanano dalla politica.

 

Anche le circoscrizioni elettorali andrebbero riviste?

Idealmente, ma è una soluzione poco realistica, non sarebbe accettata dai principali attori politici. Però trovo assolutamente anomalo ad esempio che il rappresentante serbo alla presidenza possa essere eletto solo nella RS. Credo che qualsiasi cittadino della BiH, dovunque risieda, dovrebbe poter eleggere uno dei candidati alla presidenza tripartita. Naturalmente anche qui si potrebbero mettere in atto dei meccanismi di ponderazione del voto, come viene fatto ad esempio in Svizzera per eleggere il rappresentante della minoranza francofona nel cantone di Berna. I votanti della RS potrebbero cioè avere un peso maggiore nell'elezione del candidato domiciliato in quella parte del Paese, ma senza averne la competenza esclusiva, cioè anche gli elettori della Federazione potrebbero votare il candidato della RS se lo volessero. Oggi questo non è possibile.

 

In Svizzera viene fatto un largo uso dello strumento referendario. In Bosnia Erzegovina i referendum potrebbero avere un ruolo positivo, ad esempio favorendo l'aggregazione di cittadini su tematiche trasversali rispetto a quella nazionale?

 

Sì, il maggiore ricorso alla democrazia diretta sarebbe una delle riforme possibili, permettendo ai cittadini di avvicinarsi e coalizzarsi oltrepassando gli steccati etnici. Purtroppo anche qui ci scontriamo con notevoli ostacoli. In BiH, quando si parla di referendum, la prima cosa che viene evocata è il referendum sull'indipendenza della Republika Srpska. La possibile obiezione dei serbo bosniaci invece è che la maggioranza sarebbe quella dei musulmani, e sarebbero sempre loro a decidere. Credo però che sarebbe possibile ad esempio escludere da queste votazioni le materie che riguardano il cosiddetto interesse vitale nazionale, e prevedere dei quorum a livello di ogni entità, oltre ad un quorum generale, o maggioranze qualificate. Si potrebbe inoltre cominciare a sperimentare la democrazia diretta non a livello statale, ma a livello locale. A Banja Luka ad esempio, negli scorsi anni, sono state presentate petizioni contro la costruzione di centrali idroelettriche sulla Vrbas, che hanno avuto un grande seguito da parte della cittadinanza ma che sono finite nel nulla perché un vero e proprio diritto al referendum non esiste. Ci sono molti esempi di cittadini che cercano di ribellarsi, ma nel sistema attuale non hanno alcuna voce in capitolo, mentre i politici sono spesso in balia delle lobby economiche.

 

La Costituzione di Dayton verrà cambiata solo con un intervento dall'esterno?

 

Non credo che né gli americani né gli europei avranno il coraggio di fare una vera riforma di Dayton, si accontenteranno di fare dei ritocchi minimi che ad esempio accolgano la pronuncia dei giudici di Strasburgo nel caso Sejdić-Finci, e per il resto verranno incontro alle richieste dei politici locali. Non ho molte speranze in un possibile intervento risolutivo della comunità internazionale per superare l'attuale situazione di stallo.

 

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Nenad Stojanović (Sarajevo, 1976) è un politologo, giornalista e politico svizzero. Ha insegnato scienze politiche alle università di Zurigo, Sarajevo, Friburgo, Losanna, Ginevra e Lucerna ed è attualmente senior research fellow al Centro studi sulla democrazia di Aarau e docente all’Università di Zurigo. Tra le sue pubblicazioni segnaliamo:

A(n) (im)possible reform in BiH? From consociational to direct democracy, Puls Demokratije, (2009)

New/Old Constitutional Engineering? Challenges and Implications of the European Court of Human Rights Decision in the Case of Sejdić and Finci v. BiH. Sarajevo: Analitika - Center for Social Research (con Edin Hodžić), (2011)

Dialogue sur les quotas. Penser la représentation dans une démocratie multiculturelle. Paris: Presses de Sciences Po, (2013). [La versione italiana uscirà nel 2014 presso la casa editrice Il Mulino (Bologna), nella collana "Percorsi"]