Mappe mondialiste

I social media e la rappresentazione dei conflitti

 

 

      vociglobali.it  - 12 January 2015

     Traduzione a cura di Benedetta Monti dall'articolo originale

     di Kim Beestonpubblicato su openDemocracy

  

Ambulanza distrutta a Shuja'iya, una delle molte immagini che hanno dato vita alla guerra sui social media esplosa quest'estate durante l'offensiva militare israeliana a Gaza. Wikipedia/Boris Neihaus. Alcuni diritti riservati.

 

I mezzi di comunicazione tradizionali hanno avuto a lungo il monopolio sul modo in cui sono rappresentate la guerra e le catastrofi. Fino a poco tempo fa, quello che vedevamo era essenzialmente il risultato del lavoro di alcuni fotografi coraggiosi – che entravano ed uscivano dalle zone di guerra – e delle immagini iconiche selezionate dagli editori soprattutto per catturare l’attenzione dei lettori (e quindi per vendere più giornali).

Oggi le cose sono molto diverse: ogni giorno su Facebook vengono caricate 350 milioni di fotografie, ogni minuto su Instagram vengono condivise 27.800 immagini , e il 20% delle immagini scattate nell’intera storia della fotografia sono state realizzate negli ultimi due anni. Si può tranquillamente affermare che stiamo vivendo in un’era elettronica dominata più dalla comunicazione visiva che da quella scritta.

 

Naturalmente la maggior parte di queste fotografie sono istantanee della vita di tutti i giorni, ma un numero sempre maggiore di cittadini comuni utilizza le immagini – attraverso gli account sui social media – per documentare e per aumentare la consapevolezza su conflitti, atrocità e sofferenze di persone lontane. Cosa che, a sua volta, sta modificando il modo in cui raffiguriamo i conflitti nella nostra mente. La tecnologia degli smartphone ha reso in grado i cosiddetti ‘Citizen camera witnesses’ [cittadini testimoni con fotocamera, NdT] di utilizzare i propri cellulari per “produrre una testimonianza pubblica e incontrovertibile di situazioni ingiuste e disastri, in una competizione critica che ha lo scopo di mobilitare la solidarietà globale attraverso il potere delle immagini“. I social media hanno permesso ai propri utenti, miliardi nel mondo, di assumere un ruolo editoriale:‘condividere’ le testimonianze attraverso lo “sharing“, i tweet e la ripubblicazione di immagini che hanno colto la loro attenzione, e interagire con queste immagini in un modo nuovo ed innovativo.

 

Il conflitto Israelo-Palestinese è stato particolarmente rappresentativo di questo fenomeno. A Gaza, gli interessi occidentali, un pubblico globale coinvolto, e l’utilizzo attivo delle fotografie da parte di Hamas e delle Forze Armate Israeliane per spingere le proprie cause, si sono scontrati per produrre una fertile ecologia visuale della guerra.

 

Nell’agosto del 2014, quando la violenza è esplosa nuovamente, è scoppiata una guerra di immagini online, ancor più che in passato. Le armi di questa guerra sono state le immagini di bambini morti, come Shamia, una neonata che era sopravvissuta alla morte della madre per morire poi soltanto quattro giorni dopo quando – così è stato raccontato – Israele tagliò la fornitura elettrica a Gaza. Immagini di civili israeliani che si radunavano sui fianchi delle colline per guardare e esultare per i bombardamenti aerei, alla stregua di spettatori di un evento sportivo armati di sedie, birre e spuntini. E immagini dell’album della vittoria distribuito tra i soldati di Israele che ritraevano il quartiere di Shuja’iya della città di Gaza prima e dopo i bombardamenti (in seguito fatte trapelare al pubblico).

 

I soldati di questa guerra sono stati milioni di utenti dei social media che hanno visto queste immagini, le hanno condivise con amici e follower, e sono intervenuti con le proprie opinioni, creando un campo di battaglia parallelo e con una vita propria, rispetto alla visione degli eventi più ammorbidita con cui si tende a rappresentare le situazioni sui mezzi di comunicazione tradizionali. Una guerra a cui hanno aderito in molti, quando hanno cominciato a parteciparvi celebrità, comeAntony Bourdain, che ha pubblicato un tweet con l’immagine di un bambino morto sulla spiaggia di Gaza. Un’immagine che è stata ripubblicata più di 15.000 volte.

 

Se Israele può aver vinto contro l’arsenale di missili di Hamas, l’esercito internazionale dei cittadini dei social network ha vinto la battaglia che mirava a promuovere, attraverso le immagini, la situazione difficile del movimento a favore di una Palestina Libera. Come ha affermato di recente la professoressa Karma Nabulsi:

 

Su questo sanguinoso campo di battaglia internazionale alla ricerca della verità… dove grazie ai resoconti in immagini e video catturati dai testimoni e spediti direttamente dalle zone delle uccisioni a Gaza chiunque possiede un telefono, un laptop o si trova in un caffè nelle vicinanze di una televisione può vedere le atrocità che è capace di imporre l’esercito di occupazione altamente tecnologico… Israele ha perso.

 

Ma in conseguenza di questo turbinio di attività su Internet, non si può fare a meno di chiedersi: checosa significano in realtà queste cyber-vittorie del XXI secolo?

 

Il concetto di  ‘testimonianza’ – solitamente attraverso le fotografie – da tempo è considerato  parte integrante della rappresentazione della violenza, dei conflitti e dei disastri umanitari. Probabilmente le immagini che documentano corpi sofferenti sono essenziali non soltanto per rivelare la verità, ma per sostenere movimenti di riforma che riplasmino la nostra percezione della povertà e sostengano il lavoro delle ONG. Tale utilizzo delle immagini viene concepito in base alla considerazione che la conoscenza è potere, e che se la gente sapesse cosa sono capaci di fare gli essere umani gli uni contro gli altri, deciderebbe di intervenire. Esporre tali immagini sui social network dovrebbe quindi offrire nuove opportunità per stimolare il sostegno della comunità internazionale contro certe ingiustizie.

 

Al contrario, esistono prove convincenti che suggeriscono come la relazione tra conoscenza e azione non è così semplice. Il sociologo sudafricano Stanley Cohen, attraverso i suoi studi sui meccanismi psicologici e politici sfruttati per scansare realtà scomode, ha rivelato che la consapevolezza mediata delle sofferenze di altre persone genera non molto di più che la ‘negazione’ o la desensibilizzazione. E questo avviene attraverso varie modalità: praticando ostruzionismo, ‘chiudendo un occhio’, disconnettendosi, non volendo sapere o vedendo solo quello che vogliamo vedere. Questo tipo di risposte ci fanno accantonare ciò che sappiamo e permettono all’iniziale consapevolezza (e anche angoscia) riguardo ai sentimenti sollevati dalle immagini, di non andare oltre.

 

Questa ricerca è stata in realtà condotta prima dell’avvento dei social media e dei telefoni cellulari dotati di fotocamera. Infatti, la risposta emozionale alle immagini a cui sono esposte le persone online è un campo ancora non studiato – cosa strana dato la grande diffusione della condivisione di testimonianze.

 

Subito dopo l’incursione militare di Israele a Gaza, nel novembre dei 2012, quando un’altra – sebbene minore – guerra delle immagini è iniziata sui social media, ho iniziato a indagare su come le persone reagivano alle immagini pubblicate sui social rispetto a quelle rappresentate nelle TV o nelle coperture dei giornali di grande diffusione.

 

I dati dell’indagine e l’analisi dei commenti apparsi sui social media in reazione ad alcune immagini che sono diventate virali, e interviste con eminenti membri della comunità del fotogiornalismo, hanno condotto a risultati preliminari secondo cui, sebbene la negazione e la desensibilizzazione siano aspetti della nostra reazione alle sofferenze di persone lontane, esiste la tendenza a relazionarsi con le immagini sulle questioni umanitarie e sui conflitti in modo diverso rispetto alle immagini su un giornale o alla TV.

 

Per esempio, è emerso che gli utenti dei social network spesso prestano più attenzione alle immagini sui social media rispetto a quelle che vedono sui mezzi di comunicazione tradizionali (“Faccio attenzione se un’immagine è stata inviata da amici e familiari”, “Presto più attenzione a quello che si trova sui social media rispetto a quello che è sui giornali”), innescando una consapevolezza su prospettive nuove e diverse e un’ulteriore azione – anche qualcosa di semplice come il riesame o l’approfondimento di una questione letta (“Spesso aumentano la mia consapevolezza o attirano la mia attenzione su alcune questioni che prima non avevo preso in considerazione,” “Spero, attraverso la condivisione sui social, di aumentare la consapevolezza sulla protezione dei diritti umani e promuovere la pace”).

 

Inoltre pare che le immagini viste sui social media sembrino più vere (“Le immagini lo hanno reso più vicino, e la normalità di alcune delle immagini lo ha reso più reali”, “Sembrano essere più oneste, cioè diventano meno immagini dei mezzi di comunicazione e in qualche modo più realistiche“), cosa che le rende più vicine e fa provare più empatia rispetto a sofferenze lontane (“Le immagini aiutano a comprendere meglio la portata e la serietà delle questioni, mi fanno sentire vicino alle persone che stanno vivendo certe situazioni). Il 35% dei partecipanti all’indagine ha detto che la visualizzazione dei conflitti sui social media li ha fatti sentire come se stessero vivendo il conflitto in prima persona. L’azione della “condivisione  di una testimonianza” si è dunque rivelata una fonte potenziale di potere che non deve essere sottovalutato dalle organizzazioni internazionali e dai gruppi per i diritti umani.

 

Tornando al 2014 e nonostante il numero di immagini online senza precedenti sul conflitto di Gaza, il paesaggio dei social media è cambiato nuovamente. Quest’anno è stato segnato dall’introduzione, da parte di Facebook, di complessi algoritmi e di una tendenza crescente delle organizzazioni arimuovere le pubblicazioni che non sono d’aiuto alla loro causa – eventi che hanno alterato il naturale raggio d’azione dei social media. Come ha recentemente riportato la rivista Wired “la funzione News Feed è una presentazione altamente curata, gestita da formule complicate basate sulle nostre azioni intraprese sul sito e in tutto il web”, con l’infelice implicazione che “noi impostiamo le nostre bolle di filtraggio politico e sociale e queste si rafforzano ulteriormente – le cose che leggiamo e vediamo sono diventate altamente di nicchia e organizzate per rispondere ai nostri specifici interessi“.

 

A questo punto soltanto il tempo e un’ulteriore ricerca potranno affermare se e come la visualizzazione e la personalizzazione dei conflitti potrebbero costringere la comunità internazionale ad avere una sorta di momento unitario in questo periodo di crisi. Ma oggi come oggi, la recente vittoria sui social media di #FreePalestine non ha portato a un’indagine della ICC (Corte Penale Internazionale) sui crimini di guerra che la campagna online avrebbe portato alla luce. Al momento sembra che questa non abbia portato ad alcun risultato.

Dalla violenza di genere

all'autodeterminazione delle donne

 

 

vociglobali.it   di Moira Fusco  -   25 November 2014

 

Donna: un mistico viaggio dal quale non si torna, colmo di vissuti multiformi e sfumati, di prospettive che ricercano un senso a volte di difficile ricostruzione, di vite complesse, laddove,  l’appartenenza al proprio intimo essere donna rischia di trasformarsi in una condanna dettata dal “genere”.

 

Nell’era della modernità, dei miti delle false certezze di una società sempre più “liquida” al suono delle illusioni del progresso e di una inarrestabile globalizzazione, qualcosa di assordante irrompe come una presenza costante, conquistando un primato che gioca la certezza del proprio esistere su numeri che inondano notizie di cronaca da fare venire i brividi: “violenza contro le donne”, “violenza di genere”, il fenomeno fa notizia, purtroppo. I casi di femminicidi si moltiplicano e si auto-raccontano con evidenza sconcertante, mentre la Rete compie l’ennesimo sforzo di rapida diffusione nella speranza di generare un aumento di consapevolezza, e forse, di responsabilità. La violenza contro le donne chiama in causa, tra i molteplici fattori, anche la responsabilità, quella collettiva che appartiene a ognuno di noi, giacchè la matrice del fenomeno è puramente culturale, e la cultura è di tutte le società, in primis di quelle più “evolute”. Eppure, andando fino in fondo alla questione, ci si chiede se si possa parlare realmente di evoluzione, o piuttosto, compiendo un atto di umiltà, di involuzione o regressione del genere umano.

 

La Convenzione di Istanbul, strumento privilegiato nella tutela delle donne dalla violenza di genere e domestica, entrata in vigore il 1° agosto e ratificata a Roma il 18 Settembre 2014[1], ha definito la “violenza nei confronti delle donne” – una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sulla differenza di genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

 

La violenza di genere è frutto di una discriminazione contro le donne, che affonda le proprie radici nel  rapporto impari esistente tra i due sessi: una disparità relazionale, retaggio di una società patriarcale, che si compie a scapito di quella parità che ancora fatica a farsi strada. Siamo di fronte a una visione del rapporto uomo-donna che si nutre di stereotipi, e nel caso specifico, di quegli stereotipi di “genere” legati a una percezione rigida e distorta della realtà, di tutto ciò che si intende per “femminile” e “maschile”. Lo stereotipo di “genere”, costruzione socio-culturale che attribuisce ad ognuno dei due sessi caratteristiche e capacità diverse secondo gli assi della gerarchizzazione e complementarietà, condiziona in modo sottile e inconsapevole scelte e comportamenti, rimandando a modelli sociali anacronistici, nei quali le donne non possono più rispecchiarsi, pena la perdita della libertà, del proprio essere donne e dell’autodeterminazione.

 

Cartolina della campagna "Donna è" - 25 novembre 2014

Cartolina della campagna "Donna è" - 25 novembre 2014

 

Tra le diverse forme di violenza, le mutilazioni genitali femminili (MGF): come dimenticare quelle realtà in cui l’essere donna corrisponde ad una stigmatizzazione fin dalla nascita, alla violazione del proprio corpo a tutto tondo finalizzata al controllo del piacere: “Le mutilazioni genitali femminili sono una violazione dei diritti alla salute, al benessere e all’autodeterminazione di ogni bambina”, ha dichiarato Giacomo Guerrera, presidente dell’UNICEF Italia[2], in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili.  Stando alle stime riportate dall’UNICEF – 2014 -, nel mondo sono più di 125 milioni le bambine e le donne che sono state sottoposte a mutilazioni genitali femminili (MGF) o escissione. Nei prossimi dieci anni, si stima che altri 30 milioni di bambine rischieranno di subire questa pratica. Somalia, Guinea, Gibuti ed Egitto, – dove si verifica un quinto dei casi globali – fanno registrare i tassi più alti di diffusione del fenomeno: in questi Paesi oltre il 90% delle bambine e delle donne hanno subito tale pratica. In altri Stati, come Ciad, Gambia, Mali, Senegal, Sudan o Yemen, non vi è stato alcun calo significativo dell’incidenza delle MGF.

 

Dall’Italia alcuni numeri sulla violenza: il 18 novembre a Palazzo Montecitorio presso la Camera dei Deputati, We World Intervita[3], ha presentato il nuovo REPORT contro la violenza sulle donne e gli stereotipi di genere: “ROSA SHOCKING. Violenza, stereotipi… e altre questioni del genere”[4]. Il Report fa seguito all’Indagine di WeWorld Intervita “Quanto costa il silenzio?” sui costi economici e sociali della violenza contro le donne, ed è finalizzato a cogliere la percezione del fenomeno della violenza contro le donne e la concezione del ruolo delle donne, e degli uomini diffuso nel nostro Paese, che alimenta una visione stereotipata con il fine di rimuoverla e di cambiarla. In Italia una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, è stata vittima nella sua vita dell’aggressività di un uomo. 6 milioni 743 mila quelle che hanno subito violenza fisica e sessuale, secondo i dati Istat del 2006[5]. Spesso la violenza esplode nell’ambito delle relazioni affettive e tra le pareti domestiche. Ogni anno vengono uccise in media 100 donne dal marito, dal fidanzato o da un ex. Tra il 2000 e il 2012 i femminicidi sono stati oltre 2200, pari a una media di 171 l’anno. Solo nel 2013, sono state uccise 81 donne: nel 75% dei casi il delitto è compiuto in famiglia.

 

Il ruolo dei Centri Antiviolenza nella lotta alla violenza di genere: i Centri Antiviolenza (CAV) accolgono le donne che hanno subito violenza, nascono agli inizi degli anni ’90 in Italia, mentre negli anni ’80 erano già presenti nel nord Europa. L’origine dei centri antiviolenza si collega sia al movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta, che si sviluppò a livello internazionale e le politica che lo caratterizzava: le radici del movimento erano stati i gruppi di autocoscienza femminista, nei quali le donne condividevano storie di vita ed esperienze e costruivano l’analisi storico-politica della dominazione maschile e della subordinazione femminile. I Centri Antiviolenza sono “un ponte per”, luoghi dai quali si parte per ripartire, e in cui le donne ritrovano qualcosa che hanno scordato: l’ascolto e la restituzione del valore e della credibilità ai propri vissuti personali. E’ in essi che le donne iniziano il loro difficile percorso di fuoriuscita dalla violenza, supportate da professionalità “in rete” con i servizi che a vario titolo promuovono il benessere alla persona. In base ai dati estratti da “Comecitrovi: guida ai luoghi contro la violenza in Italia”[6], in Italia ci sono oltre 115 Centri antiviolenza di cui 93 sono gestiti da Associazioni di donne e 56 hanno case di ospitalità ( i dati sono da aggiornare al 2014, gli ultimi sono relativi al 2011).

 

Informare e sensibilizzare in ottica preventiva, dalla Puglia un’esperienza pilota: “Donna è: 101 scatti per raccontare una donna”: è ormai chiaro il ruolo di primaria importanza svolto dalle attività di informazione e di sensibilizzazione sulla tematica della violenza contro le donne a scopo preventivo. Dalla Regione Puglia spunti interessanti sono già giunti a livello normativo a seguito della Legge Regionale n. 29 del 4 Luglio 2014 dal titolo “Norme per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il sostegno alle vittime, la promozione della libertà e dell’autodeterminazione delle donne”, che apre spazi significativi di riflessione e di ampio respiro, nel momento in cui sgancia la donna dalla consueta condizione di “oggetto di tutela”, per muovere e abbracciare quella di “soggetto autodeterminato”, in grado di riprendere in mano la propria vita e le proprie possibilità di riuscita. Alla luce degli spunti offerti dalla normativa, la Cooperativa Sociale “SANFRA – Comunità S. Francesco, presente nel territorio regionale dal 1996 con servizi alla persona e con la propria rete di Centri Antiviolenza “Il Melograno”, ha strutturato un insieme di azioni e interventi per favorire il contrasto al fenomeno della violenza di genere, che oltre alla presa in carico globale delle vittima di violenza e della strutturazione di un percorso di recupero volta al reinserimento sociale e lavorativo, ha previsto la promozione di nuovi processi culturali, attività di prevenzione, sensibilizzazione e formazione sul territorio.

 

Tra questi interventi di sensibilizzazione, un’esperienza in particolare ha inteso lanciare un messaggio di rottura rispetto alle consuete immagini di violenza: “Donna è: 101 scatti per raccontare una donna Campagna di sensibilizzazione e prevenzione contro la violenza di genere, un Contest Fotografico realizzato da “SANFRA – Comunità S. Francesco – Cav “Il Melograno”, in collaborazione con l’Ambito Territoriale Sociale di Gallipoli, le Commissioni Pari Opportunità del Comune di Racale e di Gallipoli, la Fidapa di Gallipoli e Cittadinanza Attiva- Tribunale dei Diritti del Malato e Caritas Diocesana – Gallipoli, che si è proposto di esaltare attraverso il linguaggio evocativo e immediato, proprio della fotografia,  una figura di donna, nuova, reattiva, desiderosa di riconquistare il suo potenziale interiore nella sua totale interezza. Gli scatti pervenuti da ogni parte d’Italia, con la collaborazione delle scuole del territorio, sono stati la chiara testimonianza della volontà di infrangere muri di silenzio raccogliendo all’unisono infinite e instancabili voci di donne.

 

Cambiamento è la parola chiave di tutto, un cambiamento che chiama in causa l’attenzione,e la sensibilità di coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nella lotta e nell’emersione del fenomeno della violenza di genere: dalle sedi istituzionali, a quelle preposte per i Servizi alla Comunità; dal Terzo Settore ai differenti organi deputati alla ricerca e alla formazione. Un cambiamento che passa, non da ultimo, anche dal linguaggio, dal modo di fare e trasmettere notizie, in un’ottica “di genere” rispettosa delle differenze individuali, che nel raccontare le donne sappia riscattarle dalle ingiustizie subite, affrancandole dal paradigma della debolezza e della cura dell’”altro” sostituendovi la “cura per sé”; una comunicazione che restituisca a ogni donna quella dignità profonda e quel rispetto verso un mondo troppo spesso violato, che altro non attende se non riemergere, con la forza che contraddistingue da sempre milioni di donne, milioni di volti che con dignità, e coraggio antichissimi, riprendo a testa alta la propria vita e il proprio cammino.

 

 


[1] https://www.ilvelino.it/it/article/2014/09/18/camera-domani-boldrini-a-convegno-su-convenzione-di-istanbul/36c4e6fb-be73-4beb-86f2-080446e28783/

[2] https://www.unicef.it/chisiamo/home.htm

[3] https://www.intervita.it/IT/chisiamo.aspx

[4] https://www.pubblicitaprogresso.org/eventi/rosa-shocking-violenza-stereotipi-e-altre-questioni-del-genere/

[5] https://www.istat.it/it/archivio/violenza

[6] https://comecitrovi.women.it/

 

ISIS: Negoziato, non bombardamento

 

 

 

Altri bombardamenti insensati di musulmani, altre sconfitte per USA-Occidente, altri movimenti di tipo ISIS, altra polarizzazione Occidente-Islam. Qualche via d’uscita? “ISIS, Stato Islamico d’Iraq-Siria, s’appella al desiderio vibrante del Califfato” scrive Farhang Johanpour in una rubrica sull’IPS. Per il Califfato Ottomano con il Sultano come Califfo – l’Ombra di Dio in Terra – dopo le vittorie del 1516-17 ovunque fino al crollo sia dell’Impero sia del Califfato nel 1922, per mano degli alleati Inghilterra-Francia-Russia.

 

Immaginiamo il crollo del Vaticano, non del cattolicesimo, per mano di qualcuno, cristiano protestante od ortodosso, vale a dire anglo-americani o russi, oppure di musulmani. Un centro in questo mondo per la transizione al prossimo, capeggiato da un papa, successore apostolico dello Spirito Santo, un’emanazione di Dio nei cieli. Immaginiamocelo sparito. E immaginiamo che coloro che avevano determinato il crollo abbiano la tendenza a bombardare, invadere, conquistare, dominare i paesi cattolici, uno dopo l’altro, come dopo 2 guerre dei Bush in Afghanistan-Iraq, 5 guerre di Obama in Pakistan-Yemen-Somalia-Libia-Siria, e “operazioni speciali”. Non saremmo forse in grado di prevedere [1] un intenso desiderio del Vaticano, e [2] un estremo odio per i perpetratori? Fortunatamente, non è avvenuto.

 

Ma è avvenuto in Medio Oriente: lasciando un trauma alimentato dall’uccisione di centinaia di migliaia di persone. L’accordo Sykes-Picot / Inghilterra-Francia del 16 maggio 1916 portò al crollo, con le loro ben note quattro colonie, la meno nota promessa da Istanbul alla Russia (!), e alla dichiarazione Balfour del 1917 che offriva parti di terre arabe come “patria nazionale per il popolo ebreo”. Johanpour cita Churchill: “Vendere un appezzamento di terreno, non di loro proprietà, a due popoli contemporaneamente”.

 

Le colonie mediorientali combatterono l’Occidente con colpi militari per l’indipendenza; Kemal Atatürk era un modello. La seconda liberazione è l’islam militante – la Fratellanza Musulmana, la FIS-Federation Islamique de Salvation in Algeria, ecc. – contro dittature militari-laicali. L’Occidente ha preferenza per il militare; l’ordine contro la storia.

 

La bramosia non può essere fermata. L’ISIS è solo una possibile espressione, sebbene eccessivamente brutale. Però, un danno e una distruzione da parte di Obama e alleati sarà seguita da una dozzina di ISIS fra 1,6 miliardi di musulmani di 57 paesi. Un po’ di maneggi politici militari oggi, un po’ d’ “addestramento” qui, combattimenti là, bombardamenti ovunque, sono solo increspature su un’ondata crescente.

 

Questo si concluderà con un califfato sunnita prima o poi. E inoltre, il califfato perduto e bramato, se Israele non fosse stato premiato con una “patria nazionale”. C’è questo dietro parte della disperazione USA-Occidente. Qualche soluzione?

 

La via d’uscita sta nel cessate-il-fuoco e nel negoziato. Sotto l’egida ONU, con pieno supporto del Consiglio di Sicurezza ONU. Per guadagnare tempo, si passi a una strategia militare difensiva, a difesa di Baghdad, dei curdi, degli sciiti e altri [minoritari] in Siria e Iraq. Problematico per gli USA, quindi forse qualche altro membro della coalizione può far di meglio, lasciando Baghdad agli USA. Dopo tutto, la locale ambasciata USA dev’essere molto attraente come sede del Califfato.

 

La posizione storico-culturale-politica dell’ISIS e dei suoi successori è forte; l’Occidente è debole, anche economicamente. L’Occidente non può offrire il proprio ritiro in cambio di alcunché poiché si è già ufficialmente ritirato. Può però offrire riconciliazione, sia nel senso di ripulire il passato e aprire il futuro. È una politica – nota come “apologismo” negli USA, difficile da perseguire. Ma l’onere del Sykes-Picot è per una volta non sulle spalle USA, bensì del Regno Unito e della Francia. La Russia se ne tirò fuori dopo la rivoluzione del 1917, ma rivelò la trama.

 

Il bombardamento, un’atrocità, condurrà ad altre atrocità ISIS. Un Occidente conciliatorio potrebbe cambiare le cose. Una commissione internazionale potrebbe lavorare sul Sykes-Picot e postumi, e aprire il libro con le relative compensazioni. Come principio; l’Occidente non può comunque pagare. Soprattutto, cooperazione futura.

 

L’Occidente, e qui entrano in gioco gli USA, potrebbe far sì che Israele restituisca la Cisgiordania, eccetto piccoli cantoni, le Alture del Golan, e Gerusalemme-Est come capitale palestinese – o altrimenti, guai! – risparmiando ad arabi e israeliani un‘orribile lunga guerra. Ciò sarebbe decenza, lucidità mentale, razionalità; la questione è se l’Occidente possegga tali qualità. La prognosi è fosca.

 

C’è l’immagine di sé infallibile anglo-americana, un dono all’umanità, un tantino rude talvolta nel civilizzare i testardi, ma non debole. Se non scusarsi, almeno potrebbero desiderare di non aver fatto la loro politica nella regione dal 1967, diciamo. Nessun segno di ciò.

 

Questo per la disponibilità. Ma l’Occidente ne ha la capacità? Sanno come riconciliarsi? Dopo che Portogallo e Inghilterra conquistarono la rotta marittima per l’Estremo Oriente e l’Africa Orientale intorno al 1500, stabilendosi infine a Macao e Hong Kong [rispettivamente], dopo la prima e la seconda Guerra dell’Oppio fra il 1839 e il 1860 in Cina, terminate con le forze anglo-francesi che bruciarono il palazzo imperiale a Pechino, forse che l’Inghilterra ha utilizzato il “passaggio” di Hong Kong [alla Cina] per riflettere sul passato? Non una parola dal principe Charles.

La Cina avrebbe potuto spianare quelle due colonie, ma non l’ha fatto. Poiché l’Islam ha la rappresaglia fra i suoi valori, l’Occidente può esserci dentro per un bel po’. Schiavitù, colonialismo, imperialismo. Si sta aggiungendo il mio paese, la Norvegia, accusato da paesi caraibici di complicità nella schiavitù; è alla sua quarta guerra dal 2001. Eppure la minuscola opposizione non ha alternative.

 

Le Nouvel Observateur elenca i “groupes terroristes islamistes” al mondo: Iraq-Siria, Libano, Palestina, Libia, Algeria, Mauritania, Niger, Nigeria, Somalia, Yemen, Pakistan, Indonesia, Filippine, Uzbekistan, e Cecenia. I gruppi, di questi singoli paesi, sono cresciuti da circostanze locali analoghe. Immaginiamo che condividano sempre più quel vivo desiderio di un califfato; l’Impero Ottomano copriva molto più che il Medio Oriente, con aree non trascurabili in Africa e Asia. E arrivano altri gruppi. Invincibili.

 

Immaginiamo che la Turchia stessa condivida quel sogno, forse sperando di averci un ruolo di primo piano (il primo ministro, Davutoglu, era in passato un accademico superbo, specialista sull’ Impero). Potrebbe essere quella la ragione per cui la Turchia non si unisce davvero, a quanto sembra, a questa crociata anti-ISIS?

 

L’Occidente dovrebbe essere realistico, non “realista”. Passi alla razionalità.

 

Iran, Turchia e Arabia Saudita:

la grande contesa per l’egemonia

sul Medio Oriente

 

 

  notiziegeopolitiche.net  di Dario Rivolta *  - 29 ottobre 2014

medio oriente turchia iran siria

 

In Medio Oriente ci sono almeno tre Paesi, rivali tra loro, che ambiscono ad esercitare un ruolo egemonico sull’area ed essere considerati tra i protagonisti della politica mondiale: la Turchia, l’Iran e l’Arabia Saudita.


Negli ultimi anni, con fasi alterne, è sembrato che l’uno o l’altro stessero prevalendo. La Turchia ci ha provato con l’allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu (oggi primo ministro) usando, come viatico, la parola d’ordine “nessun problema con i vicini”; ha persino rotto i decennali buon rapporti con Israele pur di ricercare simpatia e consensi tra le popolazioni arabe. L’Iran, pur se trattato come un pericoloso paria dal mondo occidentale, vi ha tentato elargendo aiuti diretti a Hezbollah e Hamas e con il sostegno a gruppi sciiti qui e là presenti nel mondo arabo sunnita. Attraverso l’Iraq, destabilizzato dagli americani, via Siria è arrivato fino in Libano riuscendo ad allargare di molto la propria influenza. L’Arabia Saudita ha, invece, riposato per lungo tempo sulla condizione privilegiata di essere il maggior produttore di petrolio mondiale e di godere dell’ indiscriminato sostegno militare da parte degli Stati Uniti.


Le cosiddette “Primavere arabe” e le variabili che ne sono seguite hanno mischiato però le carte e aperto nuove prospettive, rimettendo in discussione le posizioni raggiunte da ciascuno.


La Turchia, che aveva sperato nel successo dei Fratelli Musulmani in Egitto, in Tunisia e Siria e aveva appoggiato alcune forze anti-Gheddafi in Libia, si trova oggi con un pugno di mosche in mano ed il suo prestigio internazionale è talmente scaduto da non essere nemmeno riuscita ad ottenere i voti necessari per diventare membro temporaneo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (al suo posto è stata scelta la Spagna). Lo stesso Iran, dopo l’insurrezione contro al-Assad in Siria e l’instabilità irachena causata dal malgoverno dello sciita al-Maliki, sembrava condannato alla perdita delle posizioni conquistate. Anche nel Golfo l’intervento di truppe saudite a sostegno del governo del Bahrein aveva ridimensionato le prospettive della locale opposizione sciita spalleggiata dagli Ayatollah. Infine, la stessa avanzata dell’Isis, vista in un primo momento da sauditi e turchi come un ulteriore indebolimento del potere iraniano, ha ridimensionato ulteriormente le aspirazioni di Teheran, già colpita dalla crisi economica interna causata dalle sanzioni. Anche il blocco, per alcuni mesi, della trattativa con i “5 + 1” sul nucleare sembrava suggellare la crisi delle ambizioni di Teheran. L’ unico sostegno rimaneva la Russia, la quale aveva tutto l’interesse a tenere impegnati gli americani con la minaccia iraniana in Medio Oriente, se non altro per distrarli dalle loro ambizioni verso zone geograficamente più vicine a Mosca.


Proprio la paura di un possibile accordo sul nucleare tra Iran e Usa, che sarebbe passato sopra le proprie teste, aveva spinto l’Arabia Saudita, che godeva delle difficoltà iraniane e si sentiva in posizione di forza, ad accettare la mano tesa dai vicini ed a intavolare trattative diplomatiche per una nuova era di distensione tra i due Stati del Golfo.


Purtroppo per i sauditi la situazione è presto cambiata. Il sedicente Stato Islamico, ben lungi dal sentirsi condizionato da turchi e sauditi, ha cominciato a minacciare anche la loro stabilità interna diventando un richiamo per i fanatici islamisti dei due Paesi. Nel frattempo la trattativa sul nucleare sembra essersi re-incamminata in maniera positiva e in Bahrein l’opposizione sciita ha rialzato la testa fino a boicottare le prossime elezioni parlamentari. Cosa ancor più grave, nello Yemen, per lungo tempo considerato da Riad il “cortile di casa”, gli sciiti al-Houthi , spalleggiati dagli iraniani, hanno preso possesso della capitale e fanno il bello ed il cattivo tempo nel piccolo Paese che fu l”Arabia Felice” di antica memoria.


Soprattutto questo ultimo avvenimento ha convinto i sauditi che il pericolo iraniano fosse ritornato più forte di prima e che le negoziazioni diplomatiche erano utili solo alla controparte che le usava come un semplice strumento per guadagnare tempo e indebolire ulteriormente l’immagine ed il potere della monarchia arabica. Quindi il 13 ottobre, dopo un incontro con il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, il principe Saud al-Faisal ha fatto una dichiarazione, inaspettata dai più, che poneva fine ad ogni possibilità di proseguire il dialogo. Il ministro degli Esteri di Riad ha infatti affermato che vi sono milizie iraniane che stazionano in Siria, in Iraq e nello Yemen e che la stabilità nell’area sarebbe potuta essere ristabilita solamente con il ritiro degli iraniani da tutte quelle località. Queste dichiarazioni sono state immediatamente recepite a Teheran come la fine di ogni possibilità di continuare le negoziazioni. Ora ben difficilmente i sauditi saranno disposti a ritornare agli strumenti della diplomazia e la tensione tra i due è tornata quella di pochi mesi prima. Così avremo nuove forme di scontri indiretti giocati su altri Paesi e tramite formazioni terze, a meno che l’uno dei due non si trovi di nuovo in una posizione di grande forza per imporre all’altro le proprie condizioni o di tale debolezza da essere obbligato a farlo per salvare il salvabile.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali

 

Elezioni.

Si vota in Brasile, Tunisia, Ucraina e Uruguay

 

 

Notizie Geopolitiche – 26 ottobre 2014

Tunisia voto

 

Nella giornata di oggi sono in corso importanti votazioni i più parti del globo: in Uruguay gli elettori sono chiamati alle urne per scegliere il successore del carismatico ex guerrigliero Pepe Mujica, ormai pressoché ottantenne. Si sfidano Luis Lacalle Pou, 41 anni, figlio dell’ex presidente Lui Alberto Lacalle, e il predecessore dell’attuale presidente, il 74enne Tabare Vazquez, a cui Mujica vorrebbe lasciare le consegne. Con Mujica il paese ha avuto negli ultimi anni una forte crescita ed attenzione ai diritti civili: ha legalizzato i matrimoni gay, l’aborto e regolamentato il commercio di marijuana.


Si vota per le politiche in Ucraina, ma non in Crimea, controllata dai russi, e nelle regioni ribelli, dove, in barba agli accordi di Minsk, i miliziani impediscono il voto. Favorito il partito del presidente Petro Poroshenko, che è alla ricerca di un’ampia maggioranza per prevenire contrasti politici interni in una fase tanto delicata.


Dopo il voto dello scorso 12 ottobre, in Brasile è in corso il ballottaggio fra la presidente uscente del Partito socialdemocratico brasiliano (Psdb) Dilma Rousseff, 66 anni e il conservatore Aecio Neves, 54 anni. In testa ai sondaggi, con il 54%, viene data per probabile vincitrice Dilma Rousseff. Al voto 143 mln di elettori.


Elezioni politiche anche in Tunisia, dove sono 4 mln i cittadini chiamati a rinnovare l’Assemblea dei rappresentanti del popolo. La scelta dei 217 deputati viene fatta scegliendo fra 90 partiti, per un totale di 1.500 liste elettorali. I principali partiti in gara sono Ennahda, Fronte Popolare, Partito del Congresso per la Repubblica, Forum democratico per il Lavoro e le Libertà, Appello per la Tunisia, Partito Repubblicano, Petizione popolare.


Visto l’alto rischio di attentati, sono stati schierati nel Paese migliaia di poliziotti e sono state chiuse le frontiere con la Libia; quasi 3mila militanti volontari dell’Associazione tunisina per l’integrità e la democrazia delle elezioni (Atide) supervisionato la regolarità del voto in patria e all’estero.

 

Le 15 capitali più difficili del mondo

 

Sono tempi globalizzati in cui ne sapete un sacco,

o tempi in cui la geografia non la sa più nessuno?

Un test per geografi competitivi

 

 

 

Banjul, Gambia

 

Una volta, quando la geografia era nozionistica, la prima cosa da sapere erano “le capitali”. Le chiedevano a scuola, in famiglia si facevano i quiz durante i viaggi e le vacanze di Natale (il Trivial Pursuit non c’era), e gli stati indipendenti erano meno di oggi. Poi ci fu un felice periodo di geografia “umana” nelle scuole, si capì che sapere la geografia era la cosa più simile a capire il mondo e come funziona, e le capitali divennero un pezzo significativo della comprensione della storia e dell’attualità dei vari paesi del mondo. Certe erano difficilissime da ricordare già allora – e strane da dire: Ouagadougou, Nouakchott, Ulan Bator, Bujumbura, altre erano favorite dall’essere citate nei telegiornali: Vientiane, Maputo, Kigali. Infine, la geografia passò di moda nelle scuole e venne ritenuta superflua nel tempo delle mappe su Google, e oggi un ragazzino medio sa una capitale su venti e un adulto meno ancora.

 

Poi però ci sono i lettori del Post, di cui conosciamo le competenze e le attenzioni, e ci sono certi fanatici competitivi in giro che si fregiano di conoscere Honiara, capitale delle Isole Salomone. Per loro, abbiamo messo insieme una lista di capitali davvero difficili (senza infierire con quelle degli stati più piccoli, arcipelaghi, isolette) e qualche informazione in più: ché siamo a favore del nozionismo sì, ma di molto nozionismo. Provate a indovinare prima di cliccare.

 

 

https://www.ilpost.it/2014/10/26/capitali-difficili-del-mondo/

 

L’assenza di Europa nelle

strategie di inclusione sociale

 

Le città europee strette tra la logica della fortezza

e le differenti velocità di sviluppo

 

 

di Marco Marano  - 1 ottobre 2014

 

“Il nostro messaggio è chiaro: tanti migranti stanno morendo, è arrivato il momento di fare di più che contare il numero delle vittime. E’ tempo di fare fronte comune affinché i migranti in gravi difficoltà non debbano subire violenze.”

 

 

A parlare è il Direttore Generale dell’OIM William Lacy Swing; parole dure le sue a corollario del “Fatal Journeys”, il rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, da cui escono fuori i dati raccapriccianti dei morti nel Mediterraneo…  Il rapporto è stato effettuato nell’ambito del progetto “Missing Migrants Project”, e mostra come l’Europa sia la destinazione più pericolosa al mondo. Infatti dal 2000 sono oltre 22.000 i migranti che vi hanno perso la vita, di cui 4.000 dall’inizio del 2013.

 

L’assenza di cittadinanza europea

 

Sembra estremamente chiaro che le ragioni di questa ecatombe siano concentrate sull’assenza di Europa… In questa sorta di ostentazione culturale a voler essere una fortezza impenetrabile nei confronti di chi decide che il viaggio diventa l’unica soluzione possibile per difendere la propria incolumità fisica. Non si tratta semplicemente del mancato rispetto dei trattati internazionali o dell’articolo 10 della Costituzione, per ciò che concerne l’Italia… Non si tratta neanche della precarietà economica, che da anni flagella i popoli europei, specialmente quelli nel bacino del Mediterraneo, che fanno emergere gli egoismi sociali stigmatizzati da partiti e movimenti di matrice razzista e xnofoba. Non si tratta di questo… Il problema vero è l’assenza di una logica identitaria della dimensione europea, perché la costruzione di un modello di cittadinanza omogeneo è un tema legato alla mission dei programmi europei che erogano i fondi strutturali, ma non alle politiche perseguite dai singoli stati. Su questa contraddizione in termini si giocano i destini dei popoli…

 

Forse è anche per questo motivo che quello che non fanno gli stati cercano di farlo i cittadini, e a proposito di migranti, la “Carta di Lampedusa” ne è l’esempio più calzante.

 

La Carta di Lampedusa è il risultato di un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso che si è articolato attraverso l’incontro di molteplici realtà e persone che si sono ritrovate a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014, dopo la morte di più di 600 donne, uomini e bambini nei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, ultimi episodi di un Mediterraneo trasformatosi in cimitero marino per le responsabilità delle politiche di governo e di controllo delle migrazioni. Da molti anni le politiche di governo e di controllo dei movimenti delle persone, elemento funzionale alle politiche economiche contemporanee, promuovono la disuguaglianza e lo sfruttamento, fenomeni che si sono acuiti nella crisi economica e finanziaria di questi primi anni del nuovo millennio. L’Unione europea, in particolare, anche attraverso le sue scelte nelle politiche migratorie, sta disegnando una geografia politica, territoriale ed esistenziale per noi del tutto inaccettabile, basata su percorsi di esclusione e confinamento della mobilità, attraverso la separazione tra persone che hanno il diritto di muoversi liberamente e altre che per poterlo fare devono attraversare infiniti ostacoli, non ultimo quello del rischio della propria vita.”


Eliminare il problema della morte in mare è estremamente semplice, diventa però complicato in una Europa assente di identità comune, perché la proposta del corridoio umanitario è quella più efficace e sostenibile, ma non si capisce per quale motivo, all’interno delle istituzioni europee, non si riesce neanche a parlarne… In breve, basterebbe creare delle sedi dell’Unhcr e dell’Ue sulle coste del nord Africa per l’accoglimento lì delle domande di protezione internazionale, eliminando alla base la necessità di traversare il mare mediante i trafficanti.

 

Ma torniamo alla contraddizione segnalata inizialmente, cioè quella di una Europa le cui istituzioni erogano programmi virtuosi, ma i cui stati si ostinano ad affrontare i temi sui processi migratori senza ricercare una strategia comune altrettanto virtuosa. Se questo è lo scenario c’è da dire che, dentro il contesto europeo, l’inclusione di quei migranti che riescono a sfuggire alla morte dal proprio paese e dal viaggio di fuga, viene gestita con modelli di gestione differenti, a seconda dell’organizzazione sociale di cui i singoli paesi si sono dotati.

 

Le buone prassi sull’inclusione sociale

 

Per comprenderne a fondo le dinamiche ci viene in aiuto proprio un progetto europeo conclusosi da poco, dal titolo Mistra - Migrant Inclusion Strategies in European Cities”, finanziato dal programma Lifelong Learning e realizzato attraverso la rete europea di enti pubblici e privati MetropolisNet. Attraverso questo progetto sono state individuate delle città europee esportatrici delle proprie migliori prassi sull’inclusione sociale dei migranti verso città meno attrezzate allo scopo. La prima indicazione interessante è che le principali città esportatrici appartengono al nord Europa, mentre quelle che hanno importato sono state dell’est o dell’area mediterranea. Ma il punto non è quello di accendere i riflettori sulle difficoltà dei paesi di nuova entrata nell’Unione Europea o di analizzare il livello di corruzione dei paesi mediterranei, che inficia qualsiasi modello di sviluppo sociale. La questione è invece incentrata sulle logiche, anzi potremmo dire sui paradigmi, che definiscono un modello virtuoso di inclusione sociale.

 

Una idea di società: intercultura, diversità, apertura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Berlino esiste, ad esempio, “Berlin braucht dich”: Berlino ha bisogno di te. Già, è proprio la denominazione di questo organismo pubblico, finalizzato ad orientare, formare e inserire nel mondo del lavoro giovani con background migratorio. Attraverso questo ente è stata creata una rete, in una città è bene ricordarlo dove una persona su quattro è di origine straniera, tra 32 scuole e una cinquantina di aziende, per fare incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Ma perché questa denominazione? Perché Berlino dice di aver bisogno dei giovani con background migratorio? Per il semplice fatto che essendo una città mondialista, come tutte le metropoli europee, ci sono tantissimi giovani che crescono in famiglie che non conoscono né la cultura della città né il panorama occupazionale, non riuscendo ad entrare in contatto col mondo del lavoro. Ecco che questa rete di aziende ha convenuto che i presupposti di una società giusta e sostenibile, nel mercato del lavoro, sono la partecipazione e le pari opportunità, e che utilizzare la diversità diventa un valore aggiunto per l’intero sistema sociale, anche in termini di accoglienza e benvenuto alle nuove generazioni. Intercultura, diversità, apertura diventano i fattori chiave del processo di sviluppo metropolitano, che devono essere favorite poiché questa è la realtà dell’oggi. L’idea di società sottesa è che “i nuovi arrivati” non devono essere integrati in un sistema omogeneo, ma è la società che deve trovare la sua forza proprio nelle differenze. Le aziende non fanno molto caso ai paesi di provenienza, anzi, in alcuni settori come quello immobiliare, i giovani con background migratorio sono ricercati perché la clientela è spesso straniera, quindi i dipendenti non solo possono comunicare linguisticamente in modo dinamico, ma alcune volte si pongono in termini di mediazione culturale.

 

L’accoglienza come modello di sostenibilità sociale

 

Graphic presentation of the Vienna integration concept with roof, pillars and basis

Era il 1995 quando a Vienna nasceva l’Integrations Haus, e questo di per se è un elemento interessante, non fosse altro perché ancora non era stata inaugurata la stagione delle grandi convenzioni europee, da Lisbona 2000 in poi, nelle quali venivano lanciate parole d’ordine come coesione sociale, integrazione, sostenibilità e via discorrendo…  Si, perché l’Integrations Haus è oggi considerata una buona prassi europea nell’ambito dell’accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e dei possessori di protezione internazionale, realtà ante litteram circa i criteri di accoglienza dei migranti.

 

Struttura finanziata dal Ministero della Salute e dell’Educazione, dalla municipalità, dall’Unione Europea e da donazioni private, essa si muove all’interno di una rete pubblico/privata, le cui modalità organizzative consentono azioni di raccolta fondi anche attraverso campagne promozionali sul territorio. L’organizzazione di eventi e i dibattiti pubblici sono, in effetti, tra i principali strumenti di lavoro, poiché anche,  e forse soprattutto,  attraverso essi l’Integrations Haus propone sul territorio la sua azione di lobby istituzionale. E’ così, infatti, fornisce pareri su progetti di legge, tratta con i decisori politici, attivandosi per contribuire a costruire processi di miglioramento delle condizioni giuridiche e sociali dei migranti. Dal punto di vista dell’erogazione dei servizi l’approccio utilizzato è di tipo integrato, sia per ciò che concerne le metodologie di lavoro che per i servizi. Le due direzioni intraprese si sviluppano in termini di azioni supporto psico-sociale e di orientamento al sistema culturale locale, dall’alfabetizzazione linguistica alla formazione-lavoro, con progetti specifici di integrazione socio-lavorativa. Poi, vi è tutta la parte legata alle attività culturali e ricreative più generali.

 

Foto: Naser  Abuhelou

 

Il sistema residenziale è costituito da 38 alloggi e possono contenere un massimo di 110 persone, ovviamente gli alloggi sono suddivisi per dimensioni e per tipologia di nucleo familiare: da un minimo di due posti letto ad un massimo di 6. Ogni alloggio ha un suo angolo cottura e una lavanderia, mentre docce e servizi igienici sono in condivisione. Gli ospiti sono liberi di ospitare persone esterne, che però devono registrarsi alla reception. Gli operatori dell’equipe che gestisce l’edificio, appartengono all’associazione Caravan, sono multilingue e supportano i residenti in tutti gli aspetti della vita quotidiana, oltre che per le procedure di richiesta della protezione internazionale. Il tratto distintivo dell’Integrations Haus è il modo innovativo di lavorare, perché attraverso i finanziamenti europei possono essere finanziate tutte quelle nuove idee che rispondono ai bisogni territoriali, ed in questa direzione va la collaborazione con un'altra realtà significativa: “Start Vienna”. “Chiunque arrivi a Vienna può chiedere un incontro per una consulenza lavorativa!” E’ questo lo slogan del WAFF, Fondo per la promozione dell’occupazione di Vienna, una struttura sottoforma di “patto territoriale” tra i soggetti produttivi della città, finalizzata ad accogliere gli stranieri che arrivano in città per supportarli in questo loro nuovo inizio…

 

L’innovazione sociale europea, i diritti e i costi sociali

 

Se dunque all’esterno l’Europa si propone in termini di fortezza, per una incapacità sistemica a munirsi di una strategia virtuosa nei confronti dei fenomeni migratori, stridono le doppie, triple o quadruple velocità con cui le città europee affrontano i temi delle differenze, in termini di gestione territoriale.  Eppure abbiamo visto come Berlino e Vienna si sono allineate perfettamente ai paradigmi usciti fuori dalle convenzioni europee degli ultimi 15 anni… Sostenibilità, coesione sociale, intercultura, pari opportunità non sono semplicemente delle parole d’ordine ma definiscono la capacità di trasformazione e cambiamento dei territori rispetto ai processi sociali del nostro tempo.

 

Ma in che termini queste parole chiavi determinano cambiamento? E, cosa ancora più importante, tale cambiamento può essere riproducibile in città meno attrezzate, dal punto di vista dell’organizzazione sociale?  Dalle due buone prassi del progetto Mistra possono essere estrapolati importanti elementi: innalzamento dei diritti e delle forme di uguaglianza, abbassamento dei costi sociali. Ecco quali sono le logiche che dovrebbero sottendere al concetto di cittadinanza europea smarrita. Perché in un momento storico di crisi economica sistemica, la vera innovazione sociale europea non può che passare dalla salvaguardia dei diritti armonizzati ai costi sociali, e qualsivoglia progetto di sviluppo territoriale delle città e su questi elementi che dovrebbe rifondarsi.

 

LINK:

https://www.berlin-braucht-dich.de/

https://www.integrationshaus.at/

https://www.waff.at

Lo Stato islamico è una minaccia

più grave di Al Qaeda

 

 

  Internazionale - 22 agosto 2014


Civili in fuga dall’avanzata dei jihadisti a Feeshkhabour town, in Iraq, Tuesday, il 19 agosto 2014. (Khalid Mohammed, Ap/Lapresse)

 

La complessità, le risorse e la forza militare dello Stato islamico (Is) rappresentano una grave minaccia per gli Stati Uniti, forse più di quella una volta rappresentata da Al Qaeda.

 

“Sono una minaccia agli interessi degli Stati Uniti in Iraq e altrove”, ha detto il segretario alla difesa, Chuck Hagel in una conferenza stampa che si è tenuta il 21 agosto al Pentagono. Tutte le opzioni restano quindi percorribili per cercare di fermare i jihadisti e aiutare Baghdad a contenere l’avanzata dell’Is.

Finora il capo del Pentagono ha confermato l’esecuzione di 89 raid a opera di aerei o di droni, ma l’amministrazione non esclude un’escalation contro lo Stato islamico. Secondo il generale Martin E. Dempsey, capo di stato maggiore interforze, per fermare l’Is potrebbe essere necessario intervenire anche in Siria: “È un’organizzazione che ha una visione apocalittica e che dev’essere sconfitta”.

 

Tra le novità dei jihadisti dell’Is c’è il reclutamento tra cittadini europei di seconda generazione, in particolare in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. Secondo la Bbc, sono più di cento gli olandesi partiti per combattere in Iraq o Siria. E il Telegraph racconta la storia di una giovane britannica, Khadijah Dare, che dopo l’esecuzione di James Foley ambisce a essere la prima donna jihadista a uccidere un ostaggio occidentale.

 

Ancora in ostaggio. Secondo l’Independent, sono ancora una quarantina gli ostaggi occidentali nelle mani dei jihadisti, tra cui le due ragazze italiane Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, di cui il giornalista britannico racconta la storia: “La madre di Greta Ramelli, Antonella, spiega che sua figlia era decisa fin da piccola a impegnarsi per gli altri, per esempio assisteva gli anziani in un ospizio fin da quando aveva dodici anni. Quando qualcuno le dice che non avrebbe dovuto lasciarla partire per la Siria la signora Ramelli risponde: ‘Quando tua figlia ti dice: mamma, in quel paese uccidono i bambini, devo fare qualcosa, cosa puoi dire?’. Puoi rimangiarti tutti i valori che hai provato a trasmetterle per tutta la vita? Puoi cambiare tua figlia che ha questi ideali di solidarietà ed empatia umana?”.

 

America Latina:

“i popoli indigeni non sono immobili”

 

Probabilmente in pochi sono riusciti a vedere il gesto di Jeguaká Mirim un giovane rappresentante dei Guarani, visto che le telecamere hanno prontamente cambiato inquadratura. Ma Jeguaká, uno dei tre ragazzi brasiliani che durante la cerimonia di apertura della Coppa del Mondo 2014 ha liberato delle colombe bianche, ha approfittato dell’occasione per chiedere il riconoscimento dei diritti territoriali indigeni mostrando una sciarpa rossa su cui si leggeva “Demarcazione subito!. Un problema “Importante ed urgente - ha ricordato Survival International - visto che nonostante i Guarani vivano in cinque stati e siano la tribù più numerosa del Brasile, gran parte del loro territorio ancestrale gli è stato rubato per far spazio ad allevamenti di bestiame e piantagioni di canna da zucchero”.

 

Oggi molti Guarani sono costretti a vivere in riserve sovraffollate o in campi ai margini della strada dove dilagano malnutrizione e malattie, e in alcune comunità, come quella di Jeguaká nota come Krukutu, gli indigeni vivono ai margini di grandi aree urbane e non hanno praticamente più terra”. A causa della perdita dei loro territori, i Guarani-Kaiowá del Mato Grosso do Sul soffrono del più alto tasso di suicidi al mondo e i loro leader vengono presi di mira e uccisi ogni volta che cercano di rioccupare piccole aree della loro terra ancestrale. Per questo i Guarani, Survival International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni hanno denunciato in queste settimane il “Lato oscuro del Brasile” e hanno chiesto al Governo brasiliano di rispettare la propria costituzione e la legge internazionale, demarcando il territorio per l’uso esclusivo della tribù.

 

Il padre di Jeguaká, lo scrittore guarani Olívio Jekupe, ha affermato che il simbolico gesto durante la cerimonia inaugurale dei mondiali “ha forse dimostrato al mondo che non siamo immobili… Mio figlio ha denunciato al mondo quello di cui abbiamo davvero bisogno: la demarcazione delle nostre terre.” Come dice Jekupe i popoli indigeni sono tutt’altro che immobili e con le armi dell’ironia e del diritto continuano da decenni una lotta che incomincia a dare alcuni piccoli, ma certamente significativi successi, proprio come il gesto di Jeguaká Mirim. Un primo esempio lo troviamo nella risposta indigena alla pubblicità di Coca-Cola e FIFA, in cui si promuove la Coppa del Mondo utilizzando l’immagine di un Indiano sorridente accompagnata dalla scritta “Benvenuti alla Coppa di tutto il mondo”. Survival International con il sostegno dei Guaranì ha ideato un “contro spot” con un’immagine provocatoria in cui Nixiwaka, della tribù degli Yawanawa, indossa una maglietta con la scritta “Lasciate vivere i Guarani!. Di recente, infatti, la Coca-Cola, uno dei principali sponsor della Coppa del Mondo, è stata coinvolta nella lotta territoriale dei Guarani “perché compra zucchero dal gigante americano Bunge, che a sua volta si rifornisce di canna da zucchero coltivata nella terra ancestrale della tribù” ha spiegato Survival. Per questo i Guarani hanno chiesto alla Coca Cola di rispettare i loro diritti e smettere subito di comprare zucchero dalla Bunge anche attraverso questa nuova protesta mediatica che ha il merito di aver suscitato non poca curiosità.

 

Ma non è l’unico successo che i popoli indigeni stanno raccogliendo. Il Presidente paraguaiano Horacio Cartes ha firmato lo scorso 12 giugno uno storico progetto di legge per l’espropriazione di 14.400 ettari di terra a favore degli Enxet del Paraguay settentrionale. Dal 1991 la tribù rivendica il diritto alla proprietà della sua terra ancestrale e nell’attesa, almeno 19 membri della comunità sono stati uccisi.  “La comunità Enxet di Sawhoyamaxa ha vissuto per vent’anni in misere condizioni lungo i bordi di una superstrada dopo che il loro territorio era stato comprato dall’allevatore tedesco Heribert Roedel, proprietario della compagnia Liebig. Gran parte della sua fortuna derivò da una frode commessa ai danni del pubblico tedesco, che Roedel convinse ad investire nella terra paraguaiana” ha spiegato Survival. Con i soldi ottenuti dalla truffa agli investitori tedeschi, Roedel  acquistò vasti appezzamenti di terra nella regione del Chaco in Paraguay e sfrattò Enxet che lì vivevano da tempo immemorabile. Grazie anche all’aiuto dell’organizzazione locale Tierraviva, nel 2001 gli Enxet hanno portato il loro caso davanti alla Corte Inter-americana dei Diritti Umani e nel 2006, la Corte ha giudicato il Governo del Paraguay colpevole di aver violato il diritto territoriale degli Enxet e ha stabilito che i 14.400 ettari dovevano essere restituiti alla comunità di Sawhoyamaxa. Così otto anni dopo la loro attesa è finita: “Ci siamo ripresi la nostra Madre Terra” ha detto ai giornalisti il leader Enxet Leonardo González. “Senza di lei non potremmo esistere, essere liberi, camminare nè essere felici”.

 

Una storia di sofferenza culminata in un importante successo come quella del popolo Asháninka, della giungla del Perù centrale. Un gruppo di ricercatori del governo peruviano ha scoperto nelle scorse settimane la più grande fossa comune del Paese all’interno del loro territorio ancestrale. La fossa contiene i resti di circa 800 persone che, per la maggior parte, sarebbero Asháninka e Matsigenka. Negli anni ’80 gli Indiani furono decimati dai violenti conflitti intercorsi tra la guerriglia maoista, conosciuta come “Sendero luminoso”, e le forze anti-guerriglia. Ancora oggi il loro territorio è minacciato da progetti petroliferi, gasdotti, dighe idroelettriche, traffico di droga e deforestazione, ma le loro proteste non sono rimaste inascoltate e quest’anno la leader asháninka Ruth Buendia ha ricevuto il prestigioso Premio ambientale Goldman per il suo impegno e le azioni legali intraprese contro la diga Pakitzapango. La diga faceva parte di uno dei sei progetti idroelettrici pianificati da un accordo energetico tra Brasile e Perù, e avrebbe costretto migliaia di Asháninka ad abbandonare le proprie case, ma grazie a Buendia e la sua organizzazione CARE gli Asháninka sono riusciti a fermare la diga. Un altro riconoscimento sulla via della demarcazione delle terre indigene che fa ben sperare per il futuro! 

 

Ma la strada per proteggere tutti i territori indigeni e rispettare la promessa di migliorare il coordinamento transnazionale per proteggerli è ancora lunga. Per gli Indiani incontattati che vivono nella foresta amazzonica brasiliana vicino al confine con il Perù, infatti, c’è ancora il rischio di “tragedia” e “morte”. Questo è quanto denunciato da alcuni funzionari brasiliani a seguito del sensibile aumento di avvistamenti di gruppi isolati nell’area. Secondo gli esperti, gli Indiani hanno attraversato il confine con il Perù per fuggire dalle ondate di taglialegna illegali che stanno invadendo il loro territorio. Adesso stanno per entrare nel territorio di altri gruppi di Indiani isolati del Brasile e di alcune comunità stanziali. “Dove andranno gli Indiani incontattati? Se le loro terre non saranno protette, morirannoha dichiarato in una recente visita in Europa il famoso leader amazzonico Raoni Metuktire, che ha guidato la lotta dei Kayapó per il loro territorio e contro la distruzione dell’Amazzonica. “Per le tribù incontattate i confini non esistono, per questo Brasile e Perù devono lavorare insieme per impedire che si perdano vite umane” ha dichiarato ieri Stephen Corry, Direttore generale di Survival International. “Nel corso della storia, ogni qual volta le loro terre sono state invase, i popoli incontattati sono stati distrutti. È essenziale che il loro territorio sia protetto adeguatamente. Entrambi i governi devono intervenire se vogliono che i loro cittadini sopravvivano”.

 

Combattenti centroasiatici e caucasici

della Jamaat Sabiri siglano l’alleanza con ISIS

 

  notiziegeopolitiche.net   di Giuliano Bifolchi - 10 maggio 2014

al-nusra

 

La “Jamaat Sabiri”, gruppo formato da combattenti centro-asiatici e russi del Caucaso, ha siglato la propria alleanza con “Islamic State of Iraq and as-Sham” (ISIS) confermando la significativa presenza di combattenti provenienti dalle aree dell’ex Unione Sovietica all’interno del territorio siriano.
Secondo quanto riportato dalle fonti aperte sul web in lingua russa, il gruppo composto principalmente da uzbeki, tagichi e daghestani, avrebbe combattuto in gennaio insieme alle truppe di ISIS per poi dare vita ad un’alleanza ufficiale a partire da marzo. Il leader attuale è Khalid al-Dagestani, nome che indica la sua provenienza dalla Repubblica del Dagestan sita nel Caucaso del Nord, il quale è succeduto al precedente Abdullo Tashkenti, ucciso lo scorso anno e originario dell’area di Tashkent (Uzbekistan).


Il numero dei combattenti affiliati alla Jamaat è sconosciuto, anche se in un video rilasciato lo scorso gennaio è possibile visionare al massimo 70 militanti i quali, per stessa affermazione dello speaker, provengono da Uzbekistan, Tagikistan, Cecenia e Dagestan; ciò che appare evidente è l’ottimo equipaggiamento di cui dispone la Jamaat Sabiri formato non solo da armi leggere, ma anche da diversi veicoli (SUV, minivan, motociclette) e armi antiaerei. L’affiliazione con ISIS è dimostrata anche dalle numerose bandiere esposte durante il video.
Secondo quanto riportato dalle fonti russe, l’alleanza sancita tra la Jamaat Sabiri e ISIS è dovuta al tentativo del Fronte al-Nusrah, branca ufficiale di al-Qaeda in Siria, di confiscare l’artiglieria antiaerea; tale episodio, quindi, ha favorito l’incontro tra Khalid al-Dagestani e Omar al-Shishani, leader ceceno tra i ranghi militari superiori di ISIS, per dare vita all’alleanza.


Il ruolo dei jihadisti del Caucaso e dell’Asia Centrale è sempre più prominente all’interno della battaglia scoppiata tra al-Qaeda ed ISIS in Siria; le unità guidate dai comandanti ceceni ed in generale caucasici e centroasiatici combattono in entrambi i gruppi: ad esempio è possibile citare l’alleanza nei confronti di al-Nusrah della Seyfuddin Uzbek Jamaat guidata da Abu Hussein oppure dei gruppi che fanno capo a Walid al-Shishani e Muslim al-Shishani.

 

Tutte le dispute territoriali nel mondo

 

    internazionale.it - 21 marzo 2014

Russia e Ucraina non sono gli unici paesi a contendersi un territorio. Nel suo World factbook, una pubblicazione annuale che raccoglie dati e statistiche, la Cia ha stilato un elenco di tutti gli stati del mondo che hanno in corso dispute con uno o più paesi per la sovranità su regioni, isole o confini.

 

La mappa realizzata da Quartz con i dati della lista del World factbook, indica con il colore grigio le nazioni che non compaiono nell’elenco, mentre tutte le altre sono coinvolte in qualche contesa territoriale.

 

In Europa hanno dispute aperte paesi come Danimarca, Norvegia e Finlandia, mentre sono esclusi dall’elenco Albania, Montenegro e Bulgaria.

La Mongolia è l’unico grande stato dell’Asia a non essere coinvolto in nessuna questione di sovranità territoriale.

 

La Cia ha incluso nella definizione di “disputa territoriale” sia le lotte e le controversie su confini o territori da parte di due stati, sia le pretese di sovranità su un territorio rivendicate da un solo stato. E in alcuni casi l’agenzia statunitense ha inserito anche contese per la gestione delle risorse naturali, per questioni geopolitiche o per l’annessione di territori sulla base di un’identità etnica o di un precedente legame storico.

 

I punti caldi. Secondo la Cia il Kashmir, al centro delle rivendicazioni di tre potenze nucleari come Pakistan, India e Cina, rimane l’area contesa più militarizzata e pericolosa al mondo, nonostante le trattative avviate nel 2005 tra Cina e India e il cessate il fuoco firmato tra Delhi e Islamabad nel 2004. La disputa riguarda anche le acque della regione, da cui nasce il fiume Indo.

 

La Cina è impegnata anche nella disputa con il Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyu, dove negli ultimi mesi si sono registrati diversi incidenti che hanno sfiorato lo scontro armato, e in quella sulla piattaforma continentale del Mar cinese meridionale che la oppone a Filippine, Vietnam, Malesia e Brunei.

 

In Europa la maggior parte delle dispute territoriali residue si concentra nell’ex Jugoslavia, nonostante l’accordo tra Croazia e Slovenia sulla frontiera marittima che ha permesso di superare il veto di Lubiana all’ingresso di Zagabria nell’Unione europea. Le maggiori tensioni riguardano il Kosovo, la cui indipendenza dalla Serbia nel 2008 non è riconosciuta da Belgrado e da altri 84 paesi. Alcune aree a maggioranza serba vorrebbero tornare sotto la sovranità della Serbia.

 

La crisi in Crimea ha riportato l’attenzione sulla contesa territoriale tra l’Estonia e la Russia, che nel 2005 ha revocato la firma di un trattato di demarcazione della frontiera con l’ex repubblica sovietica dopo che il parlamento estone aveva inserito nel testo un riferimento ai confini precedenti alla Seconda guerra mondiale.

 

Questi gli stati senza dispute in corso:

Europa

  • Andorra
  • Albania
  • Austria
  • Belgio
  • Bulgaria
  • Città del Vaticano
  • Germania
  • Italia
  • Liechtenstein
  • Malta
  • Monaco
  • Montenegro
  • Paesi Bassi
  • Polonia
  • Repubblica Ceca
  • San Marino
  • Svezia
  • Svizzera
  • Ungheria

Asia e Oceania

  • Bahrein
  • Figi
  • Hong Kong
  • Isole Cook
  • Isole Norfolk
  • Macao
  • Maldive
  • Mongolia
  • Salomone
  • Samoa
  • Sri Lanka
  • Tonga
  • Tuvalu

Africa e Medio Oriente

  • Botswana
  • Lesotho
  • Liberia
  • Mozambico
  • Repubblica Centrafricana
  • Qatar
  • Senegal
  • Tunisia
  • Yemen

Americhe

  • Antigua e Barbuda
  • Costa Rica
  • Cuba
  • Ecuador
  • Giamaica
  • Grenada
  • Paraguay
  • Panamá
  • Repubblica Dominicana

 

 

Save the Children:

1 milione di bambini all’anno

muore nelle prime 24 ore

 

 

Ci sono vite che si fermano dopo le prime 24 ore e che potrebbero essere facilmente salvate. Sono circa 1 milione all’anno e non sorprende il dato se pensiamo che sono oltre 40 milioni le donne nel mondo che partoriscono senza alcuna assistenza specializzata. Sono questi alcuni dei dati raccolti in occasione del lancio mondiale il 25 febbraio scorso del rapporto “Ending Newborn Deaths” (.pdf) all’interno della campagna globale Every One voluta da Save the Children per coordinare Governi, grandi donatori e privati nello sviluppo di un piano globale per ridurre le morti neonatali già dal 2014.

 

Nell’ultimo decennio sono stati compiuti enormi passi avanti per contrastare la mortalità infantile che è passata da 12 milioni a 6,6 milioni, grazie a un intervento globale che ha visto come protagonisti l’accesso a nuovi farmaci, le vaccinazioni, i trattamenti per polmonite, diarrea e malaria, così come la pianificazione familiare e la lotta alla malnutrizione. “Ma questo percorso è ormai giunto ad una fase di stallo, se non si interviene immediatamente per contrastare la mortalità neonatale”, ha dichiarato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. E i dati che Ending Newborn Deaths racconta nelle sue 46 pagine non lasciano dubbi sulla proporzione del problema: “nei 6,6 milioni di bambini che ogni anno muoiono prima di aver compiuto 5 anni, quasi la metà, 2,9 milioni, sono quelli che hanno perso la vita nel periodo neonatale, entro cioè i primi 28 giorni dalla nascita. Tra questi, 1 milione di bambini muore nel primo giorno di vita, spesso il più pericoloso, a causa di nascite premature e complicazioni durante il parto, come ad esempio travaglio prolungato, pre-eclampsia ed infezioni e spesso perché le loro madri, circa 40 milioni ogni anno, partoriscono senza alcun aiuto qualificato o completamente sole”. Numeri elevatissimi che si sommano ad un altro milione e 200mila bambini che nascono già morti ogni anno “perché il loro cuore smette di battere già durante il travaglio”.

 

Come al solito il dato che non stupisce, ma allarma, è la forbice Nord-Sud. Se in Europa, infatti, solo 1 neonato su 1.000 muore nel periodo neonatale, in Africa o in alcune parti dell’Asia, il rapporto è almeno 5 volte tanto. “Il Pakistan con 40,7 decessi su 1.000 nati è il paese con il più alto tasso di neonati che muoiono il primo giorno o durante il travaglio, seguito dalla Nigeria e dalla Sierra Leone con rispettivamente 32,7 e 30,8 decessi su 1.000 bambini” ha detto l’ong. Il rapporto di Save the Children evidenzia come l’assistenza specializzata durante il travaglio e il parto con la tempestiva gestione delle complicazioni, da sola, potrebbe prevenire circa il 50% della mortalità neonatale e il 45% di bambini nati morti intra-partum. Nell’Africa Subsahariana, il 51% dei parti non è assistito e nell’Asia sudorientale la percentuale è del 41%. Per Save the Children “In Etiopia, ad esempio, solo il 10% delle nascite avvengono in presenza di personale specializzato, mentre in alcune aree rurali dell'Afghanistan c’è solo 1 ostetrica per 10.000 persone. In India, mentre il tasso di mortalità neonatale riferito al 20% più abbiente della popolazione è di 26 neonati morti ogni 1.000 nati, quello riferito ai più poveri è di 56 su 1.000.  In paesi come la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana le madri devono pagare per le cure di emergenza legate al parto, che spesso hanno lo stesso costo del cibo per un mese”. In alcuni casi, alcune madri sono state trattenute fino a quando non sono state in grado di pagare per il loro taglio cesareo urgente.

 

“I nuovi dati diffusi da questo rapporto rivelano per la prima volta il reale impatto della mortalità neonatale”, ha continuato Neri. “Le soluzioni esistono e sono conosciute, ma c’è bisogno di una reale volontà politica per dare a questi bambini una possibilità di sopravvivere, che agisca innanzitutto sulle disuguaglianze. Senza azioni immediate e mirate, il percorso per abbattere la mortalità infantile non si arresterà”. Non è un’impresa impossibile. Il fatto che alcuni Paesi abbiano compiuto significativi miglioramenti nella riduzione della mortalità neonatale testimonia che esistono delle strade percorribili per arrestare questa strage silenziosa: “tra il 1990 e 2012, Egitto e Cina sono riusciti a registrare un declino delle morti neonatali del 60%, mentre in Cambogia, una delle nazioni più povere del mondo, si è avuto un decremento del 51%” ha assicurato Save the Children che ha ricordato che salvare ogni anno oltre 2 milioni di neonati e i 1,2 milioni di bambini che muoiono durante il travaglio è tutt’altro che impossibile. Come? “Basta impegnarsi affinché, entro il 2025, ogni nascita sia seguita da operatori sanitari formati ed equipaggiati che possano offrire interventi sanitari essenziali ai neonati e alle loro madri; aumentare la spesa destinata alla salute per arrivare all’obiettivo di almeno 60 dollari a persona (previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità); investire nella formazione, l’equipaggiamento e il sostegno gratuito di operatori sanitari e interventi ostetrici di emergenza; convincere il settore privato, comprese le società farmaceutiche, ad affrontare i bisogni insoddisfatti, sviluppando soluzioni innovative e aumentando la disponibilità di farmaci, per le madri, i neonati e i bambini più poveri”.

 

“Se ancora oggi il primo giorno della vita di un bambino è il più pericoloso - ha concluso Eva Riccobono, l'attrice che ha aderito, anche come futura mamma, alla campagna globale di Save the Children per combattere la mortalità infantile - sappiamo che molti di questi decessi potrebbero essere evitati se solo ci fosse qualcuno ad assicurare che la nascita avvenga in modo sicuro e che sappia cosa fare in caso di emergenza”. Ecco perché gli interventi di ong come Save the Children diventano fondamentali nella battaglia contro la mortalità infantile come racconta l’esperienza dell’ospedale di Gidole l’unico polo ospedaliero per decine di migliaia di persone che appartengono alle comunità del distretto di Konso, nel Sud dell’Etiopia. Fino a poco tempo fa, prima dell’intervento di Save the Children, in questo ospedale non esisteva un reparto di pediatria, ora il “Villaggio Salvamamme”, così ribattezzato proprio dalle mamme locali è una struttura all’interno dell’ospedale dedicata ad accogliere le donne con gravidanze a rischio, capace di fare la sua parte per contrastare la criticità di quelle prime 24 ore.

 

 

La storia di Samia

 

Il primo capitolo di «Non dirmi che hai paura»,

il libro di Giuseppe Catozzella

che racconta l'atleta somala che morì

cercando di arrivare in Italia 14 gennaio 2014

 

 ilpost.it  14 gennaio 2014

 

È uscito in libreria, pubblicato da Feltrinelli, il romanzo di Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura, basato sulla storia di Samia Yusuf Omar, una giovane atleta somala che partecipò alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Tra le altre recensioni, ne ha scritto su Repubblica Roberto Saviano. Questo è l’inizio del libro.

 

La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli faceva un caldo da morire e stavamo riparati sotto l’ombra stretta di un’acacia.


Era venerdì, il giorno della festa.


La corsa era stata lunga e stancante, eravamo tutti e due sudati fradici: da Bondere, dove abitavamo, siamo arrivati dritti fino allo stadio Cons, senza fermarci mai. Sette chilometri, passando per tutte le stradine interne che Alì conosceva come le sue tasche, sotto un sole talmente cocente da sciogliere le pietre.


Sedici anni in due avevamo, otto a testa, nati a tre giorni di distanza l’uno dall’altra. Non potevamo che essere fratelli, aveva ragione Alì, anche se eravamo figli di due famiglie che non si sarebbero neanche dovute rivolgere la parola e invece vivevano nella stessa casa, due famiglie che avevano sempre condiviso tutto.

 

Stavamo sotto quell’acacia a prendere un po’ di fiato e di fresco, imbrattati fino al sedere della polvere bianca e sottile che si alza dal fondo delle strade al minimo sbuffo di vento, quando da un momento all’altro Alì se n’è uscito con quella storia della abaayo.


“Vuoi essere mia abaayo?” mi ha chiesto, mentre ancora aveva il respiro spezzato, le mani ai fianchi ossuti, stretti sotto i pantaloncini blu che erano stati di tutti i suoi fratelli prima di finire a lui. “Vuoi essere mia sorella?” Conosci qualcuno per una vita e c’è sempre un momento esatto a partire dal quale, se per te è una persona importante, da lì in poi sarà sorella o fratello.


Legati per la vita da una parola, si rimane. L’ho guardato storto, senza fargli capire cosa pensavo. “Solo se riesci a prendermi,” ho detto all’improvviso, prima di scattare via di nuovo, in direzione della nostra casa.


Alì deve avercela messa tutta, perché dopo pochi passi è riuscito ad afferrarmi per la maglietta e a farmi inciampare. Siamo finiti a terra; lui sopra di me, nella polvere che si attaccava ovunque, al sudore della pelle e ai vestiti leggeri.


Quasi l’ora di pranzo, in giro non c’era nessuno. Non ho cercato di divincolarmi, non ho opposto resistenza. Era un gioco.


“Allora?” mi ha chiesto, respirandomi il suo fiato caldo sulla faccia e facendosi d’un tratto serio.
Io non l’ho neanche guardato, ho solo strizzato gli occhi schifata. “Mi devi dare un bacio, se vuoi essere mio fratello. Lo sai, sono le regole.”


Alì si è allungato come una lucertola e mi ha schiacciato un bacio bagnaticcio sulla guancia.


“Abaayo,” ha detto lui. Sorella.
“Aboowe,” ho risposto io. Fratello.


Ci siamo rialzati, e via.
Eravamo liberi, di nuovo liberi di correre.
Almeno fino a casa.

 

La nostra casa non era neanche una casa nel senso normale del termine, come possono essere quelle belle, con tutte le comodità. Era piccola, piccolissima. E ci vivevamo in due famiglie, la nostra e quella di Alì, dentro lo stesso cortile, recintato da un muricciolo d’argilla. Le nostre abitazioni erano proprio una di fronte all’altra, ai due margini opposti dello spiazzo.


Noi stavamo sulla destra e avevamo due stanze, una per me e i miei sei fratelli e l’altra per mamma e papà. Le pareti erano di una miscela, che al sole diventava durissima, di fango e ramaglie. Ma in mezzo alle nostre due stanze, come a dividerci dai nostri genitori, c’era la camera dei padroni di casa, la famiglia di Omar Sheikh, un omone grasso con una moglie ancora più grassa di lui. Loro non avevano figli. Stavano vicino alla costa, ma ogni tanto venivano a passare la notte lì, e quando capitava le giornate diventavano subito molto meno allegre. “Tenetevi le battute e gli scherzi per dopodomani,” diceva Said, il mio fratellone più grande, ogni volta che li vedeva arrivare, riferendosi a quando sarebbero ripartiti.


Alì, invece, con suo padre e i suoi tre fratelli, stava in una stanza sola, addossata al muro a sinistra.
Il posto più bello della casa era il cortile, un cortile grande, ma grande davvero, con in fondo un enorme, solitario eucalipto. Il cortile era così grande che tutti i nostri amici volevano venire da noi a giocare. Come pavimento, in casa e ovunque, la solita terra bianca che a Mogadiscio si infila dappertutto. In camera, per esempio, avevamo steso delle stuoie di paglia sotto i materassi, ma non servivano a molto: ogni due settimane Said e Abdi, i miei fratelli maggiori, dovevano uscire e sbatterle con tutta la forza per cercare di eliminare ogni singolo granello di polvere.


Quella casa era stata costruita dal grassone Omar Sheikh in persona, tanti anni prima. L’aveva voluta proprio attorno a quel maestoso eucalipto. Passandoci davanti, ogni giorno fin da quando era bambino, si era innamorato di quell’albero, così ci aveva raccontato un’infinità di volte con la sua vocina ridicola che gli si strozzava in gola. A quel tempo l’eucalipto era già grande e forte, e lui aveva pensato: voglio che la mia casa sia qui. Poi, sotto la dominazione del dittatore, erano cominciati i problemi con gli affari e sembrava che stesse arrivando la guerra; quindi aveva pensato di trasferirsi in un posto più tranquillo e aveva affittato le tre stanze alle nostre due famiglie, la mia e quella di Alì.


In fondo a tutto c’era la capanna per il bagno in comune. Un quadrato minuscolo chiuso da fitte canne di bambù con al centro un buco nauseabondo, dove facevamo i nostri bisogni.
Poco prima della latrina, sulla sinistra c’era la camera di Alì. Sulla destra, di fronte, la nostra: quattro metri per quattro e sette materassi a terra.


Al centro dormivano i fratelli maschi e ai bordi stavamo noi quattro femmine, Ubah e Hamdi sulla parete sinistra e io e Hodan, la mia sorella preferita, addossate a destra. In mezzo a noi, come un inesauribile focolare che ci proteggeva, dominava l’immancabile ferus, la lampada a petrolio senza la quale Hodan non avrebbe mai potuto leggere e scrivere le sue canzoni fino a tardi, e Shafici, il minore dei maschi, non avrebbe potuto esibirsi nei suoi spettacoli di ombre sul muro che ci facevano morire dal ridere per quanto erano sgraziate e malriuscite. “Fai dei gran spettacoli di ombre e molta immaginazione,” gli diceva Said.


Insomma, prima di dormire, ogni sera, chiusi in sette in quella cameretta, ci divertivamo un mondo, cercando di non farci sentire troppo da mamma e papà e da Yassin, il padre di Alì, che con lui e i suoi tre fratelli maschi dormiva lì di fronte. A pochi passi da me. Nati a tre giorni di distanza e divisi da pochi, pochissimi passi.

 

Da quando siamo venuti al mondo, ogni giorno io e Alì abbiamo condiviso il cibo e il bagno. E ovviamente i sogni e le speranze, che nascono insieme al mangiare e alla cacca, come dice sempre aabe, mio padre.


Niente ci ha mai separati. Alì per me è sempre stato come una seconda Hodan, e Hodan un aggraziato Alì. Siamo sempre stati in tre, solo noi tre, il nostro mondo era perfetto, non c’era niente che avrebbe potuto dividerci. Anche se lui è un darod e io una abgal, i clan in guerra da otto settimane prima che noi nascessimo, nel marzo del 1991.


Ultimi a nascere, le nostre madri hanno covato noi mentre i clan covavano la guerra, nostra sorella maggiore, come ci hanno sempre detto mamma e papà. Una sorella cattiva, ma pur sempre qualcuno che ti conosce alla perfezione, che sa benissimo quanto è facile farti felice o triste.
Vivere nella stessa casa, come io e Alì facevamo, era proibito. Avremmo dovuto odiarci, come si odiavano gli altri abgal e darod. E invece no. Invece abbiamo sempre fatto di testa nostra, mangiare e bisogni inclusi.

 

La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli ci stavamo allenando per la gara annuale di corsa tra i quartieri di Mogadiscio. Mancavano due settimane, e mi sembravano infinite. Il giorno della gara era il più importante dell’anno, per me. Il venerdì era festa e anche coprifuoco, quindi si poteva andare in giro tranquilli, e correre per le vie della città, in mezzo a tutto quel biancore.
Tutto è bianco, a Mogadiscio.


I muri degli edifici, bucherellati dai proiettili o mezzi abbattuti dalle granate, sono quasi tutti bianchi, o grigi, o ocra, o giallini; comunque, chiari. Anche le case più povere, come la nostra, fatte di fango e ramaglie, presto diventano bianche come la terra delle strade, che si deposita sulle facciate come su ogni altra cosa.


Quando corri per Mogadiscio, dietro di te alzi una nube di polvere fine. Io e Alì creavamo due scie bianche che piano piano andavano a sfumare verso il cielo. Percorrevamo sempre lo stesso itinerario, quelle strade erano diventate il nostro campo di allenamento personale.


Quando passavamo di fianco alle baracche dei bar dove stavano seduti i vecchi a giocare a carte o bere shaat, la nostra polvere andava a finire nei loro bicchieri. Sempre. Lo facevamo apposta. Allora quelli fingevano di alzarsi per correrci dietro, e noi acceleravamo e in un secondo li seminavamo, alzando ancora più polvere. Era diventato un gioco, ridevamo noi e ridevano un po’ anche loro. Dovevamo stare attenti a dove mettevamo i piedi, però, perché la sera si bruciava la spazzatura e le strade, la mattina dopo, erano disseminate di resti carbonizzati. Taniche di benzina, lattine di olio, pezzi di copertone, bucce di banana, cocci di bottiglie, c’era di tutto. In lontananza, mentre correvamo, si scorgevano tanti cumuli fumanti, tanti piccoli vulcani in eruzione.
Prima di infilarci nelle stradine più strette che portavano alla grande strada che costeggia il mare, passavamo sempre per Jamaral Daud, un ampio viale a due carreggiate, ricoperto dalla solita terra, e con due file di acacie ai lati.


Ci piaceva vedere sfilare di corsa l’altare della Patria, il parlamento, la biblioteca nazionale, il tribunale. Lì davanti si fermavano i venditori ambulanti: i teli colorati per terra su cui appoggiavano le loro mercanzie, dai pomodori e le carote ai tergicristalli per le auto. Stavano appisolati sotto gli alberi sul viale finché non arrivava qualche cliente, e quando noi passavamo ci guardavano come due marziani. Ci prendevano in giro.


“Dove andate così di fretta, voi due mocciosi? È giorno di festa, festeggiate e state tranquilli,” dicevano quando gli passavamo di fianco.
“A casa da tua moglie andiamo, vecchio dormiglione!” rispondeva Alì. A volte ci tiravano dietro una banana, o un pomodoro, o una mela.
Alì si fermava, li raccoglieva e poi schizzava via.

La gara era un evento, a me sembrava che fosse un giorno addirittura più importante del primo luglio, la data della liberazione dai coloni italiani, la nostra festa nazionale.


Come al solito io volevo vincere, ma avevo solo otto anni, e partecipavano tutti, anche gli adulti. Alla gara dell’anno prima ero arrivata diciottesima, e questa volta volevo tagliare il traguardo tra i primi cinque.


Non dirmi che hai paura.indd 12 03/12/13 15:29 13 Quando mio padre e mia madre mi vedevano così motivata, fin da piccola, cercavano di capire cosa mi frullasse nella testa.


“Anche questa volta vincerai, Samia?” mi chiedeva ironico aabe Yusuf, papà. Seduto in cortile su una sedia di paglia mi tirava a sé, e con quelle sue enormi mani mi scompigliava i capelli. Io mi divertivo a fare lo stesso con lui, a passare le mie dita corte e magroline in mezzo a quella sua massa folta e nera, oppure a battergli il petto sulla camicia di tela bianca. Allora lui mi afferrava e, grande e grosso com’era, mi alzava per aria con un braccio solo, poi mi riappoggiava sulle sue cosce. “Non ho ancora mai vinto, aabe, ma presto lo farò.”


“Sembri un cerbiatto, lo sai Samia? Sei la mia cerbiattina preferita,” diceva allora, e sentire il suo vocione profondo diventare dolce mi faceva tremare le ginocchia.
“Aabe, sono veloce come un cerbiatto, non sono un cerbiatto…”
“E sentiamo… come credi di poter vincere contro quei ragazzi più grandi di te?”
“Andando più veloce di loro, aabe! Forse ancora no, ma un giorno sarò la più veloce di tutta Mogadiscio.”
Lui scoppiava a ridere, e se c’era vicina mia madre, hooyo Dahabo, rideva forte anche lei.
Ma subito dopo, quando ancora mi teneva stretta, aabe diventava malinconico. “Un giorno, certo, piccola Samia. Un giorno…”
“Sai, aabe, certe cose si sanno. Io lo so da quando ancora non parlavo bene che un giorno sarò una campionessa. È da quando ho due anni che lo so,” cercavo di convincerlo.
“Beata te, piccola Samia. Io invece vorrei solo sapere quando finirà questa maledetta guerra.”
Poi mi metteva giù e tornava a fissare accigliato davanti a sé.

 

 

Bonino: in Benin una conferenza africana

contro pena di morte

 

Italia "interessata a partecipare all'organizzazione"

 

   ilmondo.it - 13 Gennaio 2014

Bonino: in Benin una conferenza africana contro pena di morte


Il Benin si appresta a lanciare una conferenza continentale africana sulla abolizione della pena di morte, prima dell'Assemblea generale dell'autunno 2014, con
l'obiettivo di favorire un aumento dei voti favorevoli a una moratoria delle esecuzioni capitali. L'iniziativa è stata annunciata oggi dal ministro degli Esteri Emma Bonino, al termine di un bilaterale con l'inviato del presidente del Benin, tenuto a margine della Conferenza sulla pena di morte organizzata in Sierra Leone da Nessuno Tocchi Caino.

Il ministro ha sottolineato come l'Italia sia "interessata a partecipare all'organizzazione di questa conferenza, magari con altri paesi europei", con l'obiettivo di arrivare a "presentare una risoluzione molto forte all'Onu" il prossimo autunno. E in questa prospettiva, l'inviato del presidente del Benin ha definito possibile una visita in Italia, il prossimo marzo, del capo di Stato africano.

Nel suo intervento alla conferenza, davanti a società civile e ai rappresentanti di Sierra Leone, Benin, Niger, Togo e Ghana, Bonino ha auspicato che "l'Africa apra la strada a una migliore comprensione della moratoria della pena capitale" che si traduca poi in un aumento dei voti favorevoli alla quinta moratoria che
verrà votata in autunno. Nel 2012, quando venne presentata l'ultima moratoria, il Niger si astenne e il Ghana non partecipò
al voto. In Africa si contano fino ad oggi 17 paesi abolizionisti su 54 presenti sul continente.

Alla platea di Freetown, la titolare della Farnesina ha ricordato come nel mondo "alla fine degli anni '70 solo 16 paesi avevano abolito la pena capitale, mentre oggi i paesi abolizionisti sono la stragrande maggioranza". "Più dei due terzi dei paesi, oltre 150 dei 193 membri delle Nazioni Unite, stando all'ultimo rapporto del Segretario generale, hanno respinto il ricorso alla pena capitale o non procedono alle esecuzioni", ha precisato.

Nonostante questi numeri "rimane però ancora molto lavoro da fare" per cui bisogna "unire le forze, avere un confronto franco", certi che la "moratoria sia la strada giusta da seguire", ha concluso il ministro.

 

Lavoro minorile: una piaga che continua

 

 

“La mappa del lavoro minorile nel mondo coincide con quella della fame e della povertà. Per questo il primo passo da compiere per avanzare nella lotta alle peggiori forme di lavoro minorile è quella di coordinare le politiche sulla redistribuzione della ricchezza. Non è un problema di mancanza di risorse, per raggiungere l’obiettivo serve piuttosto la volontà politica di farlo”.

Questo l’appello dell’ex presidente del Brasile, ex sindicalista e operaio, Luis Inácio Lula da Silva che ha concluso lo scorso 11 ottobre a Brasilia, la 3^ Conferenza Globale sul Lavoro Minorile, presieduta ed organizzata dal Governo del Brasile, con il sostegno dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL / ILO).

Il Presidente Lula ha ricordato quanto è stato speso per salvare il sistema finanziario dall'inizio della crisi nel 2008/9, i costi della guerra in Iraq e ha sottolineato che l'eliminazione del lavoro minorile non è una questione di mancanza di risorse ma di "mancanza di volontà politica e di incapacità (dei leader) di far fronte a questa sfida", citando che lui stesso è stato un bambino lavoratore per aiutare la sua famiglia così numerosa.

Il Direttore Generale dell'ILO, Guy Ryder lancia il suo messaggio a un migliaio di delegati provenienti da 153 Paesi - in rappresentanza di Governi, parti sociali e organizzazioni non governative - perché traducano il prima possibile i piani concordati in misure concrete:

"Avete collegato il contrasto al lavoro minorile alla necessità di avanzare l'Agenda del lavoro dignitoso, ovvero attuare i principi e i diritti del lavoro, creare posti di lavoro, in particolare per i giovani, di estendere le misure di protezione sociale e rafforzare la legalità e i sistemi giudiziari. Ora questa connessione deve essere tradotta in azione il prima possibile" .

La Conferenza si è svolta in Brasile, perchè questo Paese è considerato un modello per come ha saputo contrastare il lavoro dei bambini. Ne è chiara dimostrazione il fatto che, attraverso iniziative di politiche pubbliche, in particolare la Bolsa Famìlia, e con il sostegno della società civile, il numero dei bambini al lavoro tra 5 e 9 anni sia diminuito dell'88% negli ultimi 20 anni.

La stampa brasiliana ha evidenziato che la problematica dello sfruttamento minorile interessa anche paesi a medio reddito, non poveri, rilanciando l’intervento (qui in .pdf) alla conferenza di Silvana Cappuccio, Dipartimento Politiche Globali della CGIL: “Il lavoro minorile è vietato nell'Unione Europea, ma, in realtà, emerge un quadro contraddittorio quando guardiamo a molti Stati europei, come ha anche denunciato di recente il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa. Prove documentate provenienti da fonti autorevoli mostrano che molti di quei bambini che lavorano in Europa fanno lavori estremamente rischiosi nel settore dell'agricoltura, dell'edilizia, nelle fabbriche di piccole dimensioni o nelle strade in Albania, Bulgaria, Georgia, Moldavia, Montenegro, Romania, Serbia, Turchia e Ucraina. Anche nel Regno Unito molti bambini lavorano per lunghe ore.

I dati di Eurostat evidenziano che nel 2011 i bambini erano più a rischio di povertà o di esclusione sociale rispetto al resto della popolazione: il 27% dei bambini affrontava quel rischio.

Paesi come Cipro, Grecia, Italia e Portogallo sono stati pesantemente colpiti da misure di austerità prese dai loro governi con il pretesto della crisi. Tali decisioni hanno avuto conseguenze drammatiche specialmente sulle fasce vulnerabili, in primo luogo i bambini, sia attraverso la riduzione del reddito familiare e del sostegno alle famiglie sia attraverso i tagli di bilancio alla spesa sociale. In tutta Europa i bambini Rom sono particolarmente a rischio. I Rom continuano ad affrontare discriminazione ed esclusione sociale, con molti che vivono in profonda povertà e non hanno accesso all'assistenza sanitaria e ad un'abitazione dignitosa. Vulnerabili sono anche i migranti non accompagnati sotto i 18 anni e i figli dei migranti che provengono dai Paesi in via di sviluppo”, ha affermato tra l’altro Silvana Cappuccio.

L’ammissione di un fallimento. Dal 2000 al 2012 il numero di bambini lavoratori nel mondo è diminuito di un terzo, passando da 246 milioni a 168 milioni. Il nuovo rapporto dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) Marking progress against child labour, presentato il 23 settembre scorso a Ginevra, svela che più della metà dei 168 milioni di bambine e bambini lavoratori nel mondo svolgono lavori pericolosi che hanno conseguenze dirette sulla loro salute, sulla loro sicurezza e sul loro sviluppo morale.

Oggi i bambini impiegati in lavori pericolosi sono 85 milioni, a fronte dei 171 milioni del 2000. Il maggior numero in termini assoluti di bambini lavoratori si trova nell'area Asia-Pacifico (quasi 78 milioni), benché l'Africa subsahariana continui ad essere la regione con la più alta incidenza di minori lavoratori in rapporto alla percentuale della popolazione (oltre il 21 per cento).

Nonostante i progressi raggiunti negli ultimi anni, l'obiettivo di eliminare le peggiori forme di lavoro minorile entro il 2016 stabilito alla conferenza dell’Aja non sarà raggiunto.

"La strada è giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente. Non riusciremo a raggiungere l'obiettivo fissato dalla comunità internazionale di eliminare le peggiori forme di sfruttamento entro il 2016" ha dichiarato il direttore generale dell'ILO Guy Rider.

Un’esclusione inaccettabile. Al secondo congresso mondiale sul lavoro minorile indetto dall'International Labour Organization (Ilo) il 10 e 11 maggio all'Aja del 2010 non era stata permessa un'adeguata rappresentanza delle reti di bambini lavoratori (Nats) affinché essi possano incidere efficacemente sulle politiche che li riguardano direttamente, avevano denunciato esperti come Manfred Liebel, coordinatore della Rete Europea di Masters sull’infanzia, Michael Bourdillon, professore emerito dell’Universita del Zimbawe, Aurelie Leroy del Centre Tricontinental CETRI di Bruxelles.

“Escludere una rappresentanzaorganizzata di bambini lavoratori, come il Movimento Latinoamericano dei bambini e adolescenti lavoratori (Molacnats) da una conferenza dell'ILO rappresenta una negazione clamorosa ed inaccettabile deglistessi principi di partecipazione e rappresentanza sui quali è nata molti anni fa questa organizzazione", dichiara Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes a livello europeo.

Anche al congresso brasiliano quest’organizzazione è stata esclusa benchè ci sia per davvero bisogno di tutti in questa battaglia contro il lavoro minorile.

Cristiano Morsolin

Autore del blog: https://diversidadenmovimiento.wordpress.com/

 

 

Ilo: il lavoro minorile

riguarda 168 milioni di bambini

 

Ilo in calo lavoro minorile  riguarda 168 milioni di bambini

 

AGI -  23 settembre 2013

 Cala il lavoro minorile nel mondo: i bimbi coinvolti si sono ridotti di un terzo dal 200, passando da 246 a 168 milioni. Il dato emerge dal rapporto Ilo, secondo cui tuttavia, l'andamento non consentira' di raggiungere l'obiettivo fissato dall'Ilo stessa, e condiviso dalla comunita' internazionale, di eliminare le peggiori forme entro il 2016. "La direzione e' giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente. Se vogliamo veramente porre fine a questo flagello nel prossimo futuro, allora dobbiamo raddoppiare gli sforzi a tutti i livelli. Abbiamo 168 milioni di buone ragioni per farlo", ha dichiarato il direttore generale dell'ILO, Guy Ryder.
  Le ultime stime dell'Ilo, pubblicate alla vigilia della Conferenza Globale sul lavoro minorile che avra' luogo a Brasilia il prossimo mese, mostrano che i progressi piu' significativi si sono registrati tra il 2008 e il 2012 con un calo del numero globale da 215 milioni a 168 milioni. Piu' della meta' dei 168 milioni di bambine e bambini lavoratori nel mondo svolgono lavori pericolosi che hanno conseguenze dirette sulla loro salute, sicurezza e sviluppo morale. Attualmente, sono 85 milioni i bambini impiegati in lavori pericolosi rispetto ai 171 milioni del 2000. (AGI) .

 

 

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