Tutte le dispute territoriali nel mondo
internazionale.it - 21 marzo 2014
Russia e Ucraina non sono gli unici paesi a contendersi un territorio. Nel suo World factbook, una pubblicazione annuale che raccoglie dati e statistiche, la Cia ha stilato un elenco di tutti gli stati del mondo che hanno in corso dispute con uno o più paesi per la sovranità su regioni, isole o confini.
La mappa realizzata da Quartz con i dati della lista del World factbook, indica con il colore grigio le nazioni che non compaiono nell’elenco, mentre tutte le altre sono coinvolte in qualche contesa territoriale.
In Europa hanno dispute aperte paesi come Danimarca, Norvegia e Finlandia, mentre sono esclusi dall’elenco Albania, Montenegro e Bulgaria.
La Mongolia è l’unico grande stato dell’Asia a non essere coinvolto in nessuna questione di sovranità territoriale.
La Cia ha incluso nella definizione di “disputa territoriale” sia le lotte e le controversie su confini o territori da parte di due stati, sia le pretese di sovranità su un territorio rivendicate da un solo stato. E in alcuni casi l’agenzia statunitense ha inserito anche contese per la gestione delle risorse naturali, per questioni geopolitiche o per l’annessione di territori sulla base di un’identità etnica o di un precedente legame storico.
I punti caldi. Secondo la Cia il Kashmir, al centro delle rivendicazioni di tre potenze nucleari come Pakistan, India e Cina, rimane l’area contesa più militarizzata e pericolosa al mondo, nonostante le trattative avviate nel 2005 tra Cina e India e il cessate il fuoco firmato tra Delhi e Islamabad nel 2004. La disputa riguarda anche le acque della regione, da cui nasce il fiume Indo.
La Cina è impegnata anche nella disputa con il Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyu, dove negli ultimi mesi si sono registrati diversi incidenti che hanno sfiorato lo scontro armato, e in quella sulla piattaforma continentale del Mar cinese meridionale che la oppone a Filippine, Vietnam, Malesia e Brunei.
In Europa la maggior parte delle dispute territoriali residue si concentra nell’ex Jugoslavia, nonostante l’accordo tra Croazia e Slovenia sulla frontiera marittima che ha permesso di superare il veto di Lubiana all’ingresso di Zagabria nell’Unione europea. Le maggiori tensioni riguardano il Kosovo, la cui indipendenza dalla Serbia nel 2008 non è riconosciuta da Belgrado e da altri 84 paesi. Alcune aree a maggioranza serba vorrebbero tornare sotto la sovranità della Serbia.
La crisi in Crimea ha riportato l’attenzione sulla contesa territoriale tra l’Estonia e la Russia, che nel 2005 ha revocato la firma di un trattato di demarcazione della frontiera con l’ex repubblica sovietica dopo che il parlamento estone aveva inserito nel testo un riferimento ai confini precedenti alla Seconda guerra mondiale.
Questi gli stati senza dispute in corso:
Europa
- Andorra
- Albania
- Austria
- Belgio
- Bulgaria
- Città del Vaticano
- Germania
- Italia
- Liechtenstein
- Malta
- Monaco
- Montenegro
- Paesi Bassi
- Polonia
- Repubblica Ceca
- San Marino
- Svezia
- Svizzera
- Ungheria
Asia e Oceania
- Bahrein
- Figi
- Hong Kong
- Isole Cook
- Isole Norfolk
- Macao
- Maldive
- Mongolia
- Salomone
- Samoa
- Sri Lanka
- Tonga
- Tuvalu
Africa e Medio Oriente
- Botswana
- Lesotho
- Liberia
- Mozambico
- Repubblica Centrafricana
- Qatar
- Senegal
- Tunisia
- Yemen
Americhe
- Antigua e Barbuda
- Costa Rica
- Cuba
- Ecuador
- Giamaica
- Grenada
- Paraguay
- Panamá
- Repubblica Dominicana
di Alessandro Graziadei unimondo.org - 2 Marzo 2014
Ci sono vite che si fermano dopo le prime 24 ore e che potrebbero essere facilmente salvate. Sono circa 1 milione all’anno e non sorprende il dato se pensiamo che sono oltre 40 milioni le donne nel mondo che partoriscono senza alcuna assistenza specializzata. Sono questi alcuni dei dati raccolti in occasione del lancio mondiale il 25 febbraio scorso del rapporto “Ending Newborn Deaths” (.pdf) all’interno della campagna globale Every One voluta da Save the Children per coordinare Governi, grandi donatori e privati nello sviluppo di un piano globale per ridurre le morti neonatali già dal 2014.
Nell’ultimo decennio sono stati compiuti enormi passi avanti per contrastare la mortalità infantile che è passata da 12 milioni a 6,6 milioni, grazie a un intervento globale che ha visto come protagonisti l’accesso a nuovi farmaci, le vaccinazioni, i trattamenti per polmonite, diarrea e malaria, così come la pianificazione familiare e la lotta alla malnutrizione. “Ma questo percorso è ormai giunto ad una fase di stallo, se non si interviene immediatamente per contrastare la mortalità neonatale”, ha dichiarato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. E i dati che Ending Newborn Deaths racconta nelle sue 46 pagine non lasciano dubbi sulla proporzione del problema: “nei 6,6 milioni di bambini che ogni anno muoiono prima di aver compiuto 5 anni, quasi la metà, 2,9 milioni, sono quelli che hanno perso la vita nel periodo neonatale, entro cioè i primi 28 giorni dalla nascita. Tra questi, 1 milione di bambini muore nel primo giorno di vita, spesso il più pericoloso, a causa di nascite premature e complicazioni durante il parto, come ad esempio travaglio prolungato, pre-eclampsia ed infezioni e spesso perché le loro madri, circa 40 milioni ogni anno, partoriscono senza alcun aiuto qualificato o completamente sole”. Numeri elevatissimi che si sommano ad un altro milione e 200mila bambini che nascono già morti ogni anno “perché il loro cuore smette di battere già durante il travaglio”.
Come al solito il dato che non stupisce, ma allarma, è la forbice Nord-Sud. Se in Europa, infatti, solo 1 neonato su 1.000 muore nel periodo neonatale, in Africa o in alcune parti dell’Asia, il rapporto è almeno 5 volte tanto. “Il Pakistan con 40,7 decessi su 1.000 nati è il paese con il più alto tasso di neonati che muoiono il primo giorno o durante il travaglio, seguito dalla Nigeria e dalla Sierra Leone con rispettivamente 32,7 e 30,8 decessi su 1.000 bambini” ha detto l’ong. Il rapporto di Save the Children evidenzia come l’assistenza specializzata durante il travaglio e il parto con la tempestiva gestione delle complicazioni, da sola, potrebbe prevenire circa il 50% della mortalità neonatale e il 45% di bambini nati morti intra-partum. Nell’Africa Subsahariana, il 51% dei parti non è assistito e nell’Asia sudorientale la percentuale è del 41%. Per Save the Children “In Etiopia, ad esempio, solo il 10% delle nascite avvengono in presenza di personale specializzato, mentre in alcune aree rurali dell'Afghanistan c’è solo 1 ostetrica per 10.000 persone. In India, mentre il tasso di mortalità neonatale riferito al 20% più abbiente della popolazione è di 26 neonati morti ogni 1.000 nati, quello riferito ai più poveri è di 56 su 1.000. In paesi come la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana le madri devono pagare per le cure di emergenza legate al parto, che spesso hanno lo stesso costo del cibo per un mese”. In alcuni casi, alcune madri sono state trattenute fino a quando non sono state in grado di pagare per il loro taglio cesareo urgente.
“I nuovi dati diffusi da questo rapporto rivelano per la prima volta il reale impatto della mortalità neonatale”, ha continuato Neri. “Le soluzioni esistono e sono conosciute, ma c’è bisogno di una reale volontà politica per dare a questi bambini una possibilità di sopravvivere, che agisca innanzitutto sulle disuguaglianze. Senza azioni immediate e mirate, il percorso per abbattere la mortalità infantile non si arresterà”. Non è un’impresa impossibile. Il fatto che alcuni Paesi abbiano compiuto significativi miglioramenti nella riduzione della mortalità neonatale testimonia che esistono delle strade percorribili per arrestare questa strage silenziosa: “tra il 1990 e 2012, Egitto e Cina sono riusciti a registrare un declino delle morti neonatali del 60%, mentre in Cambogia, una delle nazioni più povere del mondo, si è avuto un decremento del 51%” ha assicurato Save the Children che ha ricordato che salvare ogni anno oltre 2 milioni di neonati e i 1,2 milioni di bambini che muoiono durante il travaglio è tutt’altro che impossibile. Come? “Basta impegnarsi affinché, entro il 2025, ogni nascita sia seguita da operatori sanitari formati ed equipaggiati che possano offrire interventi sanitari essenziali ai neonati e alle loro madri; aumentare la spesa destinata alla salute per arrivare all’obiettivo di almeno 60 dollari a persona (previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità); investire nella formazione, l’equipaggiamento e il sostegno gratuito di operatori sanitari e interventi ostetrici di emergenza; convincere il settore privato, comprese le società farmaceutiche, ad affrontare i bisogni insoddisfatti, sviluppando soluzioni innovative e aumentando la disponibilità di farmaci, per le madri, i neonati e i bambini più poveri”.
“Se ancora oggi il primo giorno della vita di un bambino è il più pericoloso - ha concluso Eva Riccobono, l'attrice che ha aderito, anche come futura mamma, alla campagna globale di Save the Children per combattere la mortalità infantile - sappiamo che molti di questi decessi potrebbero essere evitati se solo ci fosse qualcuno ad assicurare che la nascita avvenga in modo sicuro e che sappia cosa fare in caso di emergenza”. Ecco perché gli interventi di ong come Save the Children diventano fondamentali nella battaglia contro la mortalità infantile come racconta l’esperienza dell’ospedale di Gidole l’unico polo ospedaliero per decine di migliaia di persone che appartengono alle comunità del distretto di Konso, nel Sud dell’Etiopia. Fino a poco tempo fa, prima dell’intervento di Save the Children, in questo ospedale non esisteva un reparto di pediatria, ora il “Villaggio Salvamamme”, così ribattezzato proprio dalle mamme locali è una struttura all’interno dell’ospedale dedicata ad accogliere le donne con gravidanze a rischio, capace di fare la sua parte per contrastare la criticità di quelle prime 24 ore.
La storia di Samia
Il primo capitolo di «Non dirmi che hai paura»,
il libro di Giuseppe Catozzella
che racconta l'atleta somala che morì
cercando di arrivare in Italia 14 gennaio 2014
ilpost.it - 14 gennaio 2014
È uscito in libreria, pubblicato da Feltrinelli, il romanzo di Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura, basato sulla storia di Samia Yusuf Omar, una giovane atleta somala che partecipò alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Tra le altre recensioni, ne ha scritto su Repubblica Roberto Saviano. Questo è l’inizio del libro.
La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli faceva un caldo da morire e stavamo riparati sotto l’ombra stretta di un’acacia.
Era venerdì, il giorno della festa.
La corsa era stata lunga e stancante, eravamo tutti e due sudati fradici: da Bondere, dove abitavamo, siamo arrivati dritti fino allo stadio Cons, senza fermarci mai. Sette chilometri, passando per tutte le stradine interne che Alì conosceva come le sue tasche, sotto un sole talmente cocente da sciogliere le pietre.
Sedici anni in due avevamo, otto a testa, nati a tre giorni di distanza l’uno dall’altra. Non potevamo che essere fratelli, aveva ragione Alì, anche se eravamo figli di due famiglie che non si sarebbero neanche dovute rivolgere la parola e invece vivevano nella stessa casa, due famiglie che avevano sempre condiviso tutto.
Stavamo sotto quell’acacia a prendere un po’ di fiato e di fresco, imbrattati fino al sedere della polvere bianca e sottile che si alza dal fondo delle strade al minimo sbuffo di vento, quando da un momento all’altro Alì se n’è uscito con quella storia della abaayo.
“Vuoi essere mia abaayo?” mi ha chiesto, mentre ancora aveva il respiro spezzato, le mani ai fianchi ossuti, stretti sotto i pantaloncini blu che erano stati di tutti i suoi fratelli prima di finire a lui. “Vuoi essere mia sorella?” Conosci qualcuno per una vita e c’è sempre un momento esatto a partire dal quale, se per te è una persona importante, da lì in poi sarà sorella o fratello.
Legati per la vita da una parola, si rimane. L’ho guardato storto, senza fargli capire cosa pensavo. “Solo se riesci a prendermi,” ho detto all’improvviso, prima di scattare via di nuovo, in direzione della nostra casa.
Alì deve avercela messa tutta, perché dopo pochi passi è riuscito ad afferrarmi per la maglietta e a farmi inciampare. Siamo finiti a terra; lui sopra di me, nella polvere che si attaccava ovunque, al sudore della pelle e ai vestiti leggeri.
Quasi l’ora di pranzo, in giro non c’era nessuno. Non ho cercato di divincolarmi, non ho opposto resistenza. Era un gioco.
“Allora?” mi ha chiesto, respirandomi il suo fiato caldo sulla faccia e facendosi d’un tratto serio.
Io non l’ho neanche guardato, ho solo strizzato gli occhi schifata. “Mi devi dare un bacio, se vuoi essere mio fratello. Lo sai, sono le regole.”
Alì si è allungato come una lucertola e mi ha schiacciato un bacio bagnaticcio sulla guancia.
“Abaayo,” ha detto lui. Sorella.
“Aboowe,” ho risposto io. Fratello.
Ci siamo rialzati, e via.
Eravamo liberi, di nuovo liberi di correre.
Almeno fino a casa.
La nostra casa non era neanche una casa nel senso normale del termine, come possono essere quelle belle, con tutte le comodità. Era piccola, piccolissima. E ci vivevamo in due famiglie, la nostra e quella di Alì, dentro lo stesso cortile, recintato da un muricciolo d’argilla. Le nostre abitazioni erano proprio una di fronte all’altra, ai due margini opposti dello spiazzo.
Noi stavamo sulla destra e avevamo due stanze, una per me e i miei sei fratelli e l’altra per mamma e papà. Le pareti erano di una miscela, che al sole diventava durissima, di fango e ramaglie. Ma in mezzo alle nostre due stanze, come a dividerci dai nostri genitori, c’era la camera dei padroni di casa, la famiglia di Omar Sheikh, un omone grasso con una moglie ancora più grassa di lui. Loro non avevano figli. Stavano vicino alla costa, ma ogni tanto venivano a passare la notte lì, e quando capitava le giornate diventavano subito molto meno allegre. “Tenetevi le battute e gli scherzi per dopodomani,” diceva Said, il mio fratellone più grande, ogni volta che li vedeva arrivare, riferendosi a quando sarebbero ripartiti.
Alì, invece, con suo padre e i suoi tre fratelli, stava in una stanza sola, addossata al muro a sinistra.
Il posto più bello della casa era il cortile, un cortile grande, ma grande davvero, con in fondo un enorme, solitario eucalipto. Il cortile era così grande che tutti i nostri amici volevano venire da noi a giocare. Come pavimento, in casa e ovunque, la solita terra bianca che a Mogadiscio si infila dappertutto. In camera, per esempio, avevamo steso delle stuoie di paglia sotto i materassi, ma non servivano a molto: ogni due settimane Said e Abdi, i miei fratelli maggiori, dovevano uscire e sbatterle con tutta la forza per cercare di eliminare ogni singolo granello di polvere.
Quella casa era stata costruita dal grassone Omar Sheikh in persona, tanti anni prima. L’aveva voluta proprio attorno a quel maestoso eucalipto. Passandoci davanti, ogni giorno fin da quando era bambino, si era innamorato di quell’albero, così ci aveva raccontato un’infinità di volte con la sua vocina ridicola che gli si strozzava in gola. A quel tempo l’eucalipto era già grande e forte, e lui aveva pensato: voglio che la mia casa sia qui. Poi, sotto la dominazione del dittatore, erano cominciati i problemi con gli affari e sembrava che stesse arrivando la guerra; quindi aveva pensato di trasferirsi in un posto più tranquillo e aveva affittato le tre stanze alle nostre due famiglie, la mia e quella di Alì.
In fondo a tutto c’era la capanna per il bagno in comune. Un quadrato minuscolo chiuso da fitte canne di bambù con al centro un buco nauseabondo, dove facevamo i nostri bisogni.
Poco prima della latrina, sulla sinistra c’era la camera di Alì. Sulla destra, di fronte, la nostra: quattro metri per quattro e sette materassi a terra.
Al centro dormivano i fratelli maschi e ai bordi stavamo noi quattro femmine, Ubah e Hamdi sulla parete sinistra e io e Hodan, la mia sorella preferita, addossate a destra. In mezzo a noi, come un inesauribile focolare che ci proteggeva, dominava l’immancabile ferus, la lampada a petrolio senza la quale Hodan non avrebbe mai potuto leggere e scrivere le sue canzoni fino a tardi, e Shafici, il minore dei maschi, non avrebbe potuto esibirsi nei suoi spettacoli di ombre sul muro che ci facevano morire dal ridere per quanto erano sgraziate e malriuscite. “Fai dei gran spettacoli di ombre e molta immaginazione,” gli diceva Said.
Insomma, prima di dormire, ogni sera, chiusi in sette in quella cameretta, ci divertivamo un mondo, cercando di non farci sentire troppo da mamma e papà e da Yassin, il padre di Alì, che con lui e i suoi tre fratelli maschi dormiva lì di fronte. A pochi passi da me. Nati a tre giorni di distanza e divisi da pochi, pochissimi passi.
Da quando siamo venuti al mondo, ogni giorno io e Alì abbiamo condiviso il cibo e il bagno. E ovviamente i sogni e le speranze, che nascono insieme al mangiare e alla cacca, come dice sempre aabe, mio padre.
Niente ci ha mai separati. Alì per me è sempre stato come una seconda Hodan, e Hodan un aggraziato Alì. Siamo sempre stati in tre, solo noi tre, il nostro mondo era perfetto, non c’era niente che avrebbe potuto dividerci. Anche se lui è un darod e io una abgal, i clan in guerra da otto settimane prima che noi nascessimo, nel marzo del 1991.
Ultimi a nascere, le nostre madri hanno covato noi mentre i clan covavano la guerra, nostra sorella maggiore, come ci hanno sempre detto mamma e papà. Una sorella cattiva, ma pur sempre qualcuno che ti conosce alla perfezione, che sa benissimo quanto è facile farti felice o triste.
Vivere nella stessa casa, come io e Alì facevamo, era proibito. Avremmo dovuto odiarci, come si odiavano gli altri abgal e darod. E invece no. Invece abbiamo sempre fatto di testa nostra, mangiare e bisogni inclusi.
La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli ci stavamo allenando per la gara annuale di corsa tra i quartieri di Mogadiscio. Mancavano due settimane, e mi sembravano infinite. Il giorno della gara era il più importante dell’anno, per me. Il venerdì era festa e anche coprifuoco, quindi si poteva andare in giro tranquilli, e correre per le vie della città, in mezzo a tutto quel biancore.
Tutto è bianco, a Mogadiscio.
I muri degli edifici, bucherellati dai proiettili o mezzi abbattuti dalle granate, sono quasi tutti bianchi, o grigi, o ocra, o giallini; comunque, chiari. Anche le case più povere, come la nostra, fatte di fango e ramaglie, presto diventano bianche come la terra delle strade, che si deposita sulle facciate come su ogni altra cosa.
Quando corri per Mogadiscio, dietro di te alzi una nube di polvere fine. Io e Alì creavamo due scie bianche che piano piano andavano a sfumare verso il cielo. Percorrevamo sempre lo stesso itinerario, quelle strade erano diventate il nostro campo di allenamento personale.
Quando passavamo di fianco alle baracche dei bar dove stavano seduti i vecchi a giocare a carte o bere shaat, la nostra polvere andava a finire nei loro bicchieri. Sempre. Lo facevamo apposta. Allora quelli fingevano di alzarsi per correrci dietro, e noi acceleravamo e in un secondo li seminavamo, alzando ancora più polvere. Era diventato un gioco, ridevamo noi e ridevano un po’ anche loro. Dovevamo stare attenti a dove mettevamo i piedi, però, perché la sera si bruciava la spazzatura e le strade, la mattina dopo, erano disseminate di resti carbonizzati. Taniche di benzina, lattine di olio, pezzi di copertone, bucce di banana, cocci di bottiglie, c’era di tutto. In lontananza, mentre correvamo, si scorgevano tanti cumuli fumanti, tanti piccoli vulcani in eruzione.
Prima di infilarci nelle stradine più strette che portavano alla grande strada che costeggia il mare, passavamo sempre per Jamaral Daud, un ampio viale a due carreggiate, ricoperto dalla solita terra, e con due file di acacie ai lati.
Ci piaceva vedere sfilare di corsa l’altare della Patria, il parlamento, la biblioteca nazionale, il tribunale. Lì davanti si fermavano i venditori ambulanti: i teli colorati per terra su cui appoggiavano le loro mercanzie, dai pomodori e le carote ai tergicristalli per le auto. Stavano appisolati sotto gli alberi sul viale finché non arrivava qualche cliente, e quando noi passavamo ci guardavano come due marziani. Ci prendevano in giro.
“Dove andate così di fretta, voi due mocciosi? È giorno di festa, festeggiate e state tranquilli,” dicevano quando gli passavamo di fianco.
“A casa da tua moglie andiamo, vecchio dormiglione!” rispondeva Alì. A volte ci tiravano dietro una banana, o un pomodoro, o una mela.
Alì si fermava, li raccoglieva e poi schizzava via.
La gara era un evento, a me sembrava che fosse un giorno addirittura più importante del primo luglio, la data della liberazione dai coloni italiani, la nostra festa nazionale.
Come al solito io volevo vincere, ma avevo solo otto anni, e partecipavano tutti, anche gli adulti. Alla gara dell’anno prima ero arrivata diciottesima, e questa volta volevo tagliare il traguardo tra i primi cinque.
Non dirmi che hai paura.indd 12 03/12/13 15:29 13 Quando mio padre e mia madre mi vedevano così motivata, fin da piccola, cercavano di capire cosa mi frullasse nella testa.
“Anche questa volta vincerai, Samia?” mi chiedeva ironico aabe Yusuf, papà. Seduto in cortile su una sedia di paglia mi tirava a sé, e con quelle sue enormi mani mi scompigliava i capelli. Io mi divertivo a fare lo stesso con lui, a passare le mie dita corte e magroline in mezzo a quella sua massa folta e nera, oppure a battergli il petto sulla camicia di tela bianca. Allora lui mi afferrava e, grande e grosso com’era, mi alzava per aria con un braccio solo, poi mi riappoggiava sulle sue cosce. “Non ho ancora mai vinto, aabe, ma presto lo farò.”
“Sembri un cerbiatto, lo sai Samia? Sei la mia cerbiattina preferita,” diceva allora, e sentire il suo vocione profondo diventare dolce mi faceva tremare le ginocchia.
“Aabe, sono veloce come un cerbiatto, non sono un cerbiatto…”
“E sentiamo… come credi di poter vincere contro quei ragazzi più grandi di te?”
“Andando più veloce di loro, aabe! Forse ancora no, ma un giorno sarò la più veloce di tutta Mogadiscio.”
Lui scoppiava a ridere, e se c’era vicina mia madre, hooyo Dahabo, rideva forte anche lei.
Ma subito dopo, quando ancora mi teneva stretta, aabe diventava malinconico. “Un giorno, certo, piccola Samia. Un giorno…”
“Sai, aabe, certe cose si sanno. Io lo so da quando ancora non parlavo bene che un giorno sarò una campionessa. È da quando ho due anni che lo so,” cercavo di convincerlo.
“Beata te, piccola Samia. Io invece vorrei solo sapere quando finirà questa maledetta guerra.”
Poi mi metteva giù e tornava a fissare accigliato davanti a sé.
Bonino: in Benin una conferenza africana
contro pena di morte
Italia "interessata a partecipare all'organizzazione"
ilmondo.it - 13 Gennaio 2014
Il Benin si appresta a lanciare una conferenza continentale africana sulla abolizione della pena di morte, prima dell'Assemblea generale dell'autunno 2014, con
l'obiettivo di favorire un aumento dei voti favorevoli a una moratoria delle esecuzioni capitali. L'iniziativa è stata annunciata oggi dal ministro degli Esteri Emma Bonino, al termine di un bilaterale con l'inviato del presidente del Benin, tenuto a margine della Conferenza sulla pena di morte organizzata in Sierra Leone da Nessuno Tocchi Caino.
Il ministro ha sottolineato come l'Italia sia "interessata a partecipare all'organizzazione di questa conferenza, magari con altri paesi europei", con l'obiettivo di arrivare a "presentare una risoluzione molto forte all'Onu" il prossimo autunno. E in questa prospettiva, l'inviato del presidente del Benin ha definito possibile una visita in Italia, il prossimo marzo, del capo di Stato africano.
Nel suo intervento alla conferenza, davanti a società civile e ai rappresentanti di Sierra Leone, Benin, Niger, Togo e Ghana, Bonino ha auspicato che "l'Africa apra la strada a una migliore comprensione della moratoria della pena capitale" che si traduca poi in un aumento dei voti favorevoli alla quinta moratoria che
verrà votata in autunno. Nel 2012, quando venne presentata l'ultima moratoria, il Niger si astenne e il Ghana non partecipò
al voto. In Africa si contano fino ad oggi 17 paesi abolizionisti su 54 presenti sul continente.
Alla platea di Freetown, la titolare della Farnesina ha ricordato come nel mondo "alla fine degli anni '70 solo 16 paesi avevano abolito la pena capitale, mentre oggi i paesi abolizionisti sono la stragrande maggioranza". "Più dei due terzi dei paesi, oltre 150 dei 193 membri delle Nazioni Unite, stando all'ultimo rapporto del Segretario generale, hanno respinto il ricorso alla pena capitale o non procedono alle esecuzioni", ha precisato.
Nonostante questi numeri "rimane però ancora molto lavoro da fare" per cui bisogna "unire le forze, avere un confronto franco", certi che la "moratoria sia la strada giusta da seguire", ha concluso il ministro.
unimondo.org - 30 Ottobre 2013
“La mappa del lavoro minorile nel mondo coincide con quella della fame e della povertà. Per questo il primo passo da compiere per avanzare nella lotta alle peggiori forme di lavoro minorile è quella di coordinare le politiche sulla redistribuzione della ricchezza. Non è un problema di mancanza di risorse, per raggiungere l’obiettivo serve piuttosto la volontà politica di farlo”.
Questo l’appello dell’ex presidente del Brasile, ex sindicalista e operaio, Luis Inácio Lula da Silva che ha concluso lo scorso 11 ottobre a Brasilia, la 3^ Conferenza Globale sul Lavoro Minorile, presieduta ed organizzata dal Governo del Brasile, con il sostegno dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL / ILO).
Il Presidente Lula ha ricordato quanto è stato speso per salvare il sistema finanziario dall'inizio della crisi nel 2008/9, i costi della guerra in Iraq e ha sottolineato che l'eliminazione del lavoro minorile non è una questione di mancanza di risorse ma di "mancanza di volontà politica e di incapacità (dei leader) di far fronte a questa sfida", citando che lui stesso è stato un bambino lavoratore per aiutare la sua famiglia così numerosa.
Il Direttore Generale dell'ILO, Guy Ryder lancia il suo messaggio a un migliaio di delegati provenienti da 153 Paesi - in rappresentanza di Governi, parti sociali e organizzazioni non governative - perché traducano il prima possibile i piani concordati in misure concrete:
"Avete collegato il contrasto al lavoro minorile alla necessità di avanzare l'Agenda del lavoro dignitoso, ovvero attuare i principi e i diritti del lavoro, creare posti di lavoro, in particolare per i giovani, di estendere le misure di protezione sociale e rafforzare la legalità e i sistemi giudiziari. Ora questa connessione deve essere tradotta in azione il prima possibile" .
La Conferenza si è svolta in Brasile, perchè questo Paese è considerato un modello per come ha saputo contrastare il lavoro dei bambini. Ne è chiara dimostrazione il fatto che, attraverso iniziative di politiche pubbliche, in particolare la Bolsa Famìlia, e con il sostegno della società civile, il numero dei bambini al lavoro tra 5 e 9 anni sia diminuito dell'88% negli ultimi 20 anni.
La stampa brasiliana ha evidenziato che la problematica dello sfruttamento minorile interessa anche paesi a medio reddito, non poveri, rilanciando l’intervento (qui in .pdf) alla conferenza di Silvana Cappuccio, Dipartimento Politiche Globali della CGIL: “Il lavoro minorile è vietato nell'Unione Europea, ma, in realtà, emerge un quadro contraddittorio quando guardiamo a molti Stati europei, come ha anche denunciato di recente il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa. Prove documentate provenienti da fonti autorevoli mostrano che molti di quei bambini che lavorano in Europa fanno lavori estremamente rischiosi nel settore dell'agricoltura, dell'edilizia, nelle fabbriche di piccole dimensioni o nelle strade in Albania, Bulgaria, Georgia, Moldavia, Montenegro, Romania, Serbia, Turchia e Ucraina. Anche nel Regno Unito molti bambini lavorano per lunghe ore.
I dati di Eurostat evidenziano che nel 2011 i bambini erano più a rischio di povertà o di esclusione sociale rispetto al resto della popolazione: il 27% dei bambini affrontava quel rischio.
Paesi come Cipro, Grecia, Italia e Portogallo sono stati pesantemente colpiti da misure di austerità prese dai loro governi con il pretesto della crisi. Tali decisioni hanno avuto conseguenze drammatiche specialmente sulle fasce vulnerabili, in primo luogo i bambini, sia attraverso la riduzione del reddito familiare e del sostegno alle famiglie sia attraverso i tagli di bilancio alla spesa sociale. In tutta Europa i bambini Rom sono particolarmente a rischio. I Rom continuano ad affrontare discriminazione ed esclusione sociale, con molti che vivono in profonda povertà e non hanno accesso all'assistenza sanitaria e ad un'abitazione dignitosa. Vulnerabili sono anche i migranti non accompagnati sotto i 18 anni e i figli dei migranti che provengono dai Paesi in via di sviluppo”, ha affermato tra l’altro Silvana Cappuccio.
L’ammissione di un fallimento. Dal 2000 al 2012 il numero di bambini lavoratori nel mondo è diminuito di un terzo, passando da 246 milioni a 168 milioni. Il nuovo rapporto dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) Marking progress against child labour, presentato il 23 settembre scorso a Ginevra, svela che più della metà dei 168 milioni di bambine e bambini lavoratori nel mondo svolgono lavori pericolosi che hanno conseguenze dirette sulla loro salute, sulla loro sicurezza e sul loro sviluppo morale.
Oggi i bambini impiegati in lavori pericolosi sono 85 milioni, a fronte dei 171 milioni del 2000. Il maggior numero in termini assoluti di bambini lavoratori si trova nell'area Asia-Pacifico (quasi 78 milioni), benché l'Africa subsahariana continui ad essere la regione con la più alta incidenza di minori lavoratori in rapporto alla percentuale della popolazione (oltre il 21 per cento).
Nonostante i progressi raggiunti negli ultimi anni, l'obiettivo di eliminare le peggiori forme di lavoro minorile entro il 2016 stabilito alla conferenza dell’Aja non sarà raggiunto.
"La strada è giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente. Non riusciremo a raggiungere l'obiettivo fissato dalla comunità internazionale di eliminare le peggiori forme di sfruttamento entro il 2016" ha dichiarato il direttore generale dell'ILO Guy Rider.
Un’esclusione inaccettabile. Al secondo congresso mondiale sul lavoro minorile indetto dall'International Labour Organization (Ilo) il 10 e 11 maggio all'Aja del 2010 non era stata permessa un'adeguata rappresentanza delle reti di bambini lavoratori (Nats) affinché essi possano incidere efficacemente sulle politiche che li riguardano direttamente, avevano denunciato esperti come Manfred Liebel, coordinatore della Rete Europea di Masters sull’infanzia, Michael Bourdillon, professore emerito dell’Universita del Zimbawe, Aurelie Leroy del Centre Tricontinental CETRI di Bruxelles.
“Escludere una rappresentanzaorganizzata di bambini lavoratori, come il Movimento Latinoamericano dei bambini e adolescenti lavoratori (Molacnats) da una conferenza dell'ILO rappresenta una negazione clamorosa ed inaccettabile deglistessi principi di partecipazione e rappresentanza sui quali è nata molti anni fa questa organizzazione", dichiara Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes a livello europeo.
Anche al congresso brasiliano quest’organizzazione è stata esclusa benchè ci sia per davvero bisogno di tutti in questa battaglia contro il lavoro minorile.
Cristiano Morsolin
Autore del blog: https://diversidadenmovimiento.wordpress.com/
Ilo: il lavoro minorile
riguarda 168 milioni di bambini
AGI - 23 settembre 2013
Cala il lavoro minorile nel mondo: i bimbi coinvolti si sono ridotti di un terzo dal 200, passando da 246 a 168 milioni. Il dato emerge dal rapporto Ilo, secondo cui tuttavia, l'andamento non consentira' di raggiungere l'obiettivo fissato dall'Ilo stessa, e condiviso dalla comunita' internazionale, di eliminare le peggiori forme entro il 2016. "La direzione e' giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente. Se vogliamo veramente porre fine a questo flagello nel prossimo futuro, allora dobbiamo raddoppiare gli sforzi a tutti i livelli. Abbiamo 168 milioni di buone ragioni per farlo", ha dichiarato il direttore generale dell'ILO, Guy Ryder.
Le ultime stime dell'Ilo, pubblicate alla vigilia della Conferenza Globale sul lavoro minorile che avra' luogo a Brasilia il prossimo mese, mostrano che i progressi piu' significativi si sono registrati tra il 2008 e il 2012 con un calo del numero globale da 215 milioni a 168 milioni. Piu' della meta' dei 168 milioni di bambine e bambini lavoratori nel mondo svolgono lavori pericolosi che hanno conseguenze dirette sulla loro salute, sicurezza e sviluppo morale. Attualmente, sono 85 milioni i bambini impiegati in lavori pericolosi rispetto ai 171 milioni del 2000. (AGI) .
LA MAPPA DEL TERRORE
Liberation - 23 settembre 2013