Cronache sulle rivoluzioni in Medioriente del 2011
pubblicate su https://radiocentomondi.blogspot.it
lunedi 28 Febbraio 2011
LE DUE FACCE DELLA VERITA'
Mohamad El Ghannouchi, il primo ministro del governo di transizione della Tunisia, considerato come troppo compromesso con l'amministrazione di Ben Alì, si è dimesso ieri in seguito ai due giorni di scontri nel centro di Tunisi, dove centomila persone si sono riversate per contestare l’uomo al potere. Negli scontri con la polizia cinque persone sono rimaste uccise e cinquantuno ferite. In seguito a questi eventi è stato nominato nuovo premier Beji Caid Sebsi, ex Ministro degli Esteri sotto la presidenza di Habib Bourguiba, considerato il padre della patria.
Questa notizia, a chi la vuole leggere con obiettività, chiarisce il senso di tutto quello che sta avvenendo nei paesi arabi, e cioè che la gente vuole la democrazia a tutti i costi e non ha più interesse a farsi ingannare e sottomettere da chi non garantisce il proprio futuro: è questa la rivoluzione dei gelsomini. Ed è questa la forza di un popolo che non potrà mai accettare un potere fondamentalista che li schiavizzi ancora una volta. Ecco la migliore risposta a quelle nazioni, Italia in testa, che proprio con la scusa dell’estremismo islamico ha fatto affari con i peggiori dittatori, mascherati da autocrati rispettabili.
Ma c’è un’altra notizia di queste ore che per noi italiani è davvero sconcertante. La riportiamo interamente dal Corriere della Sera di oggi senza aggiungere alcun commento…
Il ministro degli Esteri francese, Michele Alliot-Marie ha dato le dimissioni. Il gesto era atteso, a seguito dello scandalo suscitato dai suoi rapporti con l'entourage del deposto presidente tunisino Ben Ali. 'Nonostante non creda di aver commesso alcun illecito, ho deciso di dimettermi - ha scritto Alliot-Marie in una lettera a Sarkozy. Da alcune settimane sono stata bersaglio di attacchi politici e dei media, usati per creare sospetto, bugie e generalizzazioni", ha scritto. "Nelle ultime due settimane, la mia vita privata è stata molestata da certi media e non posso accettare che alcune persone usino questo complotto per provare a far credere alla gente che la politica internazionale francese sia stata indebolita", ha aggiunto. La Alliot-Marie era finita sotto accusa per aver offerto al regime di Ben Ali cooperazione di polizia durante gli scontri, al ritorno da una vacanza proprio in Tunisia. Ma ha anche accettato passaggi aerei gratuiti da uomini vicini al dittatore. In serata, Sarkozy ha annunciato un rimpasto di governo.
giovedì 3 marzo 2011
LA PROPOSTA VENEZUELANA
Il ministro degli Esteri venezuelano, Nicolas Maduro, è stato portatore, al capo della Lega araba Amr Moussa, della proposta di mediazione di Ugo Chavez nel conflitto libico tra Gheddafi e i ribelli. La notizia è stata data da Al Jazeera. Per oggi, al Cairo, è stata convocata una riunione della Lega Araba finalizzata ad analizzare il piano nei dettagli. Inutile dire che il rais libico ha accettato la mano d’aiuto del collega venezuelano. I due sono legati da una sorta di affiliazione, che non si manifesta soltanto nello stile di comando di tipo imperiale, ma anche in un mutuo aiuto, forse legato dalla condivisione d’interessi economici. Infatti, dopo i primi giorni di rivolta, il primo paese di cui si è parlato dove la famiglia Gheddafi poteva riparare era proprio il Venezuela.
E’ chiaro che, per come si sono messe le cose in Libia, una proposta di mediazione presuppone una “negoziazione” delle leve del potere statale, proprio per questo il leader dell’opposizione Mustafa Abde-Jalil, ex ministro della Giustizia, si è premurato a respingere la “proposta venezuelana”, poiché il loro l’obiettivo è la caduta della famiglia Gheddafi. Anzi Abdel-Jalil continua a chiedere con insistenza che la comunità internazionale riconosca il “Consiglio nazionale” come rappresentante della volontà del popolo libico.
L’aspetto interessante di tutta questa vicenda è sicuramente la funzione che intende svolgere la Lega Araba, al cui comando vi è l’egiziano Amr Moussa, sceso in piazza a fianco dei manifestanti contro Mubarak, ponendosi come uno dei possibili candidati alle elezioni democratiche in Egitto. Un personaggio come questo, in qualche modo, potrebbe assumere il ruolo di garante democratico per ciò che concerne il futuro dei paesi arabi in rivolta. Sposare però la “proposta venezuelana” significherebbe, forse, lasciare al potere Gheddafi: cambiare tutto per non cambiare niente…
venerdì 4 marzo 2011
A PARTI INVERTITE
Gli insorti della città di Brega, ieri, sono riusciti a respingere un attacco aereo delle truppe fedeli a Gheddafi, a circa due chilometri dal terminal petrolifero. Intanto sono state attivate le misure contro il regime da parte della comunità internazionale: blocco dei beni della famiglia Gheddafi, embargo delle armi, deferimento al tribunale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità. Gli Stati Uniti hanno inviato tre navi da guerra posizionate a 50 miglia dalle coste libiche. L’aeronautica militare è stata autorizzata dalla Casa Bianca a procedere all’evacuazione dei profughi. Barak Obama ha intimato il leader libico di abbandonare il potere, lasciando intendere di essere pronti ad un intervento militare: “L’America deve stare dalla parte giusta della storia, con la democrazia e la libertà.” Ha dichiarato il Presidente degli Stati Uniti. Continua però a non essere chiara la posizione americana sulla no-fly zone, auspicata inizialmente dalla Clinton e sconsigliata poi dai vertici militari, poiché essa presupporrebbe un intervento militare che, rispetto al dispiego di forze, gli Stati Uniti, in questo momento, non sembra che possano sostenere.
Nel frattempo, sempre in mattinata, ma da un’altra parte del continente africano, nell’area sub sahariana, un centinaio di donne scendevano in piazza contro il Presidente golpista della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo. La manifestazione si svolgeva a Abobo, un quartiere a nord della capitale economica Abidjan, dove risiedono tantissimi sostenitori del Presidente regolarmente eletto pochi mesi fa Alassane Ouattara, riconosciuto tale dalla comunità internazionale. Immediatamente interveniva l’esercito, rimasto fedele a Gbagbo, sparando sulla folla, uccidendo sei donne e lasciandone parecchie decine per terra, gravemente ferite. Salgono così a cinquanta le vittime nell’ultima settimana e a 365 dal 28 novembre scorso, cioè da quando il presidente uscente, con un colpo di mano, si rifiutava di riconoscere il risultato che lo vedeva sconfitto, continuando a prolungare una situazione di guerra civile, che tra alti e bassi continua dal 2002. A questi numeri si aggiunga la situazione dei profughi: cinquemila persone al giorno attraversano il confine con la Liberia. Allo stato attuale se ne contano 70 mila, ai quali si devono aggiungere 40 mila sfollati entro i confini nazionali. Una vera e propria crisi umanitaria per la situazione disastrosa dal punto di vista economico, sociale e sanitario.
Ma cosa differenzia il primo evento dal secondo? Le differenze che si possono rintracciare sono in qualche modo la chiave di lettura dell’instabilità secolarizzata del continente africano. Nel primo caso, la follia di Gheddafi, che sta mietendo morti e distruzioni immani nel suo paese, è monitorata dagli Stai Uniti, dall’Onu e dall’Unione Europea, pressappoco in questo ordine di rilevanza, al punto che in nome della democrazia e libertà si è deciso che il leader libico ha i giorni contati. Ricordiamoci che la Libia è uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo.
Nel secondo caso la follia di Gbagbo, non altrettanto famoso come il rais, che in dieci anni ha martoriato il paese con morti, massacri, turpi atrocità tribali, e che a tutti i costi non vuole ancora lasciare il comando, non è monitorata da nessuno, se non da un gruppo di caschi blu dell’Onu che difendono l’hotel di Abidjan, dove da tre mesi è asserragliato il Presidente regolarmente eletto. Ricordiamoci che la Costa d’Avorio è uno dei principali produttori di cacao del mondo.
Proviamo ad invertire le parti... Cioè a dire: Quali sarebbero le attenzioni degli Stati Uniti e della comunità internazionale se la Libia fosse uno dei maggiori produttori di cacao e la Costa d’Avorio fosse uno dei principali produttori di petrolio?
Lunedi 7 marzo 2011
LIBANO: UNA STORIA INFINITA
Erano in 4000 venerdi scorso per le strade di Beirut, in prevalenza giovani, che inveivano contro il regime, chiedendo l’abolizione del sistema di potere. Già, perché la realtà sociale del Libano è qualcosa di estremamente diversa da quella dei paesi autocratici del nord Africa, dove è esplosa la rivolta in questi mesi. In Libano non vi è un dittatore ma un sistema diviso tra diciotto comunità confessionali frammentate tra cristiani e musulmani.
Le confessioni cristiane: maronita, greco-ortodossa, greco-cattolica (melchita), armena apostolica, armeno-cattolica, siriaco-ortodossa, siriaco-cattolica, protestante, copta, assira, caldea, e la cattolica di rito latino Le confessioni musulmane: sunnita, sciita, ismailita, alauita e drusa.
Il sistema confessionale è insomma il principio su cui è costruita tutta la società libanese sia dal punto di vista della rappresentanza politica e istituzionale che amministrativa, attraverso quote predeterminate di accesso agli incarichi pubblici in relazione alla rilevanza sociale e demografica di ogni confessione. Questo sistema è stato istituzionalizzato nel 1943, quando la Francia concesse l’indipendenza a quello che era il protettorato del Grande Libano. Attraverso una “Convenzione costituzionale", una sorta di emendamento alla Costituzione del 1926, veniva siglato il “Patto Nazionale”, per cui le più alte cariche dello stato dovevano essere maronita, sunnita e sciita.
Negli ultimi quarant’anni questo sistema di potere è stato al centro del conflitto arabo-israeliano, con una guerra ventennale, iniziata nel ’70 con “Settembre nero”. Al centro di tutto continuano ad esservi le lotte intestine per il potere, dinamica endemica al tessuto sociale, in una repubblica che ha un altissimo numero di giovani scolarizzati, e dove corruzione e disoccupazione sono assiomi del sistema paese.
Il punto sorgente di questa ultima crisi risale al 2005 quando venne ucciso il sunnita Rafiq Hariri, molto amato dal popolo, di cui sembrano responsabili gli sciiti Hezbollah. Il 26 gennaio scorso manifestazioni e scontri con la polizia sono stati innescati a causa della formazione del nuovo governo affidato al Najib Miqati, con una cinquantina di feriti tra cui militari e agenti della polizia. "La giornata della rabbia", così è stata ribattezzata la protesta, ha visto in prima linea i sostenitori del premier uscente Saad Hariri, figlio del leader sunnita ucciso nel 2005, che si oppongono al nuovo primo ministro proprio perchè appoggiato da Hezbollah. E la storia continua...
martedì 8 marzo 2011
GIORDANIA: IN PIAZZA CONTRO CHI?
Il venerdi islamico delle proteste, la settimana scorsa, ha raggiunto anche la Giordania. Per le strade di Amman, dove circa 10000 persone hanno sfilato, c’era però un’aria diversa dalle strade insanguinate di altri paesi vicini. Si sentiva infatti il desiderio di un popolo alla ricerca di una vita migliore, la voglia di esprimere il proprio protagonismo come in Tunisia o in Egitto. La differenza però è che ad Amman le rivendicazioni non sembrano assumere una fisionomia ben decifrabile: l’unico elemento percepibile è il sentimento islamico, nel senso riformista del termine.
Innanzitutto c’è da dire che in piazza, come nella precedente manifestazione del 28 gennaio, c’erano tantissimi giovani, studenti e disoccupati, donne col velo e anche senza, anziani e bambini. C’era il Fronte d'azione islamico, organizzazione legata ai Fratelli Musulmani, che denunciano la necessità di urgenti riforme politiche ed economiche, come il Movimento comunista. Ma c’erano anche i sostenitori del Re che esponevano la sua icona.
Ogni pezzo della manifestazione esplicitava una forma di dissenso contro lo status quo, che per alcuni si traduceva nell'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e l'elevato livello di disoccupazione giovanile, il tasso di povertà è al 25 per cento e quello di disoccupazione al 15 per cento, il 70 per cento dei sei milioni di abitanti ha meno di 30 anni. Tra le fila delle organizzazioni più filo palestinesi vi era chi accusava il Re di essere troppo dalla parte di Israele, quindi un’accusa alla politica estera del monarca e non tanto alla sua dimensione autocratica, infatti tra questi c’era chi auspicava una riforma della monarchia in senso costituzionale, ipotesi liquidata dal primo ministro poiché destabilizzante per gli equilibri istituzionali.
C’era poi chi si scagliava contro il governo di Maaruf Bakhit, che ha da poco ricevuto la fiducia del Parlamento. Per altri, invece, la principale fonte dei problemi del paese era nel Parlamento stesso, che non promuove le riforme economiche di cui si avrebbe bisogno. Parlamento a cui lo stesso Re Abdallah II ha chiesto un impegno maggiore dato il momento storico: «Il Parlamento gioca un ruolo chiave per correggere gli errori, accelerare le riforme politiche e socio-economiche globali, e rafforzare la fiducia del popolo nelle istituzioni pubbliche».
La monarchia giordana, nel contesto dei regimi mediorientali, esprime una dinamica di potere non oppressiva come le altre dittature autocratiche, però una cosa non si comprende bene in questa vicenda… Perché se si va ad analizzare il sistema politico giordano si vedrà che le principali leve del potere sono in mano al monarca che nomina il primo ministro, firma le leggi, può porre un veto che può essere superato dai due terzi di entrambe le camere che compongono l'Assemblea Nazionale, nomina e rimuove i giudici per decreto, approva gli emendamenti alla Costituzione, dichiara guerra e comanda le forze armate. Il Parlamento quindi possiede uno scarsissimo potere di controllo sul sovrano.
Se così stanno le cose perché protestare contro il Primo Ministro o il Parlamento e non direttamente contro il sovrano?
mercoledi 9 marzo 2011
YEMEN: TUTTI CONTRO IL PRESIDENTE
Continuano gli scontri e le proteste contro il Presidente yemenita Ali Abdallah Salih, capo del “General People's Congress”, nelle due città più importanti del paese, Sana'a e Aden: nella prima le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco contro i manifestanti ferendo tre persone, di cui una è morta stamattina, mentre nell’altra città, gruppi organizzati di oppositori al regime hanno assaltato alcune scuole pubbliche per costringere gli insegnanti a scendere in piazza, tutto tra venerdi scorso e la giornata di ieri.
Le proteste, sull’onda dei moti tunisini ed egiziani, sono state innescate il 2 febbraio, generate dal tentativo di revisione costituzionale del Presidente, attraverso cui puntava ad ottenere un nuovo mandato oltre la scadenza del 2013, scongiurata dalle sue dichiarazioni successive tese a non ricandidarsi. La settimana seguente è stato organizzato, da parte di un gruppo di giovani, che hanno fatto girare su internet un appello contro il governo, il cosiddetto “venerdi della collera di Aden”.
A leggerla così questa notizia sembra l’ennesima scintilla mediorientale, dove la popolazione non ce la fa più a sopportare una dittatura autocratica, avendo preso coscienza, attraverso la comunicazione globale, che c’è un modo migliore di vivere: la democrazia. Il fatto è che lo Yemen non è la Tunisia e neanche l’Egitto. Qui le contraddizioni sono abbastanza diverse. Si perché l’esercizio della violenza, negli ultimi trent’anni, non si è quasi mai interrotto.
La storia del moderno Yemen può essere fatta risalire alla dissoluzione dell’impero ottomano, la quale determina l’azione coloniale della Gran Bretagna. Negli anni ’60 nasce prima la Repubblica Araba dello Yemen, nel nord del paese e poi la Repubblica Popolare Democratica dello Yemen, il primo regime di stampo marxista del mondo arabo. Tra ribellioni e guerre di vario genere si arriva al 1990 quando l’attuale Presidente da vita alla Repubblica Unificata dallo Yemen.
Ma la rivalità tra nord e sud rimane il motivo dominante su cui si regge il paese, governato da un Presidente che “accetta” di farsi eleggere solo nel 1999, anche se manca un candidato alternativo. Cosa non del tutto disdicevole per la comunità internazionale, visto che il paese diventa uno dei baluardi della lotta ad al Qaeda condotta dagli Stati Uniti. Ecco perchè gli addestratori dell’esercito yemenita erano proprio militari della Navy Army.
Nel 2004 l’ex vicepresidente Ali Salim al Baid dichiara l’indipendenza del sud, individuando Aden come suo quartier generale, ma l’esperienza dura un paio di mesi e i secessionisti sono costretti all’esilio. Nel frattempo, nel nord ovest del paese, area in cui è posizionata la capitale Sana'a, scoppia una piccola guerra civile tra l’esercito regolare e gruppi di ribelli sciiti zaidi, i cosiddetti “Giovani Credenti”, giudati da Abdul Malak Al Houti, a quanto si dice, sostenuti dall'Iran, e che vorrebbero un Ayatollah al potere. Un'aspetto interessante è che il governo accusa due paesi del mondo arabo di fornire aiuto logistico e militare al gruppo ribelle, uno è l'Iran, e fin qui è comprensibile, l'altro è la Libia, il quale leader si è sempre presentato oppositore del fondamentalismo islamico.
Si va avanti così fino ad oggi, tra atti di belligeranza e accordi di pace. Nel 2008 si legge in un rapporto di “Medici Senza Frontiere”: “Msf conferma che non si conosce il numero dei morti e dei feriti e che, tuttavia, l'impiego estensivo di armi pesanti fa pensare che vi siano vittime innocenti tra i civili, che comunque non hanno più accesso alle strutture sanitarie. Peggio di loro stanno i civili sfollati, è l'allarme lanciato dalla Mezzaluna Rossa, che riferisce di 35mila sfollati nella sola provincia di Saada”.
Vista la situazione data, chi sono coloro che in questi giorni stanno in piazza a protestare? Nel nord le opposizioni riguardano due organizzazioni strutturate: Partito islamico al-Islah e Forum comune, coalizione dei partiti di opposizione, invece nel sud, essendo in esilio i capi secessionisti, sembra più una ribellione spontanea, nata appunto attraverso internet. Una cosa è chiara e cioè che tutti hanno l'obiettivo di abbattere il Presidente. Da un lato gli indipendentisti del sud, la cui città di riferimento è Aden, dall'altro i fondamentalisti, nella cui capitale Sana'a hanno i loro insediamenti. Sullo sfondo al Qaeda, terribile spettro dell'occidente, che in caso di abbattimento del monarca potrebbero realmente entrare in campo.
Ma una suggestione viene in mente, in un contesto siffatto. Proviamo ad immaginare un fantasioso scenario futuro per lo Yemen: un paese diviso in due, con due capitali, il sud monarchico ed il nord islamico con “l'appoggio esterno” di al-Quaida... Sarebbe possibile?
Venerdi 11 marzo 2011
EGITTO: CHI BUTTA BENZINA SUL FUOCO?
Gli ultimi giorni della capitale egiziana il Cairo sono stati caratterizzati da aspri scontri, in una guerra religiosa che sembra riaccendersi tra la minoranza dei cristiani copti e la maggioranza dei musulmani. Abbiamo raccontato la storia della faida familiare che ha scatenato la violenza, ma alcuni aspetti che entrano in questa vicenda e che vi si avvicinano, non sembrano facilmente decodificabili. Ma partiamo dai fatti…
Se lo scontro tra le due confessioni religiose in Egitto è in qualche modo secolarizzato, da Nasser in poi non vi sono mai stati eventi legati a fatti di violenza o intimidazione tra le due comunità, almeno fino a quando al Qaeda non è entrata nella scena internazionale, il cui leader ha di tanto in tanto buttato un po’ di benzina sul fuoco. Il primo vero evento luttuoso si ha nella notte di capodanno. Dalla chiesa dei Santi di Alessandria stanno per uscire i fedeli, ed è proprio in quel momento che esplode una bomba. Rimangono uccise ventuno persone, mentre nel quartiere di Sidi Bishr musulmani e cristiani si affrontano per strada armati di bastoni.
Tra accuse reciproche, la tensione si placa, fino ad arrivare ai giorni caldi che poteranno alla caduta del regime, e che vedranno musulmani e cristiani fianco a fianco, in piazza Tahrir, per protestare contro il regime di Mubarak. Poi, la settimana scorsa, l’incendio della chiesa di Soul. Da quel momento al Cairo si sono susseguite manifestazioni e scontri che hanno causato parecchi di morti.
Questi i fatti relativi allo scontro tra confessioni, che si vanno ad incrociare con altri fatti che possono avere un peso diverso a seconda di come si leggono. In tal senso c’è una considerazione da fare e cioè che per la prima volta nella storia dell’Egitto le due confessioni si sono trovate insieme in piazza a chiedere un cambiamento politico e ad innescare una rivoluzione interreligiosa epocale.
In seguito agli accadimenti di Soul ci sono altre due notizie di estremo interesse da analizzare. La prima è che l’Imam dell’università islamica di Al Azhar, massima autorità sunnita, ha condannato il rogo, definendolo una “distorsione dell’Islam”, e ha inoltre chiesto alla comunità musulmana del villaggio di ricostruire la chiesa cristiana. La seconda è che ai cortei cristiani, della capitale, davanti alla televisione di stato, per chiedere la ricostruzione dell’edificio di culto, si sono uniti ai cristiani, in segno di solidarietà, centinaia di musulmani.
Ma allora, se nella popolazione è diffusa ormai una coscienza comune verso il cambiamento politico del paese, verso la democrazia, viene da chiedersi il motivo per cui continua ad arrivare benzina sul fuoco tra musulmani e cristiani. Ecco che una o due spiegazioni interessanti potrebbero esserci…
Il primo dato è che il governo Mubarak non è mai stato interessato a pacificare le parti in causa in modo determinato, denunciando “la mano straniera” dell’Iran dentro le vicende egiziane e i collegamenti terroristici con al Qaeda. Tra l’altro, le forze di sicurezza egiziane, sia polizia che esercito, non sono mai intervenute direttamente a sedare scontri interreligiosi. E’ di esempio la notte di Soul quando le pattuglie dell’esercito attrezzati di cingolati, che stazionavano in un villaggio vicino, furono convinti dalla folla a non intervenire. Dalle denunce di alcuni esponenti della chiesa cristiana sembra che poche ore prima dell’assalto al villaggio, un uomo non identificato, si aggirava per le strade aizzando gli animi sulla faida familiare, che diventava il motivo scatenante nella notte “dei lunghi coltelli”.
C’è una notizia interessante, passata un po’ inosservata, e cioè che mercoledi scorso sono stati arrestati 84 ufficiali dell’intelligence di Mubarak, accusati di aver preso parte agli attacchi in piazza Tahrir e aver torturato dei detenuti che avevano partecipato alle proteste di gennaio dopo i fatti di Alessandria. Sempre mercoledi, negli scontri tra copti e musulmani al Cairo, dove sono morte 13 persone, per come si sono messe le cose in piazza, tra molotov e pistolettate, sembrava che ci fosse una regia nella creazione di disordine e caos.
Da quello che si evince, dunque, una ipotesi seria potrebbe essere quella che a fomentare gli scontri religiosi siano pezzi dei servizi di sicurezza di Mubarak, ufficialmente sciolti dal governo in carica, ma attivi sul territorio, per far sprofondare l’Egitto nell’ingovernabilità. In tal senso sia l’attuale governo che gli stessi Fratelli Musulmani, i quali si sono dichiarati favorevoli alla svolta democratica, hanno denunciato un tentativo controrivoluzionario da parte del servizio investigativo dell’ex ministero dell’Interno, accusandolo di essere il fomentatore degli scontri interreligiosi. E in effetti questa spiegazione risponde a tanti interrogativi.
Lunedi 14 marzo 2011
REVOLUTION NEWS: EGITTO E ARABIA SAUDITA
Il miracolo egiziano
All’inizio della scorsa settimana le violenze interconfessionali tra cristiani e musulmani, avevano messo in discussione la grande protesta popolare che aveva provocato la defenestrazione di Mubarak. Chiese bruciate, violenze nelle strade, morti e feriti, avevano trascinato la protesta riformatrice verso una deriva di tipo religioso.
Già venerdi scorso in piazza Tahrir c’erano centinaia di persone, sia cristiani che musulmani, per ribadire l’unità interconfessionale del popolo egiziano, annunciando, come già era stato fatto in rete, che il giorno dopo sarebbero scesi in piazza un milione di persone per ribadire che la rivoluzione egiziana non è a carattere religioso: l’obiettivo di tutti è vivere in uno stato democratico.
Il giorno dopo non c’erano certo un milione di persone per le strade del Cairo ma migliaia di egiziani si sono riversati nella capitale per affermare il carattere non confessionale delle loro proteste. Caso strano c’erano insieme musulmani e cristiani ma anche soldati e ufficiali dell’esercito, i quali hanno ribadito che vigileranno molto più attentamente del passato affinchè gli scontri religiosi non attecchiscano.
Arabia Saudita: Impedire ogni forma di assembramento!
In Arabia Saudita la protesta riformatrice non riesce a prendere forma. La situazione nel paese è abbastanza confusa perché la dinastia del sunnita re Abdallah bin Abd al Aziz al Saud, al potere dal 2005 vive comunque una fase di instabilità sia per l’incerta situazione legata alla discendenza dinastica che anche per l’anacronismo storico del suo sistema politico. L’Arabia Saudita è infatti una monarchia assoluta, con un entourage monarchico disgregato composto da ultraottantenni con centinaia di figli a seguito. Nel paese non esistono diritti e libertà, è persino vietato scendere in piazza a protestare. Il monarca è a capo del governo, nomina i 150 membri dell’unica camera del Parlamento. La costituzione è rappresentata dal Corano, non ci sono partiti e non si fanno elezioni, le donne non hanno diritto al voto e non possono prendere neanche la patente.
In un contesto come questo si stanno mobilitando tutti: sunniti, sciiti, intellettuali e soprattutto giovani, che attraverso Faceboock stanno cercando di organizzarsi per scendere in piazza. Le istanze sono semplici: trasformazione della monarchia, separazione dei poteri, elezioni, e garanzia dei diritti civili. Giovedi scorso a Qatif, la minoranza sciita è andata a protestare per richiedere il rilascio di alcuni leader arrestati dalla polizia. Venerdi un tam tam di 30000 persone su internet ha organizzato la giornata della rabbia per le strade della capitale Ryadh, ma già dalle prime ore dell’alba la città era assediata dalle forze dell’ordine, col dispiego di mezzi pesanti ed elicotteri, tanto che ai manifestanti è stato letteralmente impedito di protestare. Alcune organizzazioni per i diritti umani statunitensi hanno accusato il Segretario di Stato Clinton che ha chiesto di garantire il diritto di protesta a tutti i paesi mediorientali tranne che all’Arabia Saudita…
Martedi 15 marzo 2011
BARHAIN: IL GIOCO DELLE PARTI
Ormai è quasi un mese che in Piazza delle Perle, nel centro di Manama, stazionano centinaia di persone, in una sorta di sit-in permanente. "Non ce ne andremo da qui, almeno fino a quando non verranno accordate le riforme!" E' questa l'espressione più ricorrente che i manifestanti urlano a squarciagola. Ma gli scontri con le forze dell'ordine si sono succeduti in queste ore anche in altre parti della città: dal campus universitario al complesso del "Financial Harbour", nel distretto finanziario della città, considerato il principale simbolo della corruzione del regime. Negli ultimi due giorni vi sono stati gli scontri più duri da quando è stata innescata la protesta: una decina di morti, una sessantina di dispersi e centinaia di feriti, fino ad adesso.
La notizia del giorno è che alcuni paesi arabi, riuniti sotto la sigla, del "Consiglio di Cooperazione del Golfo", per smorzare gli animi protestatari sta inviando truppe e armi nel piccolo stato arabo. I paesi che fanno parte di questo organismo sono: Arabia Saudita, che ha già mandato mille soldati, Emirati Arabi Uniti, che dovrebbero inviare squadre di poliziotti, Kuwait, Qatar e Oman. L'opposizione ha nel frattempo dichiarato che la presenza militare straniera non può che essere considerata una vera e propria occupazione. Dal canto loro alcuni parlamentari hanno chiesto l'imposizione del coprifuoco e l'applicazione della legge marziale contro i manifestanti.
Ma come in ogni storia che si rispetti, anche in questa i retroscena caratterizzano un secolo di storia mediorientale, tra intrighi e lotte di potere dove l'occidente, e soprattutto gli Stati Uniti ne sono il perno. Certo, a leggerla approfonditamente la storia del Bahrain, può stimolare tante suggestioni, anche perchè è assolutamente legata alla storia degli altri paesi arabi. Partiamo dalla prima. Sullo sfondo c'è una lotta intrareligiosa che dura dalla morte del profeta Mohammed. quando l'identità sunnita prende piede su quella sciita, questo significherà persecuzioni, martiri, guerre fratricide.
Nel 1782 il Bahrain, che fino a quel momento era un insediamento della Persia, con una rivolta in perfetto stile piratesco, si staccava dalla madre patria, e il controllo del paese passava nelle mani del clan sunnita al-Khalifa. Vennero quasi subito siglati accordi commerciali con la Gran Bretagna, in cambio di protezione contro la Persia. Solo nel 1971 venne concessa l'indipendenza, e subito lo Scià Reza Pahlavi si fece avanti per riprendersela. Il clan al-Khalifa, che nel frattempo era diventata una dinastia, questa volta chiese protezione agli Stati Uniti, che fecero del Bahrain il principale punto strategico di tutto il medioriente. Anche perchè nel 1979, con la presa del potere dello sciita ayatollah Khomeyni e della trasformazione della Persia in Iran, il Bahrain viene considerato da questa un proprio possedimento. Ecco che a tal punto gli Stati Uniti decidono di creare una vera e propria base logistica permanente, poiché l'Iran diventa un nemico dell'occidente, e lì si insedia la V Flotta della Marina militare, controllando lo stretto di Hormuz, anche perchè è necessario garantire la salvaguardia del venti per cento delle risorse petrolifere mondiali.
Da un lato vi sono le monarchie dinastiche sunnite che garantiscono gli affari all'occidente, dall'altro i regimi autocratici sciiti come Libano, Siria, Iraq e Iran, nel mezzo il Barhen dove una oligarchia sunnita comanda sul settanta per cento degli abitanti sciiti. Qui c'è infatti il primo paradosso. Perchè i sistemi autocratici sciiti non sono certo un esempio di democrazia e rispetto dei diritti umani, ma queste sono le richieste dell'opposizione sciita in Bahrain. Al tempo stesso però gli Stati Uniti, abbastanza silenziosi fino ad adesso, hanno chiesto formalmente al Bahrain di rispettare i diritti dei manifestanti. La domanda è: fino a che punto il gioco delle parti reggerà?
Giovedi 17 marzo 2011
LIBIA: GLI INTRIGHI INTERNAZINALI E LA CADUTA DI BENGASI
Dunque ci siamo, ancora poche ore e Bengasi, la città più importante della Cirenaica, quartier generale della resistenza libica, dov'è insediato il "Consiglio Nazionale", cadrà sotto il fuoco delle milizie di Gheddafi, e anche questa volta si assiste alla solita "messa in scena" della comunità internazionale, nelle sue varie sedi istituzionali, costruita sull'immobilismo. Anche questa volta la trama sembrà già scritta, come altre volte nella storia recente: dalla pulizia etnica nell'ex Jugoslavia al milione di morti in Ruanda. Anche questa volta si ripete il "gioco delle parti", estenuante e insopportabile perchè fatto sulla pelle della gente. Sono giovani studenti, intellettuali, disocupati, lavoratori stanchi di vivere sotto una dittatura, che agognano una vita normale, in una società garantita dalla democrazia. Sono questi che hanno imbracciato le armi contro il despota e stanno aspettando di essere massacrati dalla sua ira. Entro la mezzanotte di oggi si dovrebbe sapere se il Consiglio di Sicurezza dell'ONU deciderà se intervenire con la No-Fly Zone, che significa la protezione di uno spazio aereo che garantirebbe nei fatti il proseguio della resistenza libica al dittatore. La vogliono Francia, Gran Bretagna, Libano, la Lega Araba e dopo tanti tentennamenti gli Stati Uniti, sono contrari Russia e Cina, che potrebbero fare affari in futuro con Gheddafi.
Ma vediamole queste maschere teatrali come hanno recitato le loro parti. Gli Stati Uniti innanzitutto, che già dalle prime ore intimavano il leader libico di lasciare il potere, e se ciò non fosse accaduto qualsisi azione poteva essere presa in considerazione per mettere fine al regime. L'ONU, attraverso una sua risoluzione, dichiarava Gheddafi fuori legge per crimini contro l'umanità, mentre alcuni paesi chiedevano alla Corte dell'Aja l'istruzione di un processo. Poi, il blocco dei beni della famiglia e il valzer delle sanzioni. Già le sanzioni. Atto dovuto da parte della comunità internazionale, ma di scarso peso.
Nel frattempo gli Stati Uniti continuavano a fare proclami contro il regime libico indieteggiando però sulla No-Fly Zone. Si faceva avanti la Francia, proponendo da sola di bombardare la Libia. Anunciava di riconoscere il Consiglio Nazionale come governo provisorio libico, unico paese a fare questo atto, dopo la sollecitazione del Parlamento Europeo. Non si capisce bene il motivo dell'intraprendenza francese nel contesto dell'immobilismo internazionale, qualcosa manda a dire la famiglia Gheddafi dalle tre stazioni televisive che inondano di propaganda l'etere. Sembra, a quanto dice Saif, il figlio secondogenito del despota, che la famiglia abbia pagato la campagna presidenziale di Sarkozy, cosa dimostrabile attraverso i bonifici erogati. Puzza di intrigo dunque... E poi c'è l'Italia, che dice di allinearsi alle decisioni della comunità internazionale, ma la sua posizione ufficiale è quella di aspettare che le sanzioni contro l'ex amico Gheddafi portino dei risultati.
Intanto si prepara la carneficina. I miliziani sono a Misurata dove hanno accerchiato la città ma ancora, nel momento in cui scriviamo, non riescono ad espugnarla: solo questione di ore. Centosettanta chilometri per arrivare a Bengasi, dove sembra che, grazie all'apporto di due ex generali, i partigiani libici si stanno riorganizzando. Lo squilibrio delle forze in campo è però evidente. Allo stato attuale il controllo del pezzo di costa che va da Tobruk a Bengasi, vicino al confine con l'Egitto, è ancora nelle mani dei rivoltosi.
E' quindi lì che si decideranno le sorti della guerra civile, rispetto a quanto tempo riusciranno a resistere. Perchè si preannuncia una strage, quando la famiglia Gheddafi riavrà il controllo dell'intero paese. E' sempre Saif che parla: "Non avremo pietà con chi troveremo con le armi in mano..." Per i partigiani libici non rimane che il mare e l'Egitto come uniche due vie di fuga, l'altra possibilità è il martirio...
Sabato 19 marzo 2011
LIBIA: HANNO ATTACCATO!
Ci siamo dunque, la resa dei conti ha inizio. Alle 17,45 dei caccia francesi hanno bombardato un blindato delle forze lealiste di Gheddafi.
Stamattina Bengasi era stata accerchiata dalle milizie, i bombardamenti sono iniziati alle sei del mattino e si continua a combattere nella periferia sud. Una città spettrale, spaventata, dove alcuni rimangono a combattere e tanti altri fuggono per salvarsi la vita. Intanto nelle prime ore del pomeriggio numerosi caccia «Rafale» francesi hanno iniziato a sorvolare la città, gli stessi che la Francia ha cercato di vendere a Gheddafi solo due anni fa. Queste ricognizioni sono iniziate pochi minuti prima che il Presidente Sarkozy, che ha ospitato il summit della "coalizione dei volenterosi", riunitosi in seguito alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU sulla No-fly Zone, pronunciasse "la dichiarazione di guerra" a Gheddafi.
"Il popolo libico – ha sottolineato il Presidente francese – vuole scegliere il proprio destino e adesso è in pericolo. Noi non vogliamo decidere per loro, vogliamo proteggere la pololazione. Vogliamo permettere al popolo libico di scegliere il proprio destino. Le porte della diplomazia – conclude Sarkozy – si riapriranno quando finiranno gli attacchi alla popolazione".
Ieri Gheddafi annunciava un falso cessate il fuoco, a cui nessuno ha creduto, poi inveiva contro i ribelli "assoldati da al-Qaeda", nel frattempo mandava una lettera ad Obama dove gli spiegava di essere l'unico vero oppositore del terrorismo islamico, e per non farsi mancare niente minacciava gli europei di bombardare il mediterraneo. Dall'altra parte si iniziava a pianificare l'intervento armato sulle coste della Libia. La sesta flotta statunitense veniva allertata insieme alle basi di Sigonella e Trapani. L'Italia, attraverso la voce del ministro della Difesa annunciava di mettere a disposizione oltre che le basi anche mezzi e uomini, smentendo le parole del ministro degli Esteri di qualche giorno fa.
Allo stato attuale non si capisce però come l'intervento militare possa essere attuato. La Francia non vuole un comando NATO perchè inviso, a quanto dice l''Eliseo, ai paesi arabi, i quali hanno partecipato al gruppo dei volenterosi solo come Lega Araba e non come Unione Araba. Gli esperti di strategie militari dicono che ormai è troppo tardi per impedire al despota libico di riprendersi il paese, visto che la guerra si combatte principalmente sul piano terrestre, dove lealisti hanno facilmente il controllo a causa della debolissima resistenza dei ribelli. Quindi per defenestrare Gheddafi occorrerà una strategia sul territorio, cosa che la risoluzione ONU non permette.
Facciamo delle ipotesi sugli interessi in gioco: Russia e Cina si sono astenute sul voto del Consiglio di sicurezza per poter facilmente avere mano libera sul petrolio con Gheddafi, la Germania si è anch'essa astenuta per non entrare nel gioco bellico. Dal canto suo la Francia, che ha orchestrato tutta la campagna bellica, unico a riconoscere il governo provvisorio di Bengasi, potrebbe avere velleità di fare affari d'oro col petrolio dopo Gheddafi, mentre l'Italia, cambia versione un giorno si e l'altro pure, per non restare fuori dal gioco nel caso in cui Gheddafi non dovesse farcela, mentre il suo ministro dell'Interno non riesce a dormire la notte pensando agli sbarchi a Lampedusa, dove continuano ad arrivare persone e le autorità italiane continuano a non saper gestire la situazione. Ma questa, come direbbe qualcuno, è un'altra storia...
lunedì 21 marzo 2011
LA LIBIA E IL GIOCO DELLE IPOCRISIE NEL RICORDO DEL RUANDA
Da quando è iniziato l'attacco in Libia da parte di alcuni paesi dell'occidente, in seguito alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, è iniziato il solito gioco delle ipocrisie. Da un lato i governi occidentali, che dopo un mese di massacri dei civili libici si sono decisi ad intervenire, con la motivazione ufficiale di difendere la popolazione inerme, mentre nella realtà c'è la gara a posizionarsi sul mercato petrolifero per chi deve essere il principale partner economico della Libia dopo Gheddafi.
La Francia che per prima ha spinto l'intevento militare ha ben chiaro i propri obiettivi insieme alla Gran Bretagna: togliere di mezzo Gheddafi a prescindere dall'ONU e dalla NATO. La Russia e la Cina aveva già assaporato l'idea di fare affari con Gheddafi. L'Italia ha una posizione diversa ogni qual volta un suo ministro apre bocca, ma dopo le parole chiarifichatrici di La Russa, che ha chiaramente detto che loro dopo vogliono esserci, si è capito che inseguono Francia e Gran Bretagna per i futuri affari. Gli Stati Uniti appoggiano i partner europei nei loro obiettivi economici, questa volta senza smanie di leadership.
Dall'altro lato vi sono i "pacifisti dogmatici", che a prescindere da ogni cosa, non possono che essere contro ogni bombardamento, approccio condivisibile in linea teorica, ma quando si applicano in modo sistematico forme di genocidi contro le popolazioni, non sarebbe il caso di interrogarsi sui propri dogmi? Come si fa a dire "Ne con le bombe nè con Gheddafi, ma con la diplomazia". Quale azione diplomatica può fermare un criminale che ha assoldato degli spietati mercenari per massacrare il proprio popolo? Perchè lui il potere non lo vuole proprio lasciare...
Abbiamo ancora, per chi ha ricordi e sensibilità, in mente quel milione di corpi squarciati dai macete e dalle mitragliatrici in Ruanda una qundicina di anni fa. Lì nessuno fece niente, lì nessuno disse niente, nè i guerrafondai per fare affari, in Ruanda non c'era il petrolio, nè i pacifisti dogmatici, che dei massacri sistematici che vengono compiuti tutti i giorni in paesi come la Costa d'Avorio, il Congo, la Nigeria, il Camerun, non hanno interesse ad occuparsi.
Noi vogliamo aggiungere solo una cosa: se in Libia le forze internazionali fossero intervenute subito dopo i primi massacri dei mercenari, forse le cose sarebbero andate diversamente, e ci saremmo evitati anche il balletto delle ipocrisie. Ma la storia ci dice che le cose non possono andare come dovrebbero...
venerdì 25 marzo 2011
RAS JADIR: UNA STORIA DA RACCONTARE
Migliaia di tende bianche messe in fila a schiera sembrano, viste dall'alto, serre per coltivare ortaggi, ma lì, nel campo di Ras Jadir, al confine tra la Libia e la Tunisia, riparano centinaia di migliaia di esseri umani che scappano dalla follia omicida di un despota che ha deciso di restare al potere a tutti i costi. Qualche giorno fa, nell'ospedale da campo messo a disposizione dal Marocco, è nata Miriama, figlia di una coppia di rifugiati somali: sta bene e nella violenza di questi giorni quei due genitori sono l'espressione della vita in un contesto di morte e distruzione.
Perché da lì continuano a passare migliaia di persone di varie nazionalità che per anni si sono trovati a vivere in Libia: egiziani, bengalesi, cinesi, indiani, e vari gruppi provenienti dall'Africa sub sahariana, molti di loro scambiati per mercenari assoldati da Gheddafi, perché di pelle nera. Già, i mercenari, che hanno spogliato di tutti i loro averi questa gente in fuga, dal denaro ai cellulari, ma a questi è andata bene, perché molti sono stati reclutati forzatamente dall'esercito irregolare di Gheddafi per combattere.
Poi, ci sono i rifugiati politici, che hanno ricevuto la protezione internazionale dall'ufficio delle Nazioni Unite in Libia. I rifugiati eritrei, ad esempio, hanno raccontato che, non potendo rivolgersi all'ambasciata del loro paese da cui sono fuggiti, hanno preferito rischiare la vita precipitandosi al confine tunisino che nascondersi in Libia.
Il campo messo su dalla mezza luna rossa, dalla croce rossa e dall'UNHCR, è stato sostenuto da uno straordinario tam tam di solidarietà del popolo tunisino, e di tutti quei giovani che hanno innescato la rivoluzione che ha defenestrato Ben Alì. Mentre in Italia si prefiguravano scenari apocalittici sull'invasione italiana dalle coste africane, mentre si lasciava Lampedusa come unico approdo occidentale, generando il caos e perdendo tempo prezioso, quei giovani, da cui tutto è nato, si prodigavano trasportando in quel campo viveri e coperte. Forse questa è una piccola storia, ma nel contesto del terrorismo culturale dei molti che oggi parlano di paura islamica e di manipolazione delle rivoluzioni da parte dei fondamentalisti, quella di Ras Jadir è una storia da raccontare...
lunedì 28 marzo 2011
SIRIA: LA RIVOLUZIONE E LA RESA DEI CONTI
Ormai le notizie sulla situazione in Siria si succedono in modo incessane. Sono 150, allo stato attuale, i morti sul campo. E' di oggi la notizia che la cità di Daraa è stata accerchiata dai carri armati del regime. Durante l'ultimo venerdi della collera, che ormai sembra diventato un vero e proprio rituale rivoluzionario arabo, ribattezzato nella versione siriana in "Venerdì della Dignità", sono morte 13 persone. Oltre che a Daraa, in varie città si è combattuto: da Damasco fino ad Hama, diventata città simbolo per la repressione nel sangue da parte del padre dell'attuale presidente nei confronti di una rivolta dei Fratelli Musulmani, era il 1982.
Ma forse il momento che meglio fotografa questa rivoluzione e questa autocrazia è stato l'arresto di una intera scolaresca di bambini che intonavano canti contro il potere costituito. Si, perchè la Siria è uno dei paesi più duri, dal punto di vista delle garanzie di cittadinanza più elementari. E lì infatti che è ancora in vigore una "legge di emergenza" che dura da quarant'anni e che vieta tutto: dalla libertà di riunione e di espressione, alla libertà di partecipazione politica. Il partito Bath, organizzazione dell'islamismo sciita, è l'unico partito ammesso.
Ma se il Potere in Siria è personificato dalla dinastia degli Assad, della città di Latakia, roccaforte degli sciiti alawiti, nella realtà è sostenuto dall'esercito, che ha un peso straordinario nella gestione del Potere, ed è sunnita, come la maggioranza del popolo, che in questo momento si sta ribellando. In effetti quando nel 2000 il giovane Assad andò al potere, si racconta che lo fece suo malgrado, poichè in seguito agli studi in Europa, aveva immaginato la sua vita in un modo diverso. Forse per questo si parlò di una nuova era riformatrice per la Siria. Ma così non fu: si guadagnò invece il titolo di stato canaglia da Bush figlio.
Certo è che tutto quello che sta succedendo in Siria ha un peso assai diverso nel contesto delle rivoluzioni mediorientali, non foss'altro per l'importanza che ha questo paese nello scacchiere arabo: da sempre principale nemico di Israele, sia per i possedimenti contesi del Golan, che per il tema relativo alla causa palestinese. Per queste ragioni la Siria è il principale alleato di Hamas e di Hezbollah e per queste ragioni è sempre stato uno dei paesi più pericolosi e belligeranti dell'area.
Intanto il giovane Assad annuncia grandi riforme, la repressione continua ma lui annuncia l'abolizione della legge di emergenza, annuncia un nuovo governo, annuncia che mercoledi farà un discorso alla nazione. Ma forse, questa volta, la rivoluzione del popolo sta per innescare la resa dei conti tra le oligarchie medirientali che negli ultimi quarant'anni si sono combattute.
giovedì 21 aprile 2011
UGANDA: E' INIZIATA LA RIVOLTA
Il vento della rivolta inizia a scendere verso la parte centrorientale del continente africano. Negli ultimi dieci giorni le strade di Kampala, capitale dell’Uganda, sono state attraversate da un grande movimento di protesta contro il neoeletto Presidente Yoweri Museveni, al potere da venticinque anni. Il bilancio degli scontri non è univoco tra le fonti d’informazione: comunque sembra ci siano 4 morti, 150 feriti e un centinaio di arresti, tra cui i maggiori esponenti dell’opposizione, compreso lo sfidante alle ultime elezioni di febbraio Kizza Besigye, principale avversario del Presidente ugandese.
Gli eventi stanno precipitando ora dopo ora, ed il livello di tensione nel paese è sempre più alto. Il culmine, fino a questo momento, è stato raggiunto lunedi scorso, giorno in cui è stata indetta una manifestazione nella capitale con un titolo estremamente indicativo: “Walk to Work”, per affermare il diritto al lavoro e alla sicurezza economica, dimensioni assolutamente precarie a causa di un sistema di potere autocratico, che calpesta i più elementari diritti. Dai sobborghi della città migliaia di persone si sono dirette verso il centro. Nel frattempo le forze antisommossa del governo si sono concentrate sugli accessi strategici della città, dove sono esplosi i tafferugli, con scontri, lacrimogeni e sparatorie contro i manifestanti. Besigye, leader del "Forum for Democratic Change", ormai consacrato simbolo dell'opposizione, è stato bloccato prima che potesse arrivare sul punto di concentramento dei manifestanti. Alcuni testimoni hanno dichiarato che ha a resistito all'arresto almeno un'ora, sedendosi in mezzo ad una strada del sobborgo di Kasangati. Quando la polizia è riuscita a portarlo via, una folla inferocita si è radunata presso la centrale del suddetto sobborgo per protestare. Il leader politico veniva rilasciato dopo qualche ora, in seguito al pagamento di una cauzione. L'aspetto tragicamente ironico è che l'esponente politico nel giro di due settimane è stato arrestato per ben tre volte, l'ultima proprio ieri, con l'accusa di istigazione alla violenza.
I motivi che hanno generato l'escalation di proteste sono legati al dissestato assetto socio-economico del paese, direttamente proporzionale alla gestione di un sistema di potere autocratico, violento e corrotto, nel contesto di una trentennale guerra di tipo tribale. Ma andiamo per ordine. Vediamo alcuni dati di fondo. In Uganda vi è una popolazione urbana che copre il 12,2 per cento, un livello di alfabetizzazione del 68,9 per cento, una mortalità infantile all'8,8 per cento, mentre l'aspettativa di vita è di 42 anni e l'indice di sviluppo umano posiziona il paese al 146eiesimo posto su 177.
Dalla metà degli anni ottanta fino ad oggi, nel nord del paese, nella parte confinante tra il Sudan e la RD Congo, si combatta una guerra terrificante, con i guerriglieri del LRA (Lord Resistance Army) capeggiati da un uomo spietato dal nome Joseph Kony, una sorta di fondametalista cristiano. Costui, col suo esercito irregolare, per finanziare e sviluppare il suo sistema bellico utilizza sempre lo stesso diabolico approccio, cioè quello di entrare nei villaggi, saccheggiarli e raderli al suolo. Poi prende con se le bambine anche sotto i dieci anni, per farne concubine o schiave del sesso, mentre i bambini li aruola come guerrieri. Non solo ma li costringe ad uccidere i propri genitori con mazze e bastoni, per non sprecare le pallottole. I rapporti di "Human Right Watch" riportano gli sconvolgenti dati degli ultimi due anni, considerato che questo esercito agisce oltre che in Uganda anche in Congo, Sudan e nella Repubblica Centroafricana.
Negli ultimi mesi, in Uganda, una inflazione galoppante ha espulso migliaia di persone da un mercato del lavoro fisiologicamente dissestato, aumentando il livello d'impoverimento del paese. Uno spaventoso rialzo del petrolio ha fatto impennare i prezzi dei prodotti alimentari di prima necessità. Se poi a ciò si aggiungono i due milioni di dollari stanziati per la festa legata alla cerimonia di giuramento del Presidente, che segnerà l'inizio del nuovo mandato, tra l'altro ottenuto con evidenti brogli elettorali, come ormai Yoweri Museveni fa da venticinque, si chiude il cerchio dell'esasperazione popolare che sta portando il paese centro africano ad una nuova rivoluzione.
martedì 26 aprile 2011
SIRIA: “NON ABBIAMO PIU’ PAURA!”
Mentre il mondo cristiano festeggia la pasqua, nelle città siriane diventa difficile contare i morti. E’ un vero e proprio bollettino di guerra. Dal venerdi della collera le forze d’assalto siriane ormai conducono una guerra spietata contro la popolazione inerme. Si perché le uniche armi utilizzate dai “ribelli” sono le parole e la rabbia di chi non ce la fa più a vivere senza diritti né libertà. “Non abbiamo più paura” grida la gente per le strade, mentre i mortai gli sparano addosso. Così, i corpi lasciati per le strade, poiché nessuno ha la possibilità di raccoglierli e seppellirli, danno il senso di una immane tragedia, che fino a questo momento è soltanto stigmatizzata dalla comunità internazionale. Intanto basta camminare per la strada per essere preso di mira dai militari. Nemmeno le autoambulanze non possono circolare poiché anch’esse diventano facili bersagli. Ma la cosa ancora più raccapricciante è che ormai si spara anche dentro le case, questo a significare che non c’è modo di scampare alla mostruosa dittatura siriana di Assad, che adesso accusa la Giordania di essere il promotore degli eventi, motivo per cui è stato chiuso il valico di frontiera, mentre le stragi di Daraa sono state giustificate per impedire la creazione di un emirato islamico salafista.
E’ drammaticamente patetica questa storia dei dittatori nord africani e mediorientali di imputare ai paesi vicini o alle forze internazionali la responsabilità di ordire complotti contro di loro, cercando di restare legati ad un potere che sono destinati a perdere, e questo la prezzo della vita di centinaia di persone, che nel caso della Siria non hanno imbracciato nemmeno le armi per combattere il regime. In realtà in Siria il movimento di opposizioneal regime è assolutamente precedente all'effetto domino che ha colpito negli ultimi tre mesi i paesi mediorientali. Già dal 2006 era stato creato un giornale on line dal titolo "Syria News", finalizzato a denunciare la corruzione del paese, e dove alcuni blogger avevano costruito uno stutturato sistema di relazione con alcuni dissidenti espatriati. Attraverso il web, questo gruppo di "attivisti informatici" aveva persino avviato una campagna mediante il semplicissimo strumento delle e-mail, per insegnare, a chi si proponeva di diffondere informazioni contro il regime, come evitare la censura usando i proxy.
Non sembra possibile ma è proprio così. L'effetto moltiplicatore del web ha creato un sistema di circuitazione delle informazioni che sta mettendo in ginocchio il regime al punto da perpetrare massacri indiscriminati. Il simbolo di questo movimento si chiama Rami Nakhle, pseudonimo Malath Aumran, ventottenne laureato in Scienze Politiche ed esperto informatico, costretto in dicembre a rifugiarsi in Libano perchè ricercato dai servizi segreti siriani, i quali continuano a dargli la caccia come se fosse un pericoloso agente segreto del controspionaggio. Le sue armi non sono però quelle delle spie che solitamente possiamo vedere nei film di genere, ma semplicemente facebook e twitter. E' nascosto in un quartiere cristiano di Beirut, dove una cerchia di amici proteggono la sua clandestinità. E' quotidianamente minacciato di morte, sia lui che la sua famiglia, per questo non esce mai dal suo rifugio. Lavora venti ore al giorno al computer tessendo le fila di una guerra telematica di cui è uno dei principali protagonisti. Il suo lavoro è fondamentalmente quello di far circolare le informazioni tra l'esterno e l'interno della Siria, fondamentali per comprendere ciò che succede nelle strade della città, dal numero dei morti alla tipologia delle violenze del regime. Ma egli riesce ad aggirare la censura, mettendo in collegamento gli attivisti sul campo, organizzati attraverso i cosiddetti "comitati". La cosa straordinaria che a questi comitati partecipano insieme, uniti nella lotta, sia cristiani che musulmani, i quali trovano nella pagina di facebook "Syrian Revolution 2011", con 120 mila fan, il luogo di incontro, ma anche di elaborazione politica, della protesta.