Le società di massa

 

Questo laboratorio è stato realizzato all'interno della Cattedra di Sociologia delle Comunicazioni di Massa dell'Università di Catania, nell'anno accademico 1993/94.

 

La società radiofonica

 

 

1. La società delle masse

 

Nel ventesimo secolo il concetto di “massa” diventa dunque, nel bene e nel male, centrale, non soltanto in quanto entità economico-produttiva, dove la fabbrica assurge a simbolo di contrazione spazio-temporale, ma anche per la ridefinizione degli assetti sociali  che investono il piano politico con l’avvento delle ideologie di massa… Ecco come Gustave Le Bon spiegava il fenomeno nel 1895: “Non più di un secolo fa, la politica tradizionale degli stati e la rivalità tra i principi costituivano i principali fattori degli avvenimenti. L’opinione delle folle, nella maggioranza dei casi, non contava affatto. Oggi, invece, le tradizioni politiche, le tendenze individuali dei sovrani e le rivalità esistenti tra questi ultimi hanno ben scarso peso. La voce delle folle è divenuta preponderante. Detta ordini al re. E’ nell’anima della folla, e non più nei consigli dei   principi, che si preparano i destini delle nazioni”.

            La società di massa è insomma il prodotto del processo innescato dalla rivoluzione industriale a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Un processo questo che potremmo definire di geografia sociale. Partendo dall’assunto che il centro della società è polarizzato dalle istituzioni, che fondano la loro legittimità su valori ad essa propri, possiamo dire che questi valori  nell’ottocento erano ancora condivisi da una ristretta cerchia della società, mentre la massa era relegata della periferia della stessa.

In seguito alla rivoluzione industriale la massa si sposta al centro della società, in linea col fenomeno di omologazione delle classi sociali, poiché il sistema di produzione risponde ai bisogni valoriali di tutti, anche perché i processi di inurbamento hanno determinato nuovi equilibri nelle comunità sociali.

            Seguendo la definizione storiografica compiuta da McLuhan, diventa interessante scomporre il XX secolo, che tradizionalmente è codificato come “storia contemporanea”, in relazione all’avvento di nuovi mezzi di comunicazione, che come abbiamo visto, hanno bisogno di processi di alfabetizzazione planetari, costringendo le società evolute ad adeguarvisi.

            Nel ventesimo secolo si riproducono le stesse dinamiche dei secoli precedenti, con la differenza che le trasformazioni, in seguito all’invenzione dell’elettricità, sono velocissime. Nell’arco di un secolo, infatti, possiamo contare quattro tipologie sociali diverse, segnate dall’avvento di mezzi e forme di comunicazione di massa diversi.

            La “prima società di massa” è la società radiofonica, che caratterizza la drammatica fase che abbraccia le due guerre mondiali. L’ avvento di massa della televisione, che possiamo far risalire agli inizi degli anni cinquanta, rappresenta la “seconda società di massa”, che vede l’imposizione del modello statunitense in  tutto il mondo occidentale, sia dal punto di vista politico-economico, che comunicativo. Con l’inizio degli anni ottanta si ha la “terza società di massa”, è qui infatti che il concetto di villaggio globale viene compiutamente realizzato, in tutto il mondo evoluto, grazie alla nascita della Tv via cavo, con una sua maggiore espansione alla fine del decennio, in seguito alla “caduta dei muri”, che integra i paesi ex comunisti dell’est Europa all’interno della “Società planetaria liberale dell’informazione”. Infine gli anni  novanta possono essere codificati come “quarta società di massa”, poiché il mondo viene sconvolto dall’invenzione di Internet, un sistema di comunicazione di massa anziché un mezzo. 

           

2. La stampa popolare

 

            “Fini e sostegni commerciali hanno indirettamente esercitato un influenza notevole sui contenuti, rendendo alcuni settori della stampa implicitamente favorevoli al mondo degli affari, al consumismo e alla libera iniziativa se non alla destra politica… E’ importante notare, come risultato della commercializzazione, l’emergere di un nuovo tipo di giornale: più leggero e piacevole, più sensazionale nella sua attenzione verso il crimine, la violenza, gli scandali e i divi, con un pubblico di lettori in cui prevalgono largamente gruppi di persone di basso livello economico e di istruzione” (McQuail).

            Il tipo di esperienza descritta da McQuail nasce agli inizi del secolo: il giornale popolare, che negli Stati Uniti rappresenta il primo salto verso la società di massa. Nato dal giornale liberale ottocentesco, è il primo segnale della nascente industria culturale, ma è anche la costruzione di un nuovo potere, poiché, diversamente dal secolo precedente ha allargato quello che oggi chiameremmo “target”. Orson Wells, con uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, racconta di questo “Quarto potere”, attraverso il delirio di onnipotenza di un magnate dell’editoria. Wells lo chiama “il cittadino Kane”, ma la sua opera cinematografica prende ispirazione dalla storia  di uno dei fondatori dell’industria culturale americana, nel settore del giornalismo popolare: William Randolph Hearst.

            Il ritratto del cittadino Kane è il ritratto di quella America in cui il cinema hollywoodiano, la radio, il taylorismo e la Ford esprimono la nuova tipologia sociale.

 

3. Il cinema

 

            Il cinema, meglio di qualsiasi medium di massa, negli anni venti, ha saputo esprimere il rapporto tra archetipi e stereotipi dei modelli insiti nei vari sistemi culturali. Proprio per questa ragione ci sembra interessante capire come attraverso il cinema siano state rappresentate  le culture di massa di Stati Uniti e Germania, in quanto chiavi di lettura delle modalità antitetiche con cui verrà risolta la crisi anomica che investe i due paesi alla fine degli anni venti.

            Iniziamo questa analisi con un postulato paradigmatico di McQuail…

“Fu parzialmente una risposta sia all’invenzione del tempo libero sia alla domanda di modi economici che permettessero alla famiglia di spendere il tempo libero. Di conseguenza fornì alla classe lavoratrice alcuni benefici culturali già goduti dalle classi superiori… Occorre inoltre considerare quegli elementi ideologici ed implicitamente propagandistici che si trovano, appena dissimulati, in molti film destinati all’intrattenimento popolare, fenomeno che sembra indipendente dalla presenza o dall’assenza di libertà all’interno della società”.

            Detto questo, è necessario utilizzare uno strumento comparativo tra le diverse tipologie cinematografiche e relativi sistemi culturali. In questa ottica ci vengono incontro Galli e Rositi, i quali hanno studiato questo tipo di problematiche…

            “La contrapposizione di fondo tra cinema americano e cinema tedesco non è già nella contrapposizione tra valori collettivi espliciti di segno diverso (più democratici in Usa, più autoritari in Germania); ma nella contrapposizione di valori che investono la sfera del privato (dai problemi morali, all’amore, al denaro), che sfociano in un maggiore accento nel cinema americano rispetto a quello tedesco, su una serie di elementi con caratteristiche euforiche anziché disforiche”.

            Il cinema della Germania di Weimar, nei suoi contenuti più intimamente disforici è legato al movimento espressionista, che proietta totalmente l’artista verso l’espressione dei sentimenti interiori. L’espressionismo cinematografico è meglio connotato nella fase del muto, dove si andavano ad affermare modalità narrative fantasticamente e mostruosamente deformanti la realtà. Uno dei maestri dell’espressionismo cinematografico tedesco è Fritz Lang, il quale coglie il senso più profondo di questo approccio attraverso due pellicole cult: “Metropolis” (muto) e “Il mostro di Dusseldorf” (parlato).

            Il cinema americano a tendenza euforica è un cinema ottimistico, definito dell’ “happy end”, per il prevalere di narrazioni fantastiche, che rappresentavano ideali e modelli di azione eccedenti le concrete quotidiane condizioni di vita del pubblico medio, ma che non erano tali da impedire ogni concreta possibilità di identificazione imitativa…

            In definitiva possiamo dire che negli anni venti alla cultura di massa di tipo hollywoodiano se ne accosta un’altra di tipo tedesco, che dagli anni quaranta in poi si incontreranno all’interno della medesima industria culturale.

 

4. La stanza degli echi

 

“La radio tocca intimamente, personalmente, quasi tutti in quanto presenta un mondo di comunicazioni sottintese tra l’insieme scrittore-speaker e l’ascoltatore. E’ questo il suo aspetto immediato: un’esperienza privata. Le sue profondità subliminali sono cariche di echi risonanti di corni tribali e di antichi tamburi. Ciò è insito nella natura stessa del medium, per il suo potere di trasformare la psiche e la società in un'unica stanza degli echi…” (McLuhan).

 In questo passo  McLuhan offre un’analisi della radio, dibattuta e controversa dalla successiva pubblicistica massmediologica. L’astrazione archetipica che ne fa lo studioso canadese attraversa la metafora della stanza degli echi: spazio di fusione tra psiche e società.

            “La radio, come qualunque altro medium, ha un suo manto che la rende invisibile. Ci si presenta apparentemente in una forma diretta e personale che è privata e intima, mentre per ciò che più conta è una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare le corde remote dimenticate…La radio è un’estensione del sistema nervoso centrale alla quale può essere accostato soltanto il discorso umano. Non merita forse riflessione il fatto che sia particolarmente accordata su quella prima estensione del nostro sistema nervoso centrale, su quel mass medium aborigeno che è la lingua parlata?” (McLuhan).

            McLuhan sottolinea con forza l’importanza dell’immagine auditiva della radio e lo fa accostando due personaggi che negli anni trenta debbono il loro successo alla “stanza degli echi”, protagonisti di una sorta di “neotribalizzazione” delle società evolute: Orson Welles e Adolf Hitler.

            “La famosa trasmissione di Orson Welles sull’invasione dei marziani era una semplice dimostrazione della portata onnicomprensiva e totalmente coinvolgente dell’immagine auditiva della radio. E fu Hitler a trattare sul serio la radio alla maniera di Welles. L’esistenza politica di Hitler deriva direttamente dai modi di rivolgersi al pubblico. Ciò non significa che tali media trasmettessero effettivamente al popolo tedesco i suoi pensieri. Questi ultimi in realtà avevano pochissima importanza. La radio fornì la prima grande esperienza di implosione elettronica, cioè di un totale capovolgimento degli indirizzi e dei significati della civiltà alfabeta occidentale” (McLuhan).

            C’è un particolare aspetto da sottolineare sulla trasmissione di Welles “La guerra dei mondi” , e cioè che la data di emissione risale al 1938, mentre Hitler va al potere nel 1932. E allora perché McLuhan sottolinea che è Hitler ad utilizzare la radio alla Welles e non viceversa? La risposta più plausibile può essere sintetizzata nel fatto che Hitler utilizza la radio  in linea con l’uso che ne fa l’industria culturale hollywoodiana…

            Nella mitologia hollywoodiana il posto ricoperto da Orson Welles è atipico rispetto alle grandi star del cinema americano, poiché, a parte la geniale filmografia, dai ritratti d’ambiente alle messe in scena shaksperiane, può essere considerato un grande esperto di comunicazione. Con “The war of the worlds” e “Quarto potere”  Welles fu il grande narratore della prima società di massa, colui il quale spiegò tra gli anni trenta e quaranta in che tipo di società il mondo evoluto era entrato.

            La guerra dei mondi era un radiodramma, prodotto dalla CBS, su una ipotetica invasione dei marziani nel New England. La storia, sceneggiata oltre che da Welles da Howard Kock, non veniva presentata dall’emittente come un normale programma di fiction, ma veniva simulata come una cronaca giornalistica in diretta. I dialoghi erano dunque tra giornalisti impersonati da attori della compagnia del  futuro cineasta. Le situazioni erano raccontate mirando all’effetto realtà: dalla trasmissione precedente interrotta bruscamente, alle interruzioni audio per significare la cattiva ricezione del messaggio, a tutti i generi di effetti sonori che potessero rappresentare il panico. Non una descrizione dei marziani, non una notizia inerente alle dinamiche dell’invasione; tutto era giocato sulle sensazioni sonorizzate.

            Il risultato della trasmissione radiofonica fu una notte di pazzia americana. L’evento fu recepito dagli ascoltatori per reale, scatenando il panico di massa, e a nulla valsero le comunicazioni radiofoniche che ristabilivano la realtà: la gente volle credere  di stare per soccombere ai marziani.

            Come dice Omar Calabrese, “La guerra dei mondi” può essere considerato uno studio scientifico sulle comunicazioni di massa, precorrendo McLuhan in relazione al fatto che il medium è il messaggio e descrivendo Hitler sull’importanza della forma sul contenuto.

            “Una trasmissione che coinvolge milioni di persone con un’impressione di contemporaneità ed eccezionalità provoca reazioni illogiche ed incontrollabili esplosioni emotive che bloccano il ragionamento… Come poteva essere riuscita una burla così enorme? Evidentemente solo se il pubblico modernizzato dalle tecnologie, razionalizzato dallo scientismo del progresso, covava per contrappeso un profondo desiderio di irrazionale…” (Calabrese).

            Cerchiamo di capire a tal punto attraverso quali meccanismi si è sviluppata l’operazione radiofonica di Welles, utilizzando l’analisi di Rudolf  Arnheim, uno dei massimi esponenti della psicologia dell’arte, che agli inizi degli anni trenta aveva studiato il linguaggio del mezzo radiofonico, interessandosi in particolar  modo della fiction.

            Interessante può essere l’approccio di Arnheim, in primo luogo perché la sua opera è precedente all’evento in questione, ma anche perché è il primo studio scientifico sul mezzo radiofonico, a pochi anni di distanza dalla sua nascita…

            Arnheim s’interessa al radiodramma, mediante una continua comparazione con la fiction teatrale e cinematografica, osservando che l’arte uditiva della radio è più idonea dell’arte visiva per rappresentare lo svolgimento drammatico, questo perché “le percezioni acustiche che ci comunicano dei cambiamenti, a differenza di quello che succede nel campo ottico, prevalgono così notevolmente sulle percezioni che ci rimandano a qualcosa di persistente e immutato” (Arnheim).

            Tra campo visivo e campo acustico cambia la connotazione del testo, poiché nel secondo caso la parola assurge a suono, all’interno di un mondo di suoni. Ecco che ritorna quell’effetto “tribalizzante” di cui parla McLuhan: “Quest’arte uditiva ci porta indietro fino ai tempi preistorici, molto prima dell’invenzione del linguaggio umano vero e proprio, le grida di richiamo e di avvertimento degli esseri viventi erano intellegibili solo in quanto erano suono per la forza espressiva di questo suono, così come succede ancora oggi per il linguaggio animale” (Arnheim ).

            I suoni, quindi, come sceneggiatura del mezzo radiofonico… Entriamo così all’interno di una dimensione suggestiva, una sorta di semantica del suono, strutturata su un codice che non è segnico ma sonoro, che su queste modalità espressive forma il linguaggio del mezzo. Ed è proprio in relazione al tipo di modalità espressive proprie alla radio che è possibile accostare il bisogno di irrazionalità dell’uomo tribale con l’uomo-massa.