Dal 13 al 26 ottobre è caccia al migrante

 

 
oltremedianews.com  di Nicola Gesualdo - 7 ottobre 2014
 
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Quasi due settimane di caccia all'uomo e 18mila agenti coinvolti; queste le politiche europee per risolvere il problema integrazione. Una politica lungimirante che immagini un mondo senza frontiere, questo il sogno di tanti.

 

Un'operazione di polizia che interesserà tutta l’Europa chiamata “Mos Maiorum” prenderà il via il 13 ottobre per concludersi il 26 ottobre. L'operazione è stata approvata il 9 luglio dal Consiglio dell’Unione Europea. Durante queste due settimane 18000 agenti di polizia cercheranno persone senza documenti. Lo scopo di questa missione è quello di raccogliere informazioni sulle rotte migratorie. Un aumento dei controlli è previsto sui treni, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, nelle autostrade e ai confini interni dell’Europa. Insomma, delle retate nei confronti dei migranti. 
Sicuramente esiste un problema di integrazione, ma di certo il miglior modo per affrontarlo e risolverlo non possono essere le retate.

Un escalation di odio si sta divulgando nella grandi città italiane, forse le politiche intente ad affrontare la tematica dell'integrazione non aiutano il cittadino, anzi, portano il cittadino a guardare con disprezzo e con distanza lo straniero, quindi implicitamente viene divulgato un atteggiamento ed un pensiero razzista.

Entro il 2050 gli immigrati saliranno in media a 131.000 l'anno in entrata. Non è questo il numero che dovrebbe spaventare ma quello dei permessi di soggiorno negati che obbligano i rifugiati alla clandestinità e permettono ai datori di lavoro di ricattare gli immigrati con un infimo gioco al ribasso; abbiamo scritto in un altro articolo.

Cos'è il Mos Maiorum?

Le delegazioni troveranno sotto la proposta di operazione di polizia congiunta "Mos maiorum", predisposto sulla base delle linee guida indicate nella Guida per l'operazione congiunta di polizia

L'operazione congiunta (JO) "Mos maiorum", sarà attuata tra il 13 e il 26 ottobre 2014, nel quadro della Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea.

Il Mos Maiorum è una continuazione delle precedenti operazioni tenutesi durante le presidenze del Consiglio dell'Unione europea, ed è stato predisposto sulla base delle linee guida indicate nella Guida per l'operazione congiunta di polizia.  

Il J.O. "Mos maiorum" è un'operazione che cercherà di indebolire la capacità delle organizzazioni criminali di favoreggiamento dell'immigrazione illegale verso l'UE e si concentrerà sulle frontiere in modo clandestino. Un altro obiettivo di questa operazione è quello di raccogliere informazioni per scopi di intelligence e di indagine, per quanto riguarda le principali rotte seguite dai migranti di entrata nella zona comune e il modus operandi utilizzato da reti criminali per contrabbandare persone verso il territorio dell'UE.



OBIETTIVI

Il JO "Mos maiorum" sta per essere attuato a:
  •  comprendere i migranti irregolari e raccogliere informazioni rilevanti per l'intelligenza e fini investigativi; 
  •  individuare, perseguire e distruggere gruppi di criminalità organizzata; 

  •  dare un quadro chiaro e aggiornato della situazione relativa alla zona operativa, modus operandi,  principali tendenze e possibili cambiamenti rapidi in questi aspetti; 

  •  consolidare le azioni comuni per raggiungere un impatto sull'immigrazione clandestina (controlli alle frontiere e le attività di sorveglianza di frontiera); 

  •  eseguire (sulla base dei risultati dell'analisi dei rischi), il controllo lungo le principali rotte di immigrazione clandestina sulle principali rotte seguite dalle reti di migranti illegali (all'interno dello spazio Schengen e alle frontiere esterne); 

  •  raccogliere e analizzare informazioni relative al cosiddetto movimento secondario anche. 3 paesi partecipanti 

 GESTIONE E SUPPORTO

Il JO "Mos maiorum" è la volontà del Coordinato dalla Direzione Centrale dell'Immigrazione e della Polizia delle frontiere del Ministero dell'Interno italiano, in stretta cooperazione con l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea (Frontex)

Frontex contribuirà a sostenere l'operazione dell'Autorità italiana nella fornitura di analisi del rischio, e la data di trasmissione delle informazioni relative ai movimenti secondari riuniti alle frontiere esterne.


PROCEDURE. Raccolta e reporting dei dati 

In particolare, tutti i paesi partecipanti, saranno invitati a raccogliere le seguenti informazioni:

A) i dettagli di intercettazione: data e ora del rilevamento, la posizione e il luogo di intercettazione, mezzi di trasporto;

B) dei migranti dettagli: migranti nazionalità, sesso ed età, e la data del punto di ingresso nell'UE;

Itinerari 
C) dei migranti: itinerari, mezzi di trasporto e un intercetto prima della data seguite per arrivare nella UE; percorsi dichiarati dopo l'intercettazione e la destinazione finale dei migranti;

D) modus operandi: falsi documenti di viaggio / falsificati sequestrati, domanda di asilo, l'indicazione di traffico di migranti irregolari, nazionalità facilitatori e il paese di residenza, denaro pagato per il viaggio da ciascun lavoratore;

E) Osservazioni: testo libero o per altre informazioni utili per quanto riguarda il modus operandi facilitazione.


 COSTI PREVISTI 

Non vi è alcuna stima dei costi generali dell'operazione che ciascun paese partecipante e Frontex dovrebbe coprire , eventuali costi finanziari relativi al suo coinvolgimento in questa operazione.

L'obiettivo dell'Europa dovrebbe essere l'abbattimento delle frontiere e non l'innalzamento di muri.
 


Accordo di Schengen

                                                                                                                                     

 La corte europea approva

la legge francese sul velo integrale

 

 

 Internazionale - 1 luglio 2014


Una donna con il velo a Parigi, in Francia, il 29 giugno 2014. (Stephane De Sakutin, Afp)

 

Secondo la corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo la legge francese che vieta d’indossare il velo integrale non viola né il diritto alla libertà di religione né quello al rispetto della vita privata.

È stato quindi respinto il ricorso presentato da una donna francese di 24 anni, di religione musulmana, che si era rivolta alla corte per contestare la legge approvata nel 2010 in Francia ed entrata in vigore l’11 aprile 2011.

 

La donna si era appellata all’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata), all’articolo 9 (diritto alla libertà di pensiero e di religione) e all’articolo 14 (diritto a non essere discriminati) della Convezione europea dei diritti dell’uomo, dichiarando di indossare burqa e niqab in piena libertà e seguendo la propria volontà di vestirsi a suo piacimento.

 

La sentenza della corte sottolinea che la legge francese è effettivamente un’intromissione “permanente” nella vita privata e nella religione dei cittadini, ma è legittimata dalla motivazione di “proteggere le condizioni della vita associata”, prevista dalla Convezione, spiega Le Monde.

 

Per la corte è invece eccessiva la motivazione della sicurezza addotta dalla Francia per introdurre il divieto. Secondo la corte europea il divieto assoluto di portare il velo non è proporzionato alla preoccupazione di evitare “scambi d’identità” e “prevenire attentati alla sicurezza di persone e beni”.

 

Secondo Amnesty International la decisione della corte è “profondamente sbagliata” ed è “una minaccia alla libertà d’espressione”.

 

Fuga dalla guerra tra le braccia del razzismo

 

  unimondo.org  di  Miriam Rossi  -  24 giugno 2014

 

La storia di Mamadou Ba ha dell’incredibile, specie per chi è portato a pensare naturalmente “che da noi certe cose non succedono”.

Da noi dove? Nel Vecchio Continente, in Europa.

Da noi cosa non succede? Che le forze dell’ordine possano abusare dei propri poteri, contravvenendo al loro compito di difesa di tutti i cittadini. Che esistano gruppi, anche di ispirazione neonazista, che picchiano, torturano e uccidono altre persone per ragioni razziali.

 

Mi immagino già qualche mano alzata dopo queste poche affermazioni da parte di chi non dimentica in Italia il caso di Federico Aldrovandi, morto a soli 18 anni per i colpi inferti da alcuni poliziotti, o quello dei cosiddetti “omidici dei kebab”, dieci omicidi, decine di attentati e rapine a sfondo razzista compiuti in Germania. Ulteriore preoccupazione, e sdegno, ha suscitato la notizia recente del linciaggio di un giovane rom in una banlieue di Parigi. Dunque niente di nuovo sotto il sole in un continente che ha fatto dello stato di diritto e della tutela dei diritti umani la sua bandiera ma che purtroppo si trova ancora a fare i conti con antisemitismo e razzismo, potenziati oggi dalla ricerca di un capro espiatorio a cui attribuire le colpe della crisi in corso e legittimati peraltro politicamente dal voto popolare alle elezioni nazionali ed europee.

 

La vicenda di Mamadou Ba costituisce in ogni modo un unicum, frutto del clima di crescente razzismo in Europa di cui anche l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Navi Pillay, si è detta preoccupata. Quarantenne guineano, dal 2007 rifugiato politico in Grecia, di cui ha acquisito anche la cittadinanza, nell’ottobre 2013 è letteralmente scappato in Belgio dove il 19 maggio di quest’anno ha ottenuto asilo, a seguito della sua richiesta. Che non ci siano equivoci su questo punto: le autorità belghe hanno concesso lo status di rifugiato a Mamadou Ba perché in Grecia la sua vita era a rischio, e non per la sua origine guineana. Il caso di Mamadou Ba è senza precedenti, perché è fuggito da un Paese dell'Unione Europea, che lo aveva già riconosciuto come rifugiato, per richiedere asilo in un altro Stato membro. Peraltro si potrebbero eccepire dubbi dal punto di vista giuridico sul fatto che uno Stato membro dell’UE possa concedere nuovamente asilo, seppure per un’altra circostanza, a chi è già stato riconosciuto tale status. Degno di nota è peraltro che, mentre le pratiche di accertamento delle affermazioni di Mamadou Ba proseguivano dandogli ragione circa il livello di violenza praticato in Grecia di cui egli era stato vittima, la Grecia manteneva il semestre di presidenza della Commissione dell’UE che indirizza le attività dell’intera organizzazione sovranazionale senza alcun tipo di ammonizione.

 

Ecco la sua storia. Mamadou Ba viveva al Patissia, un quartiere centrale di Atene, lavorando come lavapiatti in un ristorante. Nonostante le difficoltà economiche, era riuscito non solo a sbarcare il lunario, ma anche a essere un cittadino attivo per garantire dignità e diritti ai membri della sua comunità di appartenenza emigrati in Grecia. Una notte del maggio dello scorso anno Mamadou era in attesa alla fermata dell’autobus quando alcuni uomini in moto legati al partito di estrema destra Alba Dorata lo hanno aggredito, colpendolo in fronte con una mazza metallica; lo hanno lasciato tramortito in mezzo alla strada, più morto che vivo. Ricordi confusi si sono accavallati nella testa dell’uomo: immagini sfocate di persone che passavano per la strada ma che non si fermavano a soccorrerlo. Una quarantina di minuti dopo, ripresa conoscenza, Mamadou con la testa coperta di sangue ha fermato un taxi per andare in ospedale. Con incredulità racconta che la prima domanda che l’autista gli ha rivolto è stata “Hai i soldi per pagare?”.

 

Secondo Mamadou, il violento attacco non è da collegare al suo attivismo ma solo al razzismo ideologico professato da Alba Dorata. Mamadou non ha segnalato l’accaduto alla polizia, ritenendo che esistesse una forte collusione con gli stessi squadroni di Alba Dorata, ma a distanza di alcuni mesi ha deciso di affidare la sua storia ai mass media, greci e internazionali. I timori di Mamadou era piuttosto fondati se è vero che dopo queste interviste pubbliche è stato arrestato durante un controllo d’identità, portato alla stazione di polizia, e intimidito. Racconta lo stesso Mamadou Ba: “La polizia mi ha umiliato. Mi hanno trattenuto nudo e si sono burlati di me dicendo ‘Guarda un po’ chi si sta intromettendo nelle questioni politiche della Grecia’. Mi hanno poi ripetuto in continuazione ‘Vuoi parlare di nuovo coi mass media?’”. Alla fine è stato rilasciato ma le minacce non si sono arrestate e di certo l’accoltellamento a morte da parte di un militante di Alba Dorata del rapper antifascista Pavlos Fyssas in quei giorni del settembre 2013 non facevano presagire nulla di buono. Mamadou riferisce che, in un nuovo tentativo di imboscata dopo il lavoro (stavolta sapendo fin troppo bene chi fosse), “sono riuscito a scappare, ma non potevo più vivere lì. Ho lasciato il mio lavoro, la mia casa per paura di essere trovato e mi sono rinchiuso in una stanza insieme ad altre 5-6 persone. Non avevo nemmeno voglia di mangiare, non riuscivo a dormire. Mi hanno detto ‘Mamadou devi lasciare la Grecia o ti ammazzano’”. Detto, fatto: Mamadou ha preso il volo per Bruxelles e all’arrivo ha presentato domanda di asilo, accettata senza menzionare la Grecia o darne alcuna motivazione. Tuttavia è evidente che la decisione è sicuramente importante per il governo di Atene, in quanto fa implicitamente dedurre che il Paese non è in grado di proteggere alcuni dei suoi cittadini.

 

A distanza di alcuni mesi dal trasferimento e a poche settimane dall’aver ottenuto i documenti, Mamadou, che vive oggi in un centro di accoglienza aperto nella provincia di Charleroi, racconta la sua nuova vita paragonando il tipo di accoglienza ricevuta nei due Stati dell’UE. “Qui le cose sono diverse. Il migrante che arriva in Belgio trova un sistema che lo accoglie e lo sostiene. Ti ospitano, ti nutrono e ti proteggono. Ti aiutano a integrarti all’interno della comunità. In attesa della decisione in materia di asilo, ti danno l’opportunità di imparare un mestiere, per arrivare pronti a cercare un posto di lavoro una volta che è stata concessa l’autorizzazione. Il razzismo esiste ovunque, ma qui ci sono anche leggi che proteggono.” Tuttavia se lo sguardo torna alla situazione in Grecia, Mamadou non può che vedere che il movimento attivista dei migranti si è fortemente indebolito. Quasi tutti i suoi ex colleghi si sono ritirati perché ormai lo ritengono un “hobby pericoloso”, e ogni giorno la “caccia all’immigrato” sembra peggiorare. Ma Mamadou Ba non si arrende e, anche se ora vive in Belgio, dichiara che continuerà a lottare per cambiare le cose in Grecia, da lontano e nella consapevolezza del forte appoggio popolare (ben il 9%) che Alba Dorata ha riscosso nelle ultime elezioni europee.

 

Elezioni Europee: vincono i Popolari,

che per fare fronte al boom degli euroscettici

tratteranno con i socialisti

 

 

  notiziegeopolitiche.net  di Enrico Oliari - 26 maggio 2014

parlamento eu grande

Le elezioni europee del 2014 hanno dato la vittoria al Partito Popolare europeo ed hanno visto un boom degli euroscettici, soprattutto in Francia e in Ungheria.


Dei 751 seggi il Ppe dovrebbe prenderne 212, mentre l’altra grande forza, il Pse (Partito socialista europeo) dovrebbe attestarsi sui 186; il nuovo presidente della Commissione sarà con tutta probabilità Jean-Claude Juncker, ma lo sconfitto Martin Schulz, candidato dei socialisti, ha già detto che “Siamo aperti al negoziato con il Ppe e siamo pronti a discutere” su un programma in comune fatto di cinque punti. Schulz non vuole mollare, vorrebbe essere lui a rivestire il ruolo di presidente della Commissione: “I gruppi Ue si riuniranno domani per decidere chi sarà la persona che avrà il mandato di cercare una maggioranza qui in Parlamento – ha dichiarato. – Alla luce degli incontri vedremo chi avrà questo mandato. Penso che Juncker cercherà di farlo come cercherò di farlo io”.
Di certo per fare fronte comune agli euroscettici serve una “Grosse Koalition”, ben vista anche dall’uscente José Manuel Barroso, il quale ha affermato che “Restare insieme come europei è indispensabile per l’Europa e dare forma a un ordine globale dove possiamo difendere i nostri valori ed i nostri interessi”.
In Germania la Cdu di Angela Merkel cala, ma resta saldamente il primo partito con oltre il 35% dei consensi, ma sale la Spd (27,3%) e si piazzano bene gli euroscettici di Alternative für Deutschland (7%).


In Francia la destra del Front National guidato da Marine Le Pen, profondamente anti-europeista, ha guadagnato il primo posto con il 25,1% dei voti, seguita dall’Ump di Nicolas Sarkozy con il 20,2% e dai socialisti del presidente in carica, Francois Hollande, con un deludente 14,3%.


Anche in Gran Bretagna è boom degli antieuropeisti: l’Ukip di Nigel Farage è al 29%, i conservatori del premier Cameron sono al 24,2% e i Laburisti al 23,7% dei voti; crollo dei Liberali, che sono al di sotto del 7%.


In Spagna è vittoria del Partito Popolare (26%), in forte calo rispetto ai risultati precedenti, mentre i socialisti del Psoe, che pure sono in calo, si attestano al 23%. Exploit degli indignados, che con il partito Podemos conquistano 5 seggi al suo esordio nell’Europarlamento.


In Ungheria ha stravinto il partito conservatore Fidesz del premier Viktor Orban con il 51,49% dei consensi; preoccupa il risultato degli antisemiti di Jobbik, i quali sono arrivati secondi con il 14,68% dei voti e 3 seggi conquistati.


In Grecia è vittoria per l’estrema sinistra di Tsipras con il partito Syriza, dato al 26,4%, seguito dai conservatori di Nuova Democrazia al 23%. I neonazisti di Alba Dorata si attestano attorno 9,3%, mentre i socialisti del Pasok scivolano sul fondo con il 7%.


Anche in Danimarca vincono gli euroscettici, dove l’estrema destra del Danish People Party sarebbe primo partito con il 23,1%, secondi i socialisti con il 20,5%, terzi i liberali con il 17,2%.


In Finlandia i primi sono i Popolari del KK con il 22,7% dei consensi, mentre gli euroscettici, come in Olanda, hanno fatto un flop attestandosi al quarto posto con il 12,8% dei voti.


In Italia stravince il Pd di Matteo Renzi con un risultato storico: il 41,8%; secondo, seppur ridimensionato (21,1%), è il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, mentre la debacle è stata per Forza Italia di Silvio Berlusconi, che è scesa al 16,8%.


Bene è andata la Lega di Matteo Salvini, con un insperato 6,1%, male per il partito di governo Ncd di Angelino Alfano (4,3); L’Altra Europa con Tsipras, formazione di sinistra (Niki Vendola) è data al 4%, appena sopra la soglia necessaria per entrare in Parlamento, mentre Fratelli d’Italia-An, la cui leader era convinta fino all’ultimo di superare la linea rossa per andare a Bruxelles, è fuori con il 3,6%. Malissimo Scelta europea, con lo 0.7%.

 

L'EUROPA CHE SVOLTA A DESTRA

 

I vincitori alle elezioni europee

 

Internazionale - 26 maggio 2014

 

Austria Partito popolare (centrodestra)
Bulgaria Gerb (destra)
Cipro Raduno democratico (centrodestra)
Croazia Unione democratica croata (centrodestra)
Danimarca Partito del popolo danese (estrema destra)
Finlandia Partito della coalizione nazionale (destra)
Francia Front national (destra)
Germania Cristianodemocratici (centrodestra)
Grecia Syriza (sinistra)
Irlanda Sinn Féin (sinistra)
Italia Partito democratico (centrosinistra)
Lussemburgo Partito cristianodemocratico (centrodestra)
Malta Partito laburista (centrosinistra)
Paesi Bassi Cristianodemocratici (centrodestra)
Polonia Piattaforma civica (centrodestra)
Portogallo Partito socialista (sinistra)
Romania Coalizione di centrosinistra
Regno Unito Ukip (centrodestra)
Spagna Partito popolare (centrodestra)
Slovenia Sds (centrodestra)
Svezia Partito socialdemocratico (sinistra)
Ungheria Fidész (destra)

 

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Il nuovo parlamento europeo

Ecco la ripartizione, ancora provvisoria, dei seggi:

 

 

Gruppo seggi
Partito popolare europeo 212
Socialisti & democratici 186
Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa 70
Verdi europei – Alleanza libera europea 55
Conservatori e riformisti europei 44
Sinistra unitaria europea – Sinistra verde nordica 43
Parlamentari non iscritti a nessun gruppo 38
Europa della libertà e della democrazia 36
Altri 67

 

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Gli ultimi dati del Viminale

Con 60.271 sezioni scrutinate su 61.592, ecco i dati del Viminale:

 

 

  %
Partito democratico 40,99
Movimento 5 stelle 21,06
Forza Italia 16,70
Lega nord-Die Freiheitlichen-Basta euro 6,26
Nuovo centrodestra-Udc 4,35
Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale 3,63
Verdi europei-Green Italia 0,89
Scelta europea 0,70
Italia dei valori 0,64
Svp 0,51
Io cambio- Maie 0,17

 

L’Europa non riesce a proteggere

le sue comunità rom

 

   internazionale.it - 8 aprile 2014


Dopo lo sgombero di un campo rom a Nizza, nel sud della Francia, il 27 novembre 2013. (Eric Gaillard, Reuters/Contrasto)

 

In Europa negli ultimi anni la frequenza delle violenze contro i rom è decisamente aumentata, e l’Unione europea – così come i singoli stati che la compongono – non è riuscita ad affrontare il fenomeno e a contrastarlo in modo adeguato. È quello che si legge in un rapporto diffuso da Amnesty international l’8 aprile, giornata mondiale dei rom e dei sinti.

 

“Troppo spesso i leader europei hanno assecondato quei pregiudizi che favoriscono le violenze, alimentando l’idea che i rom siano antisociali e non graditi”, ha detto John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale. E mentre in genere si condannano i casi più eclatanti, “in molte occasioni le istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della legge hanno fallito nel prevenire gli abusi e nel punire chi li ha commessi. Ancora oggi si tende più a negare che a denunciare la persistenza di atteggiamenti razzisti all’interno delle forze di polizia”, continua Dalhuisen.

 

La comunità rom. In Europa vivono tra i dieci e i dodici milioni di rom. Molti di loro non godono di diritti fondamentali, sono poco o per nulla rappresentati politicamente e sono vittime di discriminazioni, segregazioni e sgomberi.

 

Il rapporto di Amnesty si concentra sui casi emblematici di violenze o molestie compiute dallo stato o da comuni cittadini in tre paesi: Francia, Repubblica Ceca e Grecia.

  • Francia. Nel paese si contano 20mila rom, distribuiti in circa 400 campi non attrezzati (questa l’analisi di Le Monde, pubblicata nel maggio del 2013). Vivono sotto la minaccia continua di espulsioni, durante le quali la polizia usa metodi giudicati eccessivi, come è successo nel 2013 a Parigi, Marsiglia, Lille, Saint-Denis o Villeneuve d’Ascq. E i rappresentanti del governo non hanno alleviato la situazione, esprimendo più volte punti di vista discriminatori. Il rapporto ricorda, per esempio, le parole che Manuel Valls, attuale primo ministro francese, ha pronunciato nel settembre 2013, quando era ministro dell’interno: “Questo popolo ha modi di vita estremamente diversi dai nostri”, aggiungendo che la loro vocazione è “tornare in Romania o in Bulgaria”.
  • Repubblica Ceca. Qui gruppi di estrema destra hanno organizzato una serie di manifestazioni contro le comunità rom in decine e decine di città”, denuncia l’organizzazione, “usando insulti razzisti e intimidazioni”. Nel giugno del 2013 a České Budějovice, città che conta 100mila abitanti, un migliaio di persone ha attaccato decine di famiglie della comunità rom locale, ed episodi simili si sono verificati anche altrove.
  • Grecia. Anche in Grecia i rom sono bersaglio di gruppi di estrema destra, e la polizia non sembra fare nulla per tutelarli. Anzi, in molti casi oltre a non perseguire i veri colpevoli, sono gli agenti stessi a “compiere abusi ispirati dall’odio”, si legge nel testo. In tutto, durante i primi nove mesi del 2013 la polizia greca ha svolto 1131 operazioni nei campi rom, perquisendo oltre 52mila persone e arrestandone circa 1.300. In Grecia vivono tra i 250 e i 350mila rom.

Pochi giorni fa, il 4 aprile, la commissaria europea per la giustizia Viviane Redding aveva espresso l’opinione che la vita quotidiana dei rom in Europa “stava cominciando a migliorare”.

 

La rivolta per i beni comuni

 

La rivolta per i beni comuni

Proteste a Sarajevo (Foto Stefano Giantin)

 

Da Maribor a Taksim, passando per Sarajevo, un'ondata di proteste scuote i paesi della periferia mediterranea. Al centro della rivolta ci sono i beni comuni e la necessità di proteggerli di fronte al fallimento del neoliberismo e dei processi di democratizzazione

 

(Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul Council for European Studies della Columbia University)

 

Da Maribor a Istanbul, proteste e movimenti sociali hanno scosso il sistema politico dei paesi del sud-est Europa negli ultimi anni. Questi movimenti eterogenei sono parte di una grande ondata di movimenti sociali che hanno attraversato la regione mediterranea. Infatti, per quanto le proteste abbiano avuto luogo a livello globale, da “Occupy Wall Street” a Maidan Square in Ucraina, il cuore della protesta è stata l'area mediterranea, basti bensare alla "Primavera Araba" o allo scontento manifestato da molti cittadini dei paesi democratici della sponda settentrionale del Mediterraneo. Osservando questi movimenti nel più ampio contesto regionale, è possibile identificare dei tratti in comune che vanno oltre un particolare tipo di regime politico. Così come è osservabile che le diverse proteste utilizzano schemi simili e sono in contatto tra loro.

Le proteste in Europa sud-orientale sono la manifestazione di un fenomeno più ampio che interessa paesi che condividono (formalmente) sistemi politici democratici e che risultano particolarmente colpiti dalla crisi economica e dalle sue conseguenze. Condividono anche il fatto di svolgersi alla periferia europea, dove la sensazione di impotenza è aggravata da élite irresponsabili e da una (percepita) assenza di capacità di intervento sui processi socio-economici.

Il processo di europeizzazione (l'adozione di norme e regole dell'UE) e di ricezione delle politiche europee ha condotto a numerose riforme negli ultimi decenni. Allo stesso tempo, questo processo è stato presentato dalle élite locali come senza alternative, ed è quindi servito come uno strumento per avanzare il perseguimento di interessi particolari. E' per questo motivo che i movimenti sociali hanno cercato di rivendicare capacità di azione e di scelta.

 

La necessità dei beni comuni

Sarajevo, febbraio 2014 (Foto Stefano Giantin)

Sarajevo, febbraio 2014 (Foto Stefano Giantin)

 

I movimenti sociali hanno toccato una serie di questioni e preoccupazioni, dall'austerità alla privatizzazione dello spazio pubblico, dalla debolezza dei sistemi di welfare alla privatizzazione dei servizi pubblici, ma anche povertà, corruzione, inefficienza burocratica, questione ambientale e tendenze autoritarie.

Praticamente ogni paese della regione ha avuto proteste di massa. Se i movimenti anti-austerità in Grecia e l'opposizione popolare alla trasformazione di Gezy Park ad Istanbul (ed i relativi tentativi  del governo di contenere violentemente le manifestazioni) sono stati i più eclatanti, nessun paese è stato risparmiato dall'emergere dei nuovi movimenti sociali.

Molte proteste si sono concentrate su questioni specifiche e concrete, come gli spazi pubblici, le multe ingiustificate o i progetti di estrazione mineraria, ma le manifestazioni hanno spesso veicolato un più ampio scontento politico e sociale, mobilitando i cittadini per chiedere fondamentali trasformazioni socio-politiche.

Le proteste hanno contribuito alla caduta del governo in Slovenia, alle dimissioni del primo ministro bulgaro Boyko Borisov e all'abbandono di politiche e pratiche impopolari come la legge sulla sanità in Romania. Forse in modo significativo stanno portando alla creazione di attori politici e sociali dinamici e nuovi, e a un riallineamento nello spazio politico.

 

La tragedia dei beni comuni

Nel 1968 Garret Hardin, nel suo influente saggio "The Tragedy of the Commons", sosteneva che i beni comuni sono facilmente dilapidati da individui che cercano di massimizzare il proprio interesse di breve termine a detrimento del bene comune. La risposta moderna a questo problema di azione collettiva è lo stato, entità che può regolamentare i beni comuni e prevenirne l'esaurimento.

Le proteste che hanno scosso i governi in Europa sud-orientale portano alla nostra attenzione una nuova tragedia dei beni comuni: cosa succede se lo stato non ha la volontà o la capacità di proteggere i beni comuni? Il dilemma non è nuovo, e l'abuso dei beni comuni a vantaggio di pochi è stato a lungo una caratteristica dei sistemi politici nel mondo intero. Tuttavia, questa dinamica non è stata così centrale per i movimenti sociali fino ad ora. Le ondate di protesta degli anni '70 e '80, culminate nel 1989, erano rivolte a contestare i regimi autoritari e totalitari, mentre le recenti proteste prendono di mira sia democrazie che regimi autoritari. Entrambi condividono élite percepite come indifferenti ai beni comuni e favorevoli agli interessi di gruppi ristretti.

Le recenti proteste sono infatti esplose per difendere i beni comuni dagli interessi privati, spesso commerciali. Si pensi alla trasformazione di Gezi Park ad Istanbul in uno shopping center e a ciò che ha innescato,  oppure al caso di Picin Park, che ha scatenato proteste simili a quelle turche nella seconda città più grande della Bosnia, Banja Luka, o ancora al caso di un progetto simile a Tirana. Tutto questo mentre nella vicina Skopje, capitale della Macedonia, gli studenti di architettura ed i cittadini protestano contro la trasformazione del centro della città voluta dal governo e dal grande progetto "Skopje 2014". A Maribor, in Slovenia, non c'era un parco al centro dell'attenzione quando nel novembre 2012 sono iniziate le proteste, dopo che il sindaco Franc Kangler ha firmato una partnership con un'azienda privata per un sistema di gestione del traffico. Mentre l'azienda intascava gran parte dei profitti, però, i cittadini ricevevano multe ingiustificate. In Romania, il bene comune è il territorio. Qui il progetto di estrazione mineraria a Roșia Montană minaccia di deturpare il paesaggio con miniere d'oro a cielo aperto.

 

La sconfitta dei beni comuni

L'ingresso di una delle fabbriche privatizzate all'origine delle proteste, Tuzla (Foto Stefano Giantin)

L'ingresso di una delle fabbriche privatizzate all'origine delle proteste, Tuzla (Foto Stefano Giantin)

 

Un'altra dimensione della “sconfitta” è stata l'incapacità delle élite politiche di agire a tutela dei beni comuni. Nella capitale bosniaca, Sarajevo, i manifestanti hanno bloccato il Parlamento nel giugno del 2013 perché non riusciva ad approvare una legge per uscire dall'impasse del numero identificativo, che impedisce ai nuovi nati di ottenere documenti di identità e quindi passaporti per l'espatrio. Questione che può essere di importanza vitale per i bambini che hanno bisogno di cure all'estero.

In Bulgaria, due ondate di proteste hanno segnato la politica del paese nel 2013. Le prime, da gennaio a marzo 2013, erano rivolte a contestare i prezzi troppo alti dell'elettricità, e più in generale l'élite politica incapace di rappresentare gli interessi dei cittadini. Dopo le elezioni anticipate il nuovo governo ha nominato un controverso magnate dei media alla guida della sicurezza del paese, generando una seconda ondata di proteste. Si è trattato anche in questo caso di proteste che hanno preso di mire le élite politiche e la loro incapacità di pensare al bene comune contro gli interessi particolari. Anche la Grecia ha assistito ad ondate multiple di proteste, soprattutto dal 2010 al 2012, contro le misure di austerità del governo.

Queste proteste condividono molte caratteristiche con altri movimenti in tutto il mondo, in particolare nella regione mediterranea, dalla Spagna all'Egitto. Mentre nel mondo arabo ad essere presi di mira sono stati i governi autoritari, nei paesi a nord del Mediterraneo i manifestanti hanno espresso la loro frustrazione per i governi democraticamente eletti. Tutti condividono un sentimento di ingiustizia nei confronti del modo in cui le autorità amministrano la cosa pubblica, lo spazio pubblico, e lo stato.

L'aspetto sicuramente più caratteristico delle proteste che stanno avendo luogo nei paesi dell'Europa sud-orientale è che esse interessano democrazie che hanno vissuto profonde trasformazioni a partire dagli anni Novanta. Le rivendicazioni espresse nelle proteste evidenziano l'inadeguatezza delle transizioni democratiche. L'introduzione della democrazia rappresentativa e dell'economia di mercato non ha portato all'istituzione di efficienti sistemi di governance basati sui beni comuni. Se in alcuni casi le proteste esprimono differenze ideologiche sul ruolo dello stato e la misura in cui i beni pubblici dovrebbero essere privatizzati, molto spesso lo scontento dei cittadini è meno ideologico e si concentra sull'evidente "accaparramento dello stato" da parte di élite politiche predatrici.

Network informali di interessi privati hanno dominato i partiti e, per estensione lo stato, nei paesi post-comunisti della regione. Il ricorso al discorso dell'europeizzazione e la rappresentazione di interessi formulati in termini etno-nazionali sono stati usati per mascherare interessi particolari e portare ad un indebolimento dello stato. Questa dinamica è stata rafforzata dalle riforme neoliberiste e da una lettura social-democratica dello stato da parte della maggioranza dei cittadini nella regione.

 A partire dal 2008 la crisi economica globale è stata portatrice di proteste contro le difficoltà socio-economiche e l'austerità. Di conseguenza, il successo delle proteste non può essere misurato dalle dimissioni di un governo o dal semplice accoglimento di una richiesta particolare perché, se questi fossero gli standard di riferimento, molte manifestazioni avrebbero avuto successo. Ad essere sfidato è il più ampio paradigma della transizione democratica ed economica, ma manca un'alternativa chiara.

L'UE ed il processo di integrazione non hanno dato una risposta alla questione di come controllare le élite politiche e fare in modo che agiscano nell'interesse del bene comune. Questo in parte è vero perché l'allargamento dell'Unione ha fallito nel trasformare sufficientemente il sistema politico dei paesi dell'area, e manca di meccanismi di monitoraggio della governance una volta che un paese è membro dell'Unione.

 

Quale Europa?

Manifestanti a Sarajevo, febbraio 2014 (Foto Stefano Giantin)

Manifestanti a Sarajevo, febbraio 2014 (Foto Stefano Giantin)

 

Il discorso dell'europeizzazione e dell'integrazione europea è diventato così onnipresente da essere condiviso dal governo turco di Recep Tayyip Erdoğan e dai manifestanti di piazza Taksim, dalle élite etnonazionaliste in Bosnia e da chi si oppone ad esse, dai governi così come dagli oppositori di quei governi. Un consenso così ampio non fa altro che indebolire la capacità trasformativa dell'Unione europea.

I gruppi di sinistra, espressi in alcuni segmenti della protesta e dal più importante dei nuovi partiti di sinistra nell'area (Syriza in Grecia), cercano di mettere in discussione il modello di Unione presentando modelli economici e politici alternativi. Ma questo tentativo è ancora assai vago e molta parte del dibattito rimane incentrato più su quello a cui questi gruppi si oppongono che su quali possono essere le alternative. Essi ignorano anche il fatto che l'economia di mercato e la democrazia rappresentativa non sono un problema in sé, come è dimostrato in Europa ed in altre parti del mondo.

Il cuore del problema sono le istituzioni deboli, facile preda di partiti mossi da interessi ristretti. Ma è difficile trasformare il panorama istituzionale e creare alternative politiche che possano rompere questi schemi. Per questo le proteste si sono calmate nell'intera regione, anche se molte rivendicazioni resistono. E la nuova tragedia dei beni comuni resta e riguarda il modo in cui lo stato definisce e protegge i beni comuni.

 

Oltre il paradigma del post-Comunismo

La ricerca su questi nuovi movimenti sociali riflette molti dei dilemmi che interessano i movimenti stessi. Da un lato i ricercatori che adottano una prospettiva neo-marxista sono scettici nei confronti delle politiche neo-liberiste e delle conseguenze della crisi economica globale. Dall'altro lato gli studiosi dei processi di democratizzazione si concentrano più sulle inadeguatezze della democrazia e dello stato di diritto nei paesi attraversati dai movimenti di massa. Queste diverse letture portano a visioni divergenti sul fatto che l'Unione europea e il processo di integrazione sia causa delle ingiustizie sociali causate dalle riforme neoliberiste o strumento per rimediare alle inadeguatezze delle democrazie non consolidate.

Piuttosto che vedere questi due approcci come alternative non conciliabili, è importante evidenziarne le caratteristiche in comune. La critica alle politiche neoliberiste aiuta a capire come le trasformazioni economiche e politiche non siano riuscite a rendere gli stati capaci di rispondere ai bisogni dei cittadini e a proteggerli da élite predatrici. L'enfasi sulla democratizzazione e sullo stato di diritto evidenzia perché alcune economie liberal-democratiche sono state capaci di mitigare gli effetti della crisi economica e restare attente ai bisogni delle persone. Dunque un'agenda di ricerca feconda deve riflettere una pluralità di approcci, piuttosto che ridursi ad abbracciarne uno solo.

Il fatto che le proteste abbiano attraversato sia i paesi post-comunisti che le democrazie che non hanno vissuto l'esperienza del comunismo e della transizione, suggerisce la necessità di riconsiderare la categoria del post-comunismo come paradigma analitico per studiare l'Europa sud-orientale e di guardare, piuttosto, alla regione nel suo complesso, includendo anche la Grecia e la Turchia.