SIRIA

Kobane liberata dall'Isis.

L'eco dall'Italia:

"Vittoria di tutto

il popolo curdo"

 

Soran Ahmad, segretario generale dell’Istituto internazionale di Cultura curda e portavoce italiano dell’UpK commenta la vittoria sull’Isis: “L’intervento statunitense è stato importante, ma è all’Europa che guardiamo per una soluzione politica e diplomatica”

 

redattoresociale.it 27 gennaio 2015

 

TORINO - Dal Dipartimento della difesa americano già mordono il freno, sottolineando che la guerra non può ancora dirsi del tutto vinta. Ma quella di ieri resterà una giornata storica per il popolo curdo, senza distinzioni di provenienza geografica. Partita dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, la notizia ha continuato a prender corpo per tutta la giornata, finché la conferma è arrivata anche dal fronte: “Kobane è libera”, annunciava in serata Sherwan Minbij Darweesh, responsabile media dell’Ypg, il corpo di combattimento che, assieme ai Peshmerga, ha ricacciato le formazioni dell’Isis fuori dai confini della città.

“È una vittoria di tutto il popolo curdo” gli fa eco oggi Soran Ahmad, segretario dell’istituto internazionale di cultura curda e portavoce in Italia dell’UpK (Unione patriottica del Kurdistan), partito che detiene il governo del Kurdistan iracheno, la prima delle quattro regioni curde a fronteggiare l’avanzata dell’Isis, da cui sono partite le unità Peshmerga rivelatesi determinanti per la riconquista di Kobane.  “Ancora una volta - continua - abbiamo ribadito non solo il nostro diritto, ma la nostra capacità di autodeterminazione. Ora, però, si apre una nuova fase, in cui avremo molto più bisogno del supporto della comunità internazionale: più della metà di Kobane è rasa al suolo, ci sono ancora centinaia di cadaveri per le strade e la questione dei profughi ora si farà più pressante ”.

 

Da mesi, Ahmad  accompagna in giro per l’Europa le più alte cariche del suo partito, per sensibilizzare l’opinione pubblica del vecchio continente su cosa stia davvero accadendo in Rojava (cantone siriano) e nel Kurdistan iracheno: a novembre era a Roma, alla Camera dei deputati, mentre la scorsa settimana ha affiancato il parlamentare curdo-iracheno Sadi Pira nel suo incontro col pubblico torinese.  “Noi - spiega - continuiamo e continueremo a chiedere che uno stato federale curdo venga riconosciuto in ognuno dei paesi interessati, Turchia inclusa.  La vittoria a Kobane apre un nuovo scenario in questo senso, ed è questo il motivo per cui abbiamo scelto di rivolgerci al pubblico europeo. Crediamo che l’Europa, sul piano diplomatico, possa giocare un ruolo molto importante; e per questo vogliamo che i vostri governi comprendano che stringere accordi col Kurdistan rappresenta oggi un guadagno più che un costo, vista la ricchezza della nostra regione in termini di petrolio e risorse naturali”.

 

“Noi - ricorda Ahmad - siamo consapevoli che è stato l’intervento americano a fare da traino per una presa di posizione più decisa da parte dell’Unione europea: senza il loro intervento, il genocidio a Kobani e Shengal sarebbe andato avanti molto più a lungo. Ma se si parla di una soluzione politica e diplomatica, è all’Europa che guardiamo, soprattutto per quanto riguarda i nostri rapporti con la Turchia, che oggi aspira a entrare in Ue. È soprattutto a voi che Erdogan dovrebbe rendere conto della linea, quantomeno ambigua, assunta dal suo governo di fronte all’avanzata dell’Isis”.

Quel che è certo, è che una posizione il vecchio continente dovrà prenderla, se non altro perché è dalla città portuale di Mersin, in Turchia, che si imbarcano le centinaia di profughi curdi e siriani che in queste ore puntano alle coste europee. “Per quanto riguarda i curdi - conclude Ahmad - la tendenza finora è stata quella di restare vicini alle zone di provenienza: ciò che succederà ora dipenderà da quanto queste persone verranno abbandonate a se stesse. Il Kurdistan non ha risorse economiche sufficienti a fronteggiare un emergenza così vasta e improvvisa: in queste ore, nei dintorni di Suruc, la Turchia ha aperto un campo che ospiterà oltre 35 mila profughi. Cosa faranno e dove andranno queste persone dipenderà anche dalla linea politica e umanitaria che i vostri governi vorranno adottare”. (ams)

 

 Isis, arrivati a Kobane gli uomini

dell'Esercito libero siriano

 

Sono passati dalla Turchia

 

 

   Ansa  -  29 ottobre 2014

 

SIRIA.

Giunti a Kobane i primi 150 peshmerga,

transitati dalla Turchia

 

 

Notizie Geopolitiche29 ottobre 2014

peshmerga

Sono giunti nella cittadina curdo-siriana di Kobane, assediata da oltre un mese dai miliziani dell’Isis, i primi 150 peshmerga curdi provenienti dalla Regione autonoma del Kurdistan iracheno e transitati attraverso la Turchia con il placet di Ankara. A rinforzare le fila dei curdi che resistono dovrebbero arrivare a Kobane anche siriani dell’opposizione, per quanto non sia chiaro da quale parte possano passare, dal momento che la città è circondata su tre lati ed a nord, a poche centinaia di metri, vi è la Turchia.


Compito dei peshmerga che, a differenza dei curdi di Kobane sono addestrati ed equipaggiati al punto di aver fermato l’Isis nel nord dell’Iraq, è quello di colpire con l’artiglieria le posizioni dei jihadisti.


Intanto continuano i raid della coalizione, che però fino a questo momento non sono stati in grado di mettere in fuga i combattenti dell’Isis. Anche perché, come ha riportato la Cnn riportando le dichiarazioni di prigionieri catturati dai curdi, ai combattenti jihadisti vengono somministrate droghe allucinogene per resistere alla stanchezza e al dolore, il tutto per 2 – 3 mila dollari all’anno.


Lo statunitense Site, il Site, sito di monitoraggio dell’estremismo islamico sul web, ha resa nota oggi la minaccia dell’Isis di voler attaccare gli insegnanti stranieri nei paesi islamici, ovvero “contro scuole ed insegnanti americani e occidentali in Medio Oriente, menzionando in particolare Gedda in Arabia Saudita e il quartiere di Maadi al Cairo come possibili obiettivi”.

 

Kobane, curdi strappano la bandiera Isis.

A Mosul 46 esecuzioni

 

Kobane, curdi strappano la bandiera Isis. A Mosul 46 esecuzioni

In Iraq i jihadisti conquistano un' area a ovest della capitale irachena

 

   Ansa  -  14 ottobre 2014

 

La bandiera nera dell'Isis che miliziani jihadisti avevano issato alcuni giorni fa sulla collina di Tel Shahir, alle porte di Kobane, nel nord della Siria, è stata rimossa. Lo testimoniano foto circolate oggi su Twitter, mentre fonti locali confermano che i curdi del Ypg sono riusciti a respingere le forze Isis di circa 4 km verso est. Esecuzioni sommarie dell'Isis. L'ong Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) sottolinea tuttavia che i combattimenti continuano in alcune aree della citta'

 

Quarantasei persone sono state vittima di esecuzioni perpetrate nelle ultime 48 ore dai jihadisti dello Stato islamico (Isis) a Mosul, in Iraq. Lo riferiscono fonti della seconda città irachena conquistata dall'Isis. Citate dal quotidiano panarabo al Arabi al Jadid, edito a Beirut con fondi del Qatar, le fonti affermano che 12 vittime erano siriani accusati di "spionaggio" in favore della Coalizione anti-Isis.

 

Appello Hollande a tutti i Paesi, 'aiutiamo' Kobane
Il presidente francese Francois Hollande ha lanciato un appello oggi "a tutti i Paesi coinvolti", - compresi quelli che non appartengono alla coalizione internazionale in lotta lotta contro l'Isis - affinché aiutino la città curda siriana di Kobane. Bisogna offrire a Kobane "città martire, città simbolo, ciò che si attende da noi, ovvero semplicemente i mezzi per difendersi contro il terrorismo", ha detto il capo dello Stato, a margine di una visita all'Istituto del Mondo Arabo di Parigi, in occasione dell'inaugurazione di una mostra sul Marocco contemporaneo. "La Turchia deve assolutamente aprire la sua frontiera" per permettere di aiutare i cittadini curdi che stanno difendendo la città di Kobane contro l'assalto dell'Isis. Lo ha detto oggi il presidente francese Francois Hollande. "E' in atto un martirio e la città di Kobane rischia da un momento all'altro di cadere nelle mani dei terroristi. La Turchia - ha aggiunto - deve assolutamente aprire la sua frontiera".

 

Ong, contrattacco curdo a Kobane con raid Coalizione
I miliziani curdi che difendono la citta' di Kobane, nel nord della Siria, hanno lanciato oggi un contrattacco contro le forze dell'Isis, riconquistando alcune posizioni grazie al sostegno aereo della Coalizione internazionale guidata dagli Usa che ha effettuato cinque raid aerei. Lo riferisce l'ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus). In particolare, le forze curde hanno ripreso il controllo di due postazioni nel sud della citta' uccidendo 13 jihadisti e sono avanzate anche nel settore est.

 

Venerdì manifestazione a Roma, "Kobane non è sola"
"Kobane non è sola". Questo lo slogan che accompagnerà venerdì prossimo la manifestazione a Roma indetta dall'Uiki (l'ufficio di informazione del Kurdistan in Italia) e alla quale prenderanno parte le associazioni curde, così come avvenuto durante la fiaccolata di mercoledì scorsa al Colosseo. Il presidio, in programma dalle 16 alle 19 a Largo Argentina, chiede il disarmo dell'Isis e di "isolare gli Stati che lo sostengono (Arabia Saudita, Qatar, Turchia)". I manifestanti chiedono l'apertura di un corridoio umanitario al confine turco per fornire assistenza e rifornimenti alle forze di difesa curde.

Siria. Il sacrificio dei curdi accende una speranza

 

 

 oltremedianews di Daniele Cardetta  -   6 ottobre 2014

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I combattenti curdi, tra cui molte donne, continuano eroicamente a difendere Kobane strada per strada. A dispetto dei proclami Ankara non sta facendo assolutamente niente per arrestare l’avanzata jihadista su Kobane, e i raid della Coalizione anti-Isis non sembrano servire a indebolire i miliziani. 

 

La propaganda curda dipinge la resistenza di Kobane all’avanzata dei jihadisti un pò come una Stalingrado del XXI secolo. La guerra è fatta anche di propaganda e i curdi sono rimasti gli ultimi ad opporsi sul terreno all’avanzata dell’Isis che, se dovessero conquistare Kobane, si assicurerebbero il controllo di gran parte del confine siro-turco. Del resto i bombardamenti anti-Isis della coalizione non possono servire in alcun modo ad arrestare migliaia di jihadisti fanatici che avanzano in ordine sparso nel deserto. Kobane comunque, proprio come Stalingrado, è già diventata il simbolo della resistenza curda all’Isis e fin quando resisterà sarà un simbolo di resistenza contro lo Stato Islamico. 

Qui in una disperata battaglia casa per casa giunge voce che una comandante curda si sia fatta saltare contro le postazioni dell’Isis, si tratta della prima donna kamikaze utilizzata contro lo Stato Islamico, che invece fa un uso massiccio di questa pratica in battaglia. 
Qualche centinaio di combattenti curdi della Ypg (Unità di Protezione del Popolo) si sta opponendo all’avanzata di migliaia di guerriglieri e Ankara, nonostante a parole abbia detto di volersi impegnare a non far cadere Kobane, nella realtà non sta facendo assolutamente niente per impedirlo. In molti temono che la Turchia non sia così triste del fatto che lo Stato Islamico stia combattendo contro gli odiati curdi, e alcuni suggeriscono che stia temporeggiando apposta. 

Intanto circa 100.000 persone sarebbero rimaste a Kobane mentre altre decine e decine di migliaia hanno scelto al contrario di fuggire verso la Turchia temendo i massacri dello Stato Islamico in caso di sconfitta militare dei curdi. Proprio i curdi di Turchia hanno cercato in tutti i modi di superare il confine per recarsi a Kobane a difendere la città contro lo Stato Islamico ma le autorità turche starebbero facendo problemi e avrebbero utilizzato anche i lacrimogeni per disperdere la folla.
                                                                                                                                

Procedono i raid in Siria e Iraq contro l’Isil:

al-Muallem, ‘nessun coordinamento

con l’alleanza internazionale’

 

notiziegeopolitiche.net di Guido Keller - 28 settembre 2014

isil al-muallem grande

 

Procedono i raid della coalizione internazionale contro l’Isil in Iraq e in Siria: diverse decine di miliziani sono rimasti uccisi a sud-est di Mosul; tre raffinerie petrolifere controllate dallo Stato Islamico sono invece state distrutte a Tal Abyad, in Siria, nei pressi del confine turco.
Interrotto il flusso di denaro dalle monarchie del Golfo, in particolare dal Qatar, l’Isil alimenta le proprie attività col contrabbando di petrolio: analisti ritengono che lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi porta nelle casse dell’Isil almeno 3 milioni di dollari al giorno.
Sempre per far venir meno la linfa economica all’Isil, le forze internazionali hanno attaccato un impianto per l’estrazione del gas situato nell’Est della Siria, nella provincia di Deir Ezzor, al confine iracheno. L’impianto Coneco, che si trova “sotto il controllo dello Stato islamico” è il più grande della Siria: ne ha dato notizia il direttore dell’Osservatorio siriano per i Diritti umani  Rami Abdel Rahman.
Rispondendo ad un’intervista per la tv panaraba libanese al- Mayadeen, il ministro degli Esteri siriano Walid al-Muallem ha dichiarato che non è in corso “alcun coordinamento con l’alleanza internazionale guidata dagli Usa che sta conducendo i raid aerei nel nord” e che “Abbiamo saputo tramite il delegato permanente degli Stati Uniti presso l’Onu e dal ministero degli Esteri iracheno dell’intenzione degli Usa di costituire un’alleanza per condurre dei raid contro le zone controllate dallo Stato Islamico e dal Fronte al-Nusra. Noi abbiamo risposto di sostenere ogni sforzo contro il terrorismo nell’ambito della risoluzione Onu 2170, ma non c’è alcun coordinamento delle operazioni”.
Dall’altra parte dell’Atlantico il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, ha affermato in occasione del programma “60 minutes”, in onda sul network televisivo Cbs, che gli Stati Uniti hanno “sottostimato” i progressi dell’Isis in Siria e “sovrastimato” la capacità dell’Iraq di combattere gli estremisti.
Per quanto appare evidente che l’Isis sia stato creato ad hoc da Occidente e monarchie del Golfo per combattere al-Assad e che sia poi loro sfuggito di mano, Obama la mette sulla questione religiosa, ritenendo che è necessario allentare le tensioni fra sunniti e sciiti e che “C’è bisogno di una soluzione politica perché la battaglia fra le due sette è la causa maggiore di conflitto nel mondo”.
Infine voci danno ucciso in un raid Muhsin al-Fadhli, uno dei leader del gruppo jihadista Khorassan; nei giorni scorsi si era parlato anche della morte di Abu Yusuf al-Turki, altro leader del gruppo estremista: entrambi sarebbero stati uccisi dai raid della Coalizione.

Nella foto, dall’alto a sinistra: camionette dell’Isil; il ministro degli Esteri siriano Walid al-Muallem; il leader del Khorassan Muhsin al-Fadhli; caccia statunitensi F-22

 

SIRIA: LA GUERRA DIMENTICATA

 

Ansa - 22 luglio 2014

 
 
 

E' di circa 200 uccisi, tra cui oltre 40 civili, il bilancio non verificabile in maniera indipendente delle violenze verificatesi nelle ultime 24 ore nel Paese. Lo riferisce oggi l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), basato in Gran Bretagna ma che dal 2007 si avvale di una rete di attivisti e ricercatori sul terreno.

 BRUXELLES - I ministri degli esteri europei "alla luce della gravità della situazione in Siria" hanno deciso di rafforzare ulteriormente le sanzioni contro il regime di Damasco. Il Consiglio ha inserito altre 3 persone e 9 società nella lista dei soggetti colpiti da divieto di viaggio e congelamento dei beni "per il loro coinvolgimento nella repressione violenta della popolazione civile e del loro sostegno al regime". Salgono così a 192 le persone e a 62 le società colpite dalle misure europee.

Il campo profughi di siriani di Idrib. Testimonianza

 

notiziegeopolitiche.net  di Maryam Hanifi - 14 luglio 2014

idrib campo profughi fuori 2

Dall’inizio del conflitto siriano un numero enorme di profughi ha cercato rifugio nei paesi vicini. I rifugiati arrivati nel Kurdistan iracheno sono stati sistemati nei campi ci Idrib e Barikeh. Idrib si trova nel sud-est della provincia di Sulaimaniya, situata nella parte settentrionale dell’Iraq, dove le Nazioni Unite (Unhcr) hanno sistemato un accampamento di tende nei pressi della città, nelle campagne agricole, dove ci sono pochi edifici deputati all’amministrazione dei campo coltivabili.


Le tende sono dislocate senza una precisa organizzazione e il campo ne conta 400 e può accogliere 5mila profughi curdi siriani.


Come spesso accade per questo genere di strutture spesso manca l’acqua corrente, l’energia elettrica non è fornita in modo continuo, vi è carenza di acqua potabile e vi è il pericolo della presenza di rettili velenosi; la situazione è resa ulteriormente dura dal calore estenuante d’estate e dal freddo rigido d’inverno.
I ragazzi, con i loro grandi desideri di cambiare il mondo, studiano nonostante le attrezzature minime, senza accesso ai sistemi comunicativi q quindi a internet: la maggior parte delle famiglie vorrebbe inviare figli a studiare a Idrib, ma questo è difficile e costoso. Gli uomini e spesso i giovani si recano a Soleimanieh per guadagnarsi da vivere facendo duri lavori.


La maggior parte dei rifugiati di questo campo ha perso uno o più dei familiari nella guerra civile siriana, negli attacchi dei gruppi estremisti legati ad al-Qaeda di al-Nusra e dell’Isil, o dell’esercito di Bashar al-Assad. Tutti hanno il desiderio di tornare un giorno nel loro paese e di vedere i propri figli crescere in una società libera.

idrib campo profughi fuori 1

 

Il Califfato Islamico

e la nuova Guerra del Golfo

 

 

 oltremedianews.com  di Daniele Cardetta - 30 giugno 2014

 

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Oggi l'Isis ha dichiarato al mondo la nascita del Califfato Islamico nelle aree sotto il suo controllo. L'esercito iracheno intanto va riorganizzandosi ed è già partita la controffensiva in quella che può essere definita già una guerra regionale. Turchia, Arabia, Iran e Siria sono alla finestra, mentre Usa e Russia risultano ancora divisi su tutto.
 
 
 
L'Isis comincia a fare sul serio. Nei giorni scorsi abbiamo approfondito le origini dell'organizzazione e le basi sociali ed economiche che hanno permesso al movimento islamista sunnita di avanzare la propria sfera d'influenza sino al cuore dell'Iraq. Di oggi è però un'ulteriore notizia destinata a segnare una tappa essenziale nell'evoluzione dello scacchiere mediorientale: è stata dichiarata la formazione del Califfato Islamico nei territori occupati dall’Isis a cavallo tra Iraq e Siria. Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis, è il Califfo dello Stato Islamico così costituito, la cui formazione, peraltro, è stata comunicata mediante la diffusione di un filmato su internet, proprio il giorno dell’inizio del Ramadan. 
 
Nasce così il Califfato delle aree occupate dall'Isis: una zona estesa che va dai confini con l'Iran alle aree siriane ancora sotto l'influenza dei miliziani jihadisti anti-Assad, passando per ricchi giacimenti di gas e di petrolio nel cuore del territorio iracheno. Una consolidazione territoriale, questa, che non può che rafforzare economicamente e agli occhi del mondo il ruolo di questo nuovo soggetto politico-militare e al tempo stesso che rende ancor più delineate le linee di demarcazione del conflitto radicale in corso nel mondo islamico tra sciiti e sunniti. La situazione non è facile per le popolazioni locali, ma non lo è nemmeno per le diplomazie occidentali.
 
Da anni infatti l'avanzata dell'Isis e dei suoi adepti in terra siriana sta mettendo a ferro e fuoco l'area a maggioranza sciita, e tutto sotto gli occhi del mondo, impegnato più a fare i conti con i propri interessi geopolitici che con le effettive emergenze umanitarie. Così mentre gli Stati Uniti la scorsa estate erano in procinto di bombardare Damasco (dove le donne possono girare in minigonna e studiare), ora non sembrano così smaniosi di intervenire a difesa della popolazione irachena, lasciata così alla mercè di bande di fanatici che crocifiggono e giustiziano tutti quelli che non la pensano come loro. Dall'altra parte si assiste ad un rinnovato attivismo siriano, iraniano e soprattutto russo nella lotta ai fondamentalisti iracheni: Teheran starebbe continuando ad inviare consiglieri militari e droni a Baghdad, la Russia ha messo alcuni propri caccia a disposizione del governo di Al-Maliki, mentre è notizia dei giorni scorsi che Bashar al-Assad, ormai quasi vittorioso sul fronte interno, abbia cominciato a bombardare posizioni dell'Isis in territorio iracheno. Che l'evoluzione delle cose non stia affatto bene a Turchia e paesi del Golfo, nemmeno troppo velatamente legati alla causa sunnita portata avanti dai jihadisti siriani ed iracheni, era cosa prevedibile; ciò che sorprende, invece, è che agli americani faccia più paura l'asse Damasco-Baghdad-Teheran degli estremisti musulmani alleati con al-qaeda. 

Ad esprimere la preoccupazione americana ci ha pensato Kerry che proprio nel week-end è arrivato come un condor nella capitale irachena a dare disposizioni al premier Al-Maliki. Prima una critica all'interventismo esterno di Siria ed Iran che, secondo il segretario di stato USA, potrebbe esacerbare il conflitto, poi il ricatto al governo iracheno con la richiesta di un nuovo esecutivo di coalizione con esponenti Isis. Inutile dire che Al-Maliki, forte dell’appoggio di Siria e Iran, ha rifiutato, ben sapendo che anche Mosca sarebbe molto interessata ad aiutarlo a contenere l’invasione jihadista. Il dubbio allora sorge spontaneo: possibile che gli USA non sapessero nulla sino a pochi mesi fa dell'avanzata dell'Isis e delle sue rivendicazioni jihadiste? Francamente è più facile credere che l’invasione dell’Iraq da parte dell’Isis faccia in qualche modo gli interessi americani, creando destabilizzazione nell'area e rendendo nuovamente significativo il loro ruolo di mediatori. Si perché il sodalizio politico ed economico del mondo sciita che stava andando delineandosi negli ultimi anni avrebbe potuto creare un asse tra Damasco, Baghdad e Teheran con buoni rapporti persino con Mosca. Un'alleanza che l’Occidente e i paesi del Golfo vorrebbero invece spazzare via per fare affari d’oro. I paesi sciiti infatti hanno il “vizio” di tenere alla propria sovranità, un vizio imperdonabile per gli Stati Uniti che hanno bisogno di fare affari dove e come vogliono. Del resto migliaia di miliziani sciiti iracheni hanno combattuto in Siria contro i sunniti jihadisti, e oggi Damasco vuole semplicemente fare altrettanto ora che ha quasi vinto la guerra civile. Sarà un caso che proprio Al-Maliki nei mesi scorsi aveva parlato di stringere legami con la Russia acquistando velivoli e mezzi militari?
 
Ad ogni modo, mentre nelle stanze segrete dei governi si intessono relazioni diplomatiche e si gioca una guerra di nervi destinata a produrre solo il perdurare dell'immobilismo occidentale, nelle strade la guerra civile si fa sempre più cruenta e la gente continua a morire.  I miliziani del Califfato, inspiegabilmente lasciati prosperare dall’Occidente nei mesi scorsi, nelle scorse settimane hanno continuato la loro avanzata verso Baghdad e si sono attestati a Mansuriya, nella regione orientale di Diyala nel nord-est del Paese, conquistando anche Tikrit, vecchio feudo di Saddam Hussein e luogo che aveva dato i natali all'ex dittatore. Si troverebbero ora a meno di un’ora da Baghdad e hanno lasciato dietro di sé una lunga scia di cadaveri. Testimonianze parlano di combattimenti casa per casa migliaia di sfollati. Civili in fuga anche a Mosul nella provincia di Ninive dove, secondo l’Agenzia Onu per i Rifugiati sarebbero scappate oltre 10.000 persone, quasi tutte cristiane, per cercare la salvezza nel Kurdistan iracheno, a Erbil, dove i miliziani curdi difendono la popolazione dai jihadisti, che sparano con i mortai sulle abitazioni e hanno già giustiziato centinaia di innocenti. 

Dopo un iniziale sbandamento l’esercito iracheno, rinforzato da paramilitari sciiti e dagli aiuti di Iran e Russia, ha lanciato una grande controffensiva di terra proprio sulla direttrice di Tikrit  la cui periferia è stata riconquistata da colonne di blindati dell’esercito regolare. Secondo un comunicato del Ministero della Difesa iracheno le forze armate avrebbero liberato dalle forze ribelli la strada che da Samarra porta a Tikrit e i villaggi circostanti. Tutto questo mentre da Mosca sono in arrivo diversi caccia Sukhoi per permettere a Baghdad di bombardare le postazioni dell’Isis.

Insomma, a guardare il numero di morti che cresce ogni giorno e le convergenze delle alleanze, il conflitto è lontano da una soluzione. Non è esagerato dire, infatti, che la guerra è in propagazione in tutto il Medio Oriente, tanto che in molti iniziano a parlare di conflitto regionale. Molto dipenderà dal ruolo giocato dalle forze esterne all'Iraq: Siria ed Iran da una parte, Turchia e paesi del Golfo dall'altra. Sullo sfondo ancora divisi su tutto Russia e Stati Uniti.

Conflitto in Siria: cresce la presenza

centroasiatica nel paese

 

  notiziegeopolitiche.net  di Giuliano Bifolchi -  6 giugno 2014

jamaat Imam Bukhari

 

Un gruppo jihadista uzbeko conosciuto con il nome di Jamaat Imam Bukhari ha rilasciato un video, prodotto da al-Fath Studios, verso la fine di maggio in cui mostra i propri combattenti addestrarsi all’interno di un campo in Siria, ulteriore dimostrazione di come la componente centroasiatica stia incrementando la propria presenza e le proprie attività all’interno del paese .


Il nome del gruppo è dedicato all’Imam Bukhari, religioso uzbeko autore della collezione di hadith (tradizione del Profeta Muhammad) considerata tra le più autentiche dalla comunità musulmana. La jamaat è alleata con al-Nusrah Front, branca ufficiale di al-Qaeda in Siria, e con Jaish al-Muhajireen wa al-Ansar, gruppo jihadista guidato da combattenti provenienti dal Caucaso e collegati con Imarat Kavkaz (Emirato Islamico del Caucaso).


Il video mostra 31 combattenti, vestiti ugualmente con divise militari e con il volto coperto, marciare in formazioni composte da file doppie equipaggiati con armi d’assalto ed altro equipaggiamento bellico; l’addestramento viene interrotto quando il leader, a volto scoperto ma oscurato digitalmente, rivolge il proprio saluto e parla ai militanti mentre sullo sfondo è possibile vedere bambini all’interno del campo. Dopo le parole del leader i militanti riprendono l’addestramento composto da esercitazioni con le armi, corsa ad ostacoli ed allenamento per migliorare le tecniche delle arti marziali.


La localizzazione del campo non è stata rilevata ma, secondo quanto dichiarato da Joanna Paraszczuk, analista specializzata nella presenza caucasica e centroasiatica in Siria e direttore del portale From Chechnya to Syria, sembrerebbe trovarsi intorno ad Hraytan nella Provincia di Aleppo.


La Jamaat Imam Bukhari è il secondo gruppo jihadista uzbeko che emerge in Siria nei recenti mesi; l’altro, la Jamaat Seyfuddin guidata da Abu Hussein combatte per al-Nusrah Front. Secondo quanto riferito da ufficiali dell’Intelligence Usa la Jamaat Seyfuddin avrebbe rapporti diretti con il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU), gruppo affiliato ad al-Qaeda ed attivo in Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan ed Asia Centrale.


Nel mese di maggio la Jamaat Sabiri, gruppo formato da combattenti centro-asiatici e russi del Caucaso, aveva siglato la propria alleanza con Islamic State of Iraq and as-Sham (ISIS) confermando la significativa presenza di combattenti provenienti dalle aree dell’ex Unione Sovietica all’interno del territorio siriano.

 

Siria, ancora “uno dei luoghi peggiori

per essere un bambino”

 

 

Ameera, un tempo allegra e bravissima negli studi, oggi la scuola non la frequenta più. L’ultima volta che si è trovata in aula, un missile è piombato nel cortile di fronte alla classe, uccidendo una cinquantina di bambini. Quando le sue due migliori amiche, sedute qualche fila davanti a lei, sono saltate in aria in un boato di vetro e schegge, Ameera si è messa le mani sulla testa. Tra il fumo e la confusione, voleva correre ad aiutarle ma è stata bloccata dalla sua insegnante che le ha intimato di fuggire via, il più lontano possibile. “Questa è l’ultimo ricordo che questa bambina ha della quinta elementare” racconta Samantha Nutt dell’ONG Warchild.

 

La sua storia è una delle migliaia che arrivano dai confini siriani, dove l’ondata di profughi in fuga da un conflitto sanguinoso e implacabile non dà segno di volersi fermare. E naturalmente, le storie più difficili da ascoltare appartengono ai piccoli, a cui la guerra ha lasciato ferite e cicatrici molto difficili da rimarginare. Permea i loro sogni durante la notte, influisce sul loro umore, nutre le loro ansie e le loro paure. “Dopo tre anni di conflitto, la Siria è diventata uno dei luoghi più pericolosi per essere un bambino – si legge nel recente rapporto dell’Unicef, intitolato “Under Siege. The devastating impact on children of three years of conflict in Syria” – Con le case distrutte, e le loro comunità trasformate in campi di battaglia, sono stati costretti ad entrare in una vita piena di paura e di incertezze”.

 

Così, a 32 anni dalla proclamazione, da parte Nazioni Unite, della Giornata mondiale per i bambini innocenti vittime di aggressioni, la tragedia siriana ci mostra quanto in realtà gli scivoloni all’indietro siano sempre dietro l’angolo. Tanto più che, nonostante giornate e ricorrenze, le crisi umanitarie come questa spesso e volentieri vengono dimenticate dai nostri media che, esaurito l’interesse iniziale, puntano i propri riflettori altrove. E invece, in Siria la mattanza di vittime innocenti continua ancora oggi, palesando tra le altre cose l’impotenza e l’inefficacia degli organismi internazionali di fronte a orrori ed emergenze così complicate.

Basti pensare che, secondo il già citato rapporto Unicef, sarebbero almeno 10.000  i bambini uccisi dall’inizio del conflitto siriano, anche se l’organizzazione sostiene che il numero reale sia senz’altro molto più alto. Ancora, i bambini impattati raggiungono un totale di 5,5 milioni, più del doppio del numero che l’ong aveva stimato l’anno prima, nel marzo 2013. Quasi 3 milioni di giovani siriani risultano sfollati all’interno del paese, contro i 920.000 dello scorso anno, e il numero totale di bambini rifugiati è passato da 260.000 di un anno fa a 1,2 milioni, di cui 425.000 hanno meno di cinque anni. Molti di loro vivono nei campi profughi all’interno del paese, come quello palestinese di Yarmouk, isolati e sotto assedio, e quindi tagliati fuori dagli aiuti e da ogni possibilità di assistenza. Altri sono riusciti a raggiungere i confini del paese, rifugiandosi nei campi in Libano, Giordania, Turchia.

 

Qui, oltre al trauma delle violenze, c’è anche quello dello sradicamento forzato. “I bambini siriani hanno perso le aule e gli insegnanti, fratelli e sorelle, amici, operatori sanitari, case e stabilità – si legge nel rapporto Unicef – Invece di imparare e di giocare, molti di loro sono costretti a lavorare, vengono reclutati per combattere, o sottoposti all’ozio forzato”. Secondo il rapporto, “i bambini siriani sono stati costretti a crescere più velocemente del normale”: e se nei campi in Giordania, un piccolo profugo su dieci lavora, una ragazza su cinque è costretta al matrimonio precoce, perché i parenti rimasti spesso non possono prendersi cura di loro. Per i “fortunati” che riescono a tornare a frequentare la scuola, c’è il problema dei diversi curriculum, della lingua e, date le scarse condizioni igieniche ed esistenziali della vita nei campi, non è raro che i piccoli siriani e palestinesi finiscano per essere vittime di bullismo.

 

E poi ci sono le ferite fisiche e psicologiche, e le violazioni a cui i bambini continuano ad assistere nella loro vita quotidiana, che influenzano profondamente la loro psiche, anche negli anni a venire. “Bambini che una volta erano fiduciosi, luminosi e vivaci stanno ora nascosti agli angoli dei container, gli occhi bassi, con il peso di vivere quasi palpabile”. Le varie ong come Warchild, la stessa Unicef, e tante altre (comprese le italiane) cercano di fare il possibile per il recupero di questi giovanissimi, rifiutando di chiamarli la “generazione perduta“, ma ben consci che l’assistenza è utile e necessaria fino a un certo punto. “Questa guerra deve finire in modo che i bambini possano tornare alle loro case e ricostruirsi una vita in sicurezza con la famiglia e gli amici – ha detto il direttore dell’Unicef Anthony Lake – Questo terzo anno devastante per i bambini siriani deve essere l’ultimo”.

 

Siria: si vota in regioni lealiste

 

Scontata vittoria Assad, oltre 15 milioni alle urne

 

    Ansa - 3 giugno 2014

 

Sono aperti da questa mattina alle 7.00 (le 6.00 in Italia) i seggi per le elezioni presidenziali in Siria, dove è data per scontata la vittoria del presidente Bashar al Assad su due candidati dell'opposizione. Oltre 15 milioni di persone, secondo il ministero dell'Interno, sono chiamate al voto, ma potranno farlo solo nelle zone controllate dal regime in quella che l'opposizione ed i Paesi occidentali hanno definito una "parodia della democrazia". Eescluse vaste regioni in mano ai ribelli.
   

 

Tre aggiornamenti sulla crisi siriana

 

internazionale.it  -  24 marzo 2014

Tensioni al confine. Il 23 marzo l’esercito turco ha abbattuto un jet militare siriano che aveva violato lo spazio aereo turco. Il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che una simile azione meritava “una risposta dura”. Ma Damasco ha accusato la Turchia di aver commesso “un’aggressione clamorosa” sostenendo che, quando è stato colpito, l’aereo si trovava ancora in Siria.

 

L’incidente è avvenuto a Kassab, nella provincia di Lattakia, vicino a una zona recentemente occupata dai ribelli.

 

 

Ucciso il cugino di Assad. Il 24 marzo Hilal al Assad, cugino di Bashar al Assad e fondatore delle forze di Difesa nazionale, un gruppo paramilitare che combatte a fianco dell’esercito regolare siriano, è morto durante gli scontri con i ribelli.

 

Hilal al Assad è stato ucciso quando un razzo ha colpito la casa dove l’uomo stava tenendo una riunione con altri membri di Difesa nazionale.

Al Jazeera scrive che Jaish al Islam, un gruppo ribelle affiliato con il Fronte islamico, ha rivendicato l’omicidio con un comunicato sul suo sito ufficiale.

Aiuti difficili. Le organizzazioni umanitarie faticano a far arrivare i soccorsi alla popolazione siriana. Lo ha detto il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, in un rapporto presentato il 24 marzo al Consiglio di sicurezza.

 

Ban Ki Moon ha chiesto al governo siriano e all’opposizione di prendere misure per facilitare i soccorsi ai 9,3 milioni di siriani che ne hanno bisogno, scrive l’Afp.

 

“Gli aiuti che stiamo inviando alla popolazione siriana non bastano a coprire i bisogni fondamentali”, ha commentato Ban Ki-moon.

 

 

Siria, negoziati di pace in stallo.

In 3 anni 140mila morti

 

Nulla di fatto dagli incontri a Ginevra tra

il regime di Assad e le opposizioni.

L'inviato Onu Brahimi si scusa con il popolo siriano.

Gli attivisti intanto denunciano: dall'inizio

del conflitto migliaia di vittime, oltre 7mila sono minori

 

sky.it -  16 febbraio 2014

 

Un nulla di fatto ha segnato il secondo round di colloqui internazionali a Ginevra tra regime e opposizioni in esilio, tanto che il mediatore Onu Lakhdar Brahimi si è per questo scusato pubblicamente "con il popolo siriano", mentre il presidente americano Barack Obama ha evocato l'aumento di non meglio precisate pressioni sul regime di Damasco. Un fallimento, rivela il Wall Street Journal, che potrebbe portare l'Arabia Saudita a fornire ai ribelli anti-Assad le armi più moderne e letali: i missili antiaerei portatili. Una decisione vista di cattivo occhio da Washington il cui timore è che queste armi possano finire alle frange più estremiste e usati anche contro gli aerei di linea occidentali.

E intanto l'Osservatorio nazionale per i diritti umani aggiorna il tragico bilancio dei morti. In tre anni di violenze il conflitto siriano è costato la vita a oltre 140mila persone. Circa 50mila sono civili e di questi oltre 7mila minori e circa 5mila donne.

Dal terreno, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) ha chiesto alle autorità siriane e ai ribelli di potere rientrare nel campo profughi palestinese di Yarmuk a Damasco per ridistribuire aiuti umanitari. Mentre per il quarto giorno consecutivo è proseguita l'offensiva di terra e di aria da parte del regime di Damasco contro Yabrud, una località ribelle a nord della capitale e a ridosso del confine libanese. All'offensiva partecipano anche miliziani sciiti libanesi di Hezbollah e correligionari iracheni, giunti in sostegno delle forze lealiste.

Sul piano diplomatico, Brahimi ha affermato che ci potrà essere un terzo round di colloqui tra le parti ma che nessuna data à stata fissata. "Penso sia meglio che ogni parte torni a casa, rifletta e assuma la responsabilità di sapere se vuole che questo processo di pace si svolga o no", ha detto Brahimi, in partenza per New York dove incontrerà il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon.

Al termine del secondo giro dei colloqui le parti si sono dette d'accordo sui punti da affrontare nel prossimo round (lotta alla violenza e al terrorismo, organo esecutivo di transizione), ma la delegazione del governo di Damasco ha rifiutato la proposta del mediatore di cominciare alternando il tema della "lotta al terrorismo" e quello del futuro governo di transizione, ritenuto prioritario dall'opposizione.

Questo rifiuto, ha "alimentato il sospetto dell'opposizione che il governo non voglia discutere affatto dell'organo esecutivo di transizione", ha detto Brahimi, che ha inoltre auspicato un nuovo incontro ad alti livelli tra Russia e Stati Uniti, sponsor della conferenza di Ginevra.

E mentre Francia e Gran Bretagna accusano il regime siriano di aver fatto fallire i colloqui, Obama ha detto che "ci saranno passi intermedi che dovremo prendere per l'assistenza umanitaria" nel Paese, e che "ci sono passi intermedi che possiamo prendere per aumentare la pressione sul regime di Assad". Il presidente siriano deve dimettersi, ha ribadito Obama.

 

Siria, il fronte anti al Qaeda

 

L'Occidente rivaluta Bashar.

Unico baluardo contro jihadisti e terroristi.

E tratta con Damasco. Vacilla l'appoggio ai ribelli.

 

  lettera43.it  di Barbara Ciotti - 15 Gennaio 2014

 

 

Le armi chimiche sono state consegnate e navigano verso acque internazionali.
Aperti i canali con l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), i rappresentanti del governo siriano preparano le valigie per la Svizzera: pronti, il 22 gennaio, ad aprire la Conferenza di pace di Ginevra 2. Mentre il presidente Bashar al Assad continua a bombardare, senza tregua, i quartieri ribelli di Aleppo.


LA GUERRA DI TUTTI CONTRO TUTTI. A preoccupare la comunità internazionale, due anni e mezzo dopo l'inizio del conflitto, è, prima di tutto, la deriva qaedista della Siria. Interi territori sono finiti in mano agli islamisti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis) e ad altri jihadisti, arrivati anche dall'Europa.
Gli insorti dell'Esercito libero siriano (Els) combattono ormai una guerra nella guerra contro gli ex alleati islamisti: quasi 500 morti in una settimana, ha denunciato l'Osservatorio siriano per i diritti umani con sede a Londra, tra i quali 240 delle brigate ribelli, 157 dell'Isis e 85 civili.


L'INTELLIGENCE ATLANTICA A DAMASCO. Nella conta sono incluse anche decine di ostaggi giustiziati dai tagliatori di gole islamisti e altrettanti qaedisti fucilati dall'Els. Senza dimenticare la guerra che, sulle montagne del nord, i curdi combattono per la loro regione autonoma, contro le razzie qaediste e, talvolta, anche contro i ribelli.


In questo far west, la carta più sicura per l'Occidente è tornata a essere Assad, il dittatore riabilitato a presidente. A Damasco, i servizi segreti atlantici avrebbero riaperto i negoziati con il governo, in funzione anti al Qaeda. In attesa che la politica, a Montreux, sul lago di Ginevra, faccia il suo corso.

 

L'Occidente diviso sul futuro di Assad

 

 

Per questo quando Assad si dice pronto a ricandidarsi per vincere le presidenziali del 2014 non scherza.
La data delle consultazioni, va da sé, è fluttuante. Ma perché il suo programma non dovrebbe essere credibile? Dalle proteste del 2011, la sua linea è stata coerente. Dal suo punto di vista, i siriani che chiedevano riforme sono stati strumentalizzati dai «terroristi stranieri», infiltrati nel Paese.


SPIRAGLI APERTI CON BASHAR. A un soffio dalla guerra con gli Usa, a settembre Assad ha accettato di distruggere il suo arsenale chimico. E, archiviati i 1.300 morti da gas nervino del 21 agosto 2013 nei quartieri ribelli di Damasco, le cancellerie occidentali hanno aperto spiragli a Damasco.


Se è vero quello che raccontano gli uomini di Assad ai media, i servizi segreti atlantici lavorerebbero ormai sottobanco con il Mokhabarat, la famigerata intelligence siriana che risponde direttamente al presidente, per arrestare l'offensiva dei terroristi di al Qaeda, entrati dall'Iraq e da altri Paesi. Nonché grande minaccia per l'Europa e gli Usa, ben oltre il Medio Oriente.


Intervistato dall'emittente inglese Bbc, il vice ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad ha affermato che, recentemente, «molte agenzie occidentali» si sarebbero recate in visita a Damasco, per «discutere di come combattere insieme il radicalismo islamico».

 

LA MANCANZA DI ALTERNATIVE. Tra gli ufficiali di sicurezza e i politici dell'asse filo-americano, in particolare, sarebbe in atto una «scissione» sul pressing per le dimissioni del presidente siriano. Diversi governi occidentali avrebbero compreso come, alla fine, «non ci sia alternativa alla leadership di Assad».
Verosimilmente, le rivelazioni dalla Siria rientrano nel naturale gioco delle parti, alla vigilia della Conferenza di Ginevra 2.
Con i suoi ministri, Assad fa del suo meglio per evitare la cacciata dal Paese. Ma certo è che, a negoziati di pace imminenti, l'allarme al Qaeda è oltre i livelli di guardia. E, con le brigate ribelli in crisi d'identità e in lotta, l'unico interlocutore disponibile a cooperare da subito è il governo di Damasco.
A Capodanno, una delegazione siriana si è persino recata dal pontefice a Roma, raccogliendo l'appello natalizio di Francesco alla pace.

 

Stati Uniti e Gran Bretagna: appoggio a rischio ai ribelli

 

 

Di fronte al ritorno di Assad, la Coalizione nazionale siriana (Cns) - principale ombrello dell'opposizione all'estero - e l'Els, il suo braccio armato, hanno minacciato di disertare i colloqui di pace in Svizzera, unendosi al no del Comitato di coordinamento nazionale (Ccn), gli attivisti interni della Siria.
Nella riunione del 17 gennaio, la Cns deciderà se inviare o meno i suoi emissari a Ginevra. Spazientita, la cordata pro-ribelli degli Amici della Siria, Italia inclusa, ha esortato gli insorti a sedere al tavolo con Assad, o «altrimenti i colloqui saranno a rischio», per non dire inutili.

 

UN NUOVO AFGHANISTAN. Gran Bretagna e Usa avrebbero addirittura minacciato di ritirare l'appoggio ai ribelli, se entro il 22 gennaio questi non faranno retromarcia. Il tempo stringe: citando alti funzionari dell'intelligence e dell'antiterrorismo americani, il New York Times ha lanciato l'allarme della presenza di qaedisti addestrati in Siria per organizzare attentati in Europa e negli Usa.


Washington e Londra non sanno bene come agire, in quello che pare già un «nuovo Afghanistan». Formalmente inglesi e americani continuano a chiedere la fine di Assad. Anche se l'esistenza delle trattative con Damasco - attraverso la Russia e secondo le indiscrezioni bene informate ai media anche tra le intelligence - dimostra come il dialogo sia in corso.


ALLEANZA ANTI-JIHAD. Nella Turchia che ha accolto il quartier generale della Cns sono in corso perquisizioni a tappeto contro i gruppi jihadisti. E alla Conferenza di pace di Ginevra, gli Usa hanno infine invitato anche gli iraniani, reduci da una visita a Istanbul e, il 15 gennaio, ricevuti a Damasco.
Se sui terroristi l'Occidente dovrà dare ragione al governo siriano, come liberarsi poi di Assad?

 

Croce rossa:

in Siria situazione umanitaria catastrofica

 

Presidente Icrc: serve con urgenza maggiore accesso a aiuti

 

   ilmondo.it  -  13 Gennaio 2014

Croce rossa: in Siria situazione umanitaria catastrofica


La situazione in Siria è "catastrofica": a lanciare l'allarme è oggi il presidente del Comitato internazionale della Croce rossa (Icrc), Peter Maurer. "Sono estremamente preoccupato per il fatto che la maggior della popolazione è direttamente o indirettamente coinvolta dalla spirale della violenza", ha affermato in un comunicato Maurer, reduce da una visita di tre giorni in Siria.

Le riserve di viveri e di farmaci scarseggiano, in particolare nelle regioni assediate dalle forze del presidente Bashar al Assad, ha aggiunto, spiegando di aver esortato i responsabili siriani ad autorizzare d'urgenza un maggiore accesso agli aiuti umanitari.

Fra le zone più colpite figura il campo profughi palestinese di Yarmuk a Damasco, assediato da circa un anno dall'esercito siriano e dove la mancanza di cure mediche e di generi alimentari ha provocato almeno 41 morti in tre mesi, secondo l'Osservatorio siriano dei diritti umani.

Sempre oggi Unicef e Oms hanno denunciato la sospensione della campagna di vaccinazioni contro la polio nella provincia settentrionale di Raqa, teatro di violenti combattimenti fra ribelli e jihadisti. 

 

fonte Afp

Almeno 135 morti in tre giorni

di raid aerei su Aleppo

 

Ong: fra le vittime anche numerosi bambini

 

ilmondo.it - 18 Dicembre 2013

 

E' di almeno 135 morti il bilancio delle vittime dei bombardamenti aerei dell'aviazione siriana su diversi quartieri di Aleppo, avvenuti negli ultimi tre giorni: lo hanno reso noto fonti delle organizzazioni siriane per la difesa dei diritti umani. I raid più sanguinosi si sono verificati domenica scorsa, quando almeno 76 persone - fra cui 28 bambini - sono morti nelle incursioni su sei quartieri controllati dai ribelli; altre venti sono morte martedì e 39 (fra cui almeno otto bambini) mercoledì; le ong non hanno precisato se il bilancio delle vittime comprende anche dei miliziani o solo dei civili. (fonte Afp)

 

En Syrie, un silence qui pèse

 

Liberation - Di Jean-Pierre Perrin - 30 ottobre 2013

C’est une quasi-certitude : l’Etat islamique d’Irak et au Levant (EIIL), le groupe le plus radical, lié historiquement à Al-Qaeda, détiendrait la plupart des otages occidentaux en Syrie. Journalistes et humanitaires, ils seraient entre 20 et 25. On ne les connaît pas tous, certains pays, comme la Grande-Bretagne, estimant que garder le silence peut faciliter les négociations avec leurs ravisseurs (lire page ci-contre). Quatre d’entre eux sont des journalistes français : Didier François, 53 ans, grand reporter à Europe 1 et longtemps à Libération, enlevé près d’Alep en compagnie d’Edouard Elias, 22 ans, photoreporter. Après eux furent kidnappés Nicolas Hénin, journaliste de 37 ans, et Pierre Torres, photoreporter âgé de 29 ans, le 22 juin à Raqqa. Gardée secrète à la demande des familles, leur disparition a été finalement annoncée le 9 octobre.

 

 

 

 

Siria: distrutto l'arsenale chimico di Assad

 

I team dell'Opac hanno ispezionato 21 dei 23 siti nel Paese.
Altri due sarebbero troppo pericolosi da visitare, ma il loro equipaggiamento è già stato trasferito
 

Tutto l'arsenale chimico dichiarato dal regime siriano di Bashar al-Assad è stato distrutto. Lo ha reso noto l'Opac, l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che il primo ottobre ha inviato la sua prima squadra di ispettori in Siria per smantellare le armi non convenzionali in possesso di Assad, come previsto da un accordo tra Usa e Russia per evitare un intervento militare americano.

Secondo quanto si legge nella nota, "l'Opac è soddisfatta di aver verificato e distrutto tutto il materiale per la produzione, la miscelazione e gli impianti di riempimento di tutti i 23 siti" indicati da Damasco e ispezionati.

 

Siria. Kerry e Lavrov si incontrano in Indonesia.

E rilanciano il “Ginevra 2”. 115mila i morti

 

notiziegeopolitiche.net di Enrico Oliari  - 8 ottobre 2013

siria kerry lavrov indonesia grande

 

Il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov si sono incontrati ieri al termine della Conferenza Apec (Cooperazione Economica Asia-Pacifico) tenutasi  in Indonesia, presso l’isola di Bali.


Fra le varie questioni i due esponenti della diplomazia internazionale hanno toccato il tema della Siria ed hanno concordato di sollecitare l’Onu alla realizzazione del “Ginevra 2”, cioè la tavola rotonda più volte rinviata alla quale far sedere le parti in conflitto per tentare una soluzione diplomatica della crisi che ha investito il paese mediorientale.


Lo stesso Kerry, il cui paese solo poche settimane fa era pronto ad intervenire in Siria anche senza il mandato delle Nazioni Unite, è convenuto sulla linea di Lavrov ed i due hanno potuto affermare in modo congiunto che “non esiste una soluzione militare, condividiamo l’interesse a evitare che estremisti radicali dell’una o dell’altra parte assumano un ruolo maggiore in Siria” e quindi auspichiamo che vengano “compiuti gli sforzi specifici affinché il processo di Ginevra progredisca il più rapidamente possibile”.


La realizzazione del “Ginevra 2” potrebbe essere immediata: “E’ nostra speranza reciproca – ha continuato Kerry -  che ciò possa accadere in novembre ed entrambi siamo decisi e determinati a consultare i nostri amici per garantirlo. Una data definitiva e i termini della partecipazione dovranno essere determinati dalle Nazioni Unite”.


Il conflitto siriano è iniziato ufficialmente il 15 marzo 2011 e fino ad oggi ha provocato 115mila vittime, oltre ad un dramma umanitario colossale con milioni d profughi, parte dei quali premono su paesi a loro volta in crisi, come l’Iraq e la Giordania. Amman infatti sta facendo l’impossibile per aiutare chi scappa dagli orrori della guerra, ma la Giordania resta uno dei paesi più poveri di acqua al mondo e soprattutto già casa dei profughi provenienti da altre aree, come la Palestina.


Oltre agli insorti, combattono l’esercito regolare anche gruppi ijhadisti formati da guerriglieri provenienti da ogni dove, in particolare dalla Penisola arabica e dal Nordafrica. In Libia è stata appurata la presenza di campi d’addestramento dove sono stati formati molti giovani tunisini, fatto che, anche per le proteste dei genitori, ha rappresentato un’emergenza alla quale il governo di Tunisi ha risposto sia irrigidendo i controlli alle frontiere, sia proibendo alle persone con meno di 35 anni di recarsi in Libia.


Si è parlato poi di una “jihad sessuale”, alla quale hanno preso parte non poche ragazze tunisine e nordafricane al fine di soddisfare i combattenti jihadisti: circa mille di loro sono rientrare in patria incinte.


La situazione in Siria è complicatissima, in quanto oggi i fronti sono sostanzialmente tre, ovvero l’esercito regolare con gli Hezbollah libanesi e i pasdaran iraniani, l’Esercito siriano libero con i curdi del nord e le milizie volontarie, e gli jihadisti legati ad al-Qaeda di Jabat al-Nusra, dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante e della Brigata di Aisha la madre dei credenti: in diverse occasioni gli jihadisti, che si propongono la creazione di uno stato islamico, hanno attaccato le forze degli insorti e il 12 luglio alcuni guerriglieri del gruppo qaedista dello “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” hanno ucciso nei pressi di Laodicea (Lattakia) un alto comandante dell’Esercito libero siriano, Kamal Hamami, ed a Qassem Saadeddine, portavoce dell’Els, è arrivata una telefonata in cui si è minacciata la morte “di tutti quelli del Consiglio supremo militare”.


Il 25 settembre diversi gruppi dell’opposizione armata dal regime di Bashar al-Assad che si riconoscono nella jihad e che, come nel caso di Jabat al-Nusra, sono affiliati ad al-Qaeda, hanno diramato un comunicato congiunto con il quale si rifiutano di riconoscere “ogni forma di opposizione costruita all’estero, inclusa la cosiddetta Coalizione nazionale o governo transitorio”, al momento guidato da George Sabra.


Infine vi è la questione degli interessi sovranazionali: è difficile redigere una mappa precisa di quali siano i coinvolgimenti, ma appare ormai certo che il Qatar stia appoggiando proprio gli jihadisti, mentre l’Arabia Saudita stia dalla parte degli insorti del Consiglio nazionale; l’Iran è dichiaratamente a fianco di Bashar al-Assad, come pure la Cina e la Russia. La prima ha con il regime importanti contratti per la costruzione di infrastrutture ed il progetto di fare della sponda siriana un appoggio logistico per le merci destinate all’Europa, mente la seconda ha a Tartus la sua unica (e fornitissima) base militare in un panorama che va dal Marocco al Kirghizistan (con esclusione di Iran e Siria) che ospita basi statunitensi.


Dalla Gran Bretagna e dalla Francia, arrivano armi, per tutti i fronti, come avevano chiesto ed ottenuto al Consiglio dei ministri dell’Unione europea di giugno.

 

 

 

Siria, Ban Ki-moon:

“Peggior attacco dai tempi di Saddam,

Onu agisca unita”

 

Il segretario generale ha illustrato al Consiglio di Sicurezza la relazione di ispettori sull'uso delle armi chimiche nei sobborghi di Damasco il 21 agosto: "Rapporto da brividi". Il testo conferma l'utilizzo del gas tossico su vasta scala contro i civili, ma non indica i responsabili dell'attacco

 

ilfattoquotidiano.it - 16 settembre 2013

 
Ban Ki-moon
 
 
 
    Il rapporto del team di ispettori dell’Onu guidato da Ake Sellstrom ha confermato l’uso del gas tossico su larga scala contro i civili nell’attacco del 21 agosto nel sobborgo di Damasco, al Ghouta. “Questo è un crimine di guerra e una grave violazione del diritto internazionale”, ha detto il segretario generale Ban Ki-moon durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il segretario generale ha trasmesso “con cuore pesante” al Consiglio di Sicurezza il rapporto che documenta “il più significativo attacco coi gas contro civili dal 1998, quando Saddam Hussein li usò ad Halabja”. Il numero uno dell’Onu ha detto durante la conferenza stampa a seguito della riunione del Consiglio di Sicurezza che la relazione di ispettori “fa venire brividi”. Secondo il rapporto, l’85 per cento dei campioni analizzati dagli esperti sono risultati positivi al test per il gas sarin. L’attacco chimico del 21 agosto è stato presumibilmente sferrato tra le 2 e le 5 del mattino, così da massimizzarne le conseguenze. Infatti le vittime del gas sono state numerose, soprattutto tra i civili. Anche se è stato impossibile verificarne il numero preciso, data la “situazione di sicurezza” e “altre limitazioni”, ha spiegato Ban Ki-moon. ”Il team ha parlato con oltre 50 sopravvissuti, personale medico e di primo intervento. Ha valutato i sintomi di ognuno e raccolto campioni biomedici, anche da capelli, urina e sangue”, si dice nel dossier dell’Onu. La missione ha analizzato anche campioni di munizioni, 30 campioni di suolo e ambientali. I missili usati nell’attacco coi gas sono arrivati da nord ovest, afferma il rapporto.  
 
    Ban Ki-moon ha detto al Consiglio di Sicurezza che l’unità dei Quindici è “cruciale” e che devono dimostrare la loro leadership, data la gravità della situazione. Il segretario generale ha ribadito che il Consiglio deve prevedere sanzioni se Damasco non rispetterà il piano di smantellamento delle armi chimiche.  In caso di mancata attuazione dell’accordo, il Consiglio “dovrebbe imporre misure sotto il Capitolo 7 della Carta dell’Onu”. Il segretario generale comunque confida in una soluzione pacifica. “Sono pronto a convocare la Conferenza sulla Siria a Ginevra il più presto possibile”, ha detto Ban Ki-moon.  Il 28 settembre deve incontrare a New York il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il segretario di stato americano John  Kerry per fissare una data. “Dobbiamo fare tutto il possibile per portare le parti al tavolo dei negoziati, è l’unica strada per una soluzione duratura “, ha aggiunto il segretario generale. Il numero uno dell’Onu ha anche annunciato durante la conferenza stampa che gli ispettori torneranno in Siria per condurre nuove verifiche, appena sarà raggiunto un accordo con il governo di Assad.
 
    Più tardi il dossier sarà presentato anche ai 193 membri dell’Assemblea generaleDopo l’illustrazione del rapporto al Consiglio di Sicurezza sono arrivate le prime reazione. “Non c’è alcun dubbio” che il regime siriano di Bashar al-Assad sia responsabile dell’uso di armi chimiche, nell’attacco dello scorso 21 agosto nei sobborghi di Damasco, ha detto il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius. ”Il contenuto del rapporto è tremendo, ha detto Fabius, intervistato da radio RTL. Il 17 settembre il capo della diplomazia francese andrà a Mosca per incontrare il ministro degli esteri russo Lavorv. La Russia ritiene che il dossier degli ispettori Onu non sia la prova definitiva che la colpa è del regime di Damasco. Lo ha detto l’ambasciatore russo al Palazzo di Vetro Vitaly Cherkin. Mentre gli Stati Uniti sostengono il contrario. A inchiodare il regime di Assad sono i dettagli tecnici del rapporto, sostiene l’ambasciatrice Usa all’Onu Samatha Power. La responsabilità del presidente siriano è certa anche secondo l’ambasciatore Mark Lyall Grant, rappresentante permanente della Gran Bretagna al Palazzo di Vetro.
 
    Le conclusioni degli esperti dell’Onu sono state anticipate da alcuni stralci che sono stati ottenuti ingrandendo una foto della prima pagina del rapporto. L’immagine è stata scattata mentre il documento veniva consegnato dal capo del team di esperti al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Il rapporto degli ispettori Onu mostra “segni di colpevolezza” tra cui la traiettoria dei missili, ha sostenuto prima la Cnn. Alcune fonti nel Palazzo di Vetro hanno comunicato all’emittente americana che nel rapporto si parla dell’uso di 350 litri di sarin lanciati con missili terra-terra nell’attacco del 21 agosto. Sempre lo stesso interlocutore sostiene che su alcuni degli ordigni usati nell’attacco al Ghouta sono visibili lettere cirilliche. Secondo la fonte della Cnn il rapporto non mette nessuna delle parti sul banco degli imputati ma alcuni dettagli del documento serviranno per indicare le responsabilità. 
 
    Venerdì Ban Ki-moon aveva dichiarato di ritenere che ci sarebbero state prove schiaccianti dell’uso di armi chimiche nell’attacco che vicino a Damasco ha ucciso centinaia di persone. Anche la Commissione d’inchiesta Onu sulle violazioni dei diritti umani in Siria sta indagando sulla responsabilità di 14 sospetti attacchi con armi chimiche. Lo ha dichiarato il presidente della commissione, Paulo Sergio PinheiroL’indagine della commissione non ha ancora determinato esattamente quali materiali siano stati usati, ma sta attendendo i risultati dell’indagine degli ispettori Onu sulle armi chimiche. La “grande maggioranza” dei feriti nella guerra civile è tuttavia stata causata da armi convenzionali come armi da fuoco e mortai, sostiene Pinheiro. 
 
    Nel frattempo la stampa turca ha affermato che al confine tra la Siria e la Turchia è precipitato un elicottero militare siriano che è esploso in volo. Secondo Zaman online, l’elicottero è stato abbattuto dai ribelli ed è caduto a circa 400 metri dal confine. Stando a Hurriyet, i due piloti si sono lanciati in paracadute, ma sono stati uccisi a terra.  La notizia, però, è stata smentita dal vicepremier turco Bulent Arinc. Ha annunciato che il velivolo è stato abbattuto dai caccia militari di Ankara. Arinc ha precisato che l’elicottero siriano “ha violato lo spazio aereo turco”.
 
Kerry al vertice di Parigi: “No a dilazioni da parte di Assad”
 
    In attesa del rapporto Onu, gli Usa non abbassano la guardia nei confronti della Siria. ”Non tollereremo misure dilatorie” da parte del regime di Bashar al Assad, ha fatto sapere il segretario di Stato americano John Kerry, dopo avere incontrato a Parigi  il presidente François Hollande e i ministri degli Esteri di Francia e Gran Bretagna, Laurent Fabius e William Hague. Il capo della diplomazia Usa ribadisce che l’intervento armato è una possibilità che gli Stati Uniti non hanno ancora escluso del tutto. Nel caso in cui Damasco “verrà meno ai suoi doveri, ci saranno delle conseguenze. Se la diplomazia dovesse fallire, l’opzione militare è sempre sul tavolo”. Kerry ha usato parole dure nei confronti del presidente siriano Assad, che agli occhi di Washington avrebbe “perso ogni legittimità“.
 
    Dall’incontro è emersa una linea comune nei confronti della crisi siriana: è stata definita “essenziale” l’approvazione di una risoluzione Onu “forte e vincolante”. Non solo. I capi delle diplomazie dei tre Paesi alleati hanno auspicato “un calendario preciso” per il controllo e lo smantellamento dell’arsenale chimico del regime siriano. Il ministro francese si è mostrato più cauto del collega americano. “In Siria la soluzione è politica, non militare”, ha detto Laurent Fabius, che però poi ha precisato: “Ci saranno conseguenze serie se la risoluzione Onu sulla Siria non sarà applicata”. Domenica Hollande aveva accelerato sui tempi di una delibera delle Nazioni Unite: “Una risoluzione all’Onu potrebbe essere votata entro la fine della prossima settimana”. “L’intesa tra Stati Uniti e Russia è una tappa importante, ma non un punto di arrivo”, aveva aggiunto il presidente francese. “L’opzione militare deve rimanere”.
 
Lavrov: “Minacce mettono a rischio la conferenza pace Ginevra-2″
 
    L’incontro di Parigi arriva pochi giorni dopo l’intesa raggiunta tra Kerry e l’omologo russo Sergei Lavrov: l’intesa prevede che Bashar al Assad dovrà consegnare una lista delle sue armi chimiche entro una settimana, mentre l’intero arsenale, almeno secondo quanto richiesto da Washington, dovrà essere distrutto entro metà 2014. Lavrov ha precisato il 16 settembre, durante una conferenza stampa in occasione della vista del ministro degli Esteri egiziano a Mosca, che i termini esatti per la distruzione delle armi chimiche siriane devono essere ancora definiti dalla Convenzione sulle armi chimiche, che il Consiglio Onu dovrà appoggiare. Ha spiegato che la responsabilità delle distruzione dell’arsenale chimico spetterà al governo di Damasco e alla Convenzione, ma la comunità internazionale potrà dover fornire “personale internazionale ulteriore” per garantire sicurezza.
 
    “Il piano concordato dalla Russia con gli Usa non prevede alcun uso automatico della forza militare contro la Siria, a meno che sia previsto dal Consiglio di sicurezza Onu”, ha ribadito Lavrov. Il ministro degli Esteri russo insiste sulla linea della soluzione diplomatica e compie un’inedita apertura nei confronti dei ribelli siriani. “Siamo pronti a ricevere a Mosca il leader della Coalizione nazionale siriana all’opposizione”, ha fatto da sapere Sergei Lavrov, che però ha aggiunto: “E’ arrivato il tempo non più di convincere ma di costringere l’opposizione siriana a partecipare al tavolo del negoziato”. Il ministro russo pone un freno alle reiterate minacce americane di un ricorso all’intervento militare: “Qualsiasi appello per una rapida risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu in base al capitolo sette (che prevede anche l’uso della forza, ndr) dimostra una carenza di comprensione dell’accordo russo-americano sulle armi chimiche in Siria”. Anzi, mette in guardia Lavrov, le minacce potrebbero far saltare la conferenza di pace Ginevra-2”Se qualcuno vuole minacciare, cercare un pretesto per colpire, questa è una strada che suggerisce agli oppositori di Damasco che da loro ci si aspetta una nuova provocazione”, ha ribadito Sergei Lavrov nella conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri egiziano.

 

 

Russia: contributo Usa su proposta armi

 

Damasco accetta controllo su armi chimiche.

Senato rinvia il voto

 

Ansa - 10 settembre 2013

 

''La proposta di mettere le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale non e' una iniziativa del tutto russa ma deriva dai nostri contatti con i colleghi americani e dalla dichiarazione fatta ieri da Kerry'': lo ha detto il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov in una conferenza stampa a Mosca.

 

La Russia sta lavorando con la Siria ha un piano concreto per mettere l'arsenale chimico sotto controllo. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov.

 

Siria: Francia, Fabius, Oggi presentiamo risoluzione Onu - ''La Francia presentera' oggi stesso alle Nazioni Unite un progetto di risoluzione che chiede a Damasco di rendere pubblico il suo arsenale chimico: lo ha annunciato il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, nel corso di una conferenza stampa a Parigi.

 

''Oggi - ha spiegato Fabius, nel corso di una conferenza stampa convocata all'ultimo momento al Quai d'Orsay a Parigi' - la Francia proporra' un progetto di risoluzione che punta a concretizzare immediatamente le sue idee: condannare il massacro del 21 agosto commesso dal regime siriano, fare piena luce su programma di armi chimiche, fare in modo che venga istituito un sistema di ispezione e controllo degli obblighi assunti dal regime, prevedere sanzioni estremamente serie in caso di violazione di questi obblighi, sanzionare i responsabili del massacro del 21 agosto davanti alla giustizia internazionale penale''. ''Servono risultati rapidi'', ha avvertito Fabius.

 

Francia teme 'manovra' russa sia diversivo - ''Non vogliamo'' che la proposta russa sulla Siria ''possa essere utilizzata come ''manovra diversiva''. Per questo, ''presenteremo oggi stesso alle Nazioni Unite un progetto di risoluzione che contiene le nostre idee'': e' quanto ha annunciato il ministro degli Esteri, Laurent Fabius.

 

Fabius, tutte le opzioni sono ancora sul tavolo - "Tutte le opzioni sono ancora sul tavolo". Il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, nel corso di una conferenza stampa a Parigi, ha risposto così a chi chiedeva se l'ipotesi di eventuali raid contro il regime di Bashar Al Assad fosse ancora preso in considerazione dalle autorità francesi.

 

Iran sostiene proposta russa - L'Iran sostiene la proposta della Russia di lavorare con Damasco per mettere il suo arsenale chimico sotto il controllo della comunità internazionale. Lo riferisce la portavoce del ministero degli Esteri iraniano. L'Iran "sostiene la proposta di Mosca per mettere fine alla crisi in Siria evitando qualsiasi intervento militare", ha detto Marzieh Afgham. "Vogliamo che la nostra regione sia liberata dalla presenza di armi di distruzione di massa. Questi sforzi devono includere anche le armi chimiche nelle mani dei ribelli siriani", ha aggiunto la portavoce del ministero degli Esteri iraniano.

 

Petrolio: giù a 108 dollari dopo calo tensione su Siria - Un attacco degli Stati Uniti alla Siria sembra allontanarsi con la diplomazia che si è messa in moto e gli effetti si fanno sentire sul mercato del petrolio. Il greggio Wti scivola dell'1,2% a 108,2 dollari al barile dopo che già ieri era sceso sotto la soglia dei 110 dollari. Ribasso anche per il Brent (-1%) a 112,6 dollari.

 

La crisi siriana potrebbe essere a una svolta. Il governo di Assad ha infatti accolto favorevolmente la proposta russa, annunciata dal ministro degli esteri, Serghiei Lavrov, di consegnare il proprio arsenale chimico alla comunita' internazionale. Una decisione che Barack Obama in serata ha definito "uno sviluppo potenzialmente positivo" e che Mosca e Damasco sperano possa bloccare l'iniziativa Usa di un intervento militare, mentre il voto al Senato Usa, si apprende in serata, slitta in la'. Da Washington - dove regna un generale scetticismo - arriva comunque un segnale di apertura: ''Esamineremo in maniera approfondita la proposta russa''. E il presidente Barack Obama commenta: ''Se è reale'', dice, ''è uno sviluppo potenzialmente positivo, e' possibile che eviti l'attacco militare'', ha detto alla Cnn, sottolineando pero' come sia necessaria la massima prudenza. Una svolta che potrebbe cavare d'impaccio Obama, il quale ha ammesso di non avere i voti necessari al Senato dicendo di "non essere molto fiducioso che la mozione possa essere approvata". Una svolta subito colta anche dal capogruppo democratico alla camera alta del Congresso, Harry Reid, rinviando lo spinoso voto. "Immagino che il Congresso avrà bisogno di tempo per prendere le decisioni giuste, penso a settimane", ha detto poi Obama, intervistato stasera da varie tv americane. Intanto, il segretario di Stato, John Kerry, ha gia' sentito telefonicamente il suo omologo russo. Ma sia Casa Bianca che Dipartimento di Stato avvertono: vogliamo vedere le carte, ma non siamo disposti ad accettare perdite di tempo. Lo stresso Obama avverte: ''No a tattiche dilatorie che riportino la situazione allo stallo''.

 

A innescare gli ultimi sviluppi e la proposta di Mosca e' stata proprio un'uscita del capo della diplomazia americana, nel corso di una conferenza stampa a Londra. ''Assad - ha detto Kerry - potrebbe evitare un attacco consegnando le sue armi chimiche alla comunita' internazionale entro la settimana prossima''. In molti hanno subito visto in queste dichiarazioni un'apertura da parte dell'amministrazione statunitense. Tanto che il Dipartimento di Stato - temendo che le parole di Kerry potessero mettere in imbarazzo la Casa Bianca - e' intervenuto per correggere il tiro: ''Quella del segretario di Stato era solo un' argomentazione retorica, perche' Assad e' un dittatore brutale di cui non ci si puo' fidare''. Fatto sta che a stretto giro di posta da Mosca e' arrivata - nel corso di una conferenza stampa congiunta - la doppia dichiarazione dei ministri degli esteri russo e siriano. Lavrov ha invitato Damasco a raggiungere un accordo per mettere i propri depositi di armi chimiche sotto il controllo internazionale, con l'obiettivo di distruggerle. Al regime di Assad e' stato anche chiesto di aderire pienamente all'organizzazione internazionale per il divieto delle armi chimiche con sede all'Aja. Il ministro degli esteri siriano, Walid al Muallim, non ha perso tempo: ''Prendiamo in seria considerazione l'offerta del ministro Lavrov e abbiamo quindi deciso di accogliere l'iniziativa russa. Per noi - ha aggiunto il capo della diplomazia di Assad - le vite dei nostri cittadini e la sicurezza del nostro Paese sono una priorita'. E confidiamo nella saggezza delle autorita' russe che stanno cercando di evitare un'aggressione americana contro il nostro popolo''. A questo punto - a tre giorni dalla drammatica spaccatura registratasi al G20 di San Pietroburgo - tutto sembra tornare in gioco. Con i nuovi sviluppi salutati con grande soddisfazione dal segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon: ''Tra le proposte che intendo fare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - ha detto - c'e' quella di inviare immediatamente le armi chimiche presenti in Siria in un posto sicuro all'interno del Paese dove possono essere distrutte''. E anche la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, l'hanno giudicata interessante.

 

 

Guerra Siria, Italia aspetta Onu

per dare l’appoggio.

Ma sottobanco vende armi

 

Roma che ora caldeggia una soluzione pacifica sotto le insegne delle Nazioni unite, ha contribuito ad armare il regime di Damasco. Come? Da una parte vendendo partite di armi leggere più facili da piazzare e smerciare. Dall'altra facendo affari non direttamente con Assad ma rifornendo i Paesi confinanti: Turchia, Iraq e Israele

 

ilfattoquotidiano.it  di Thomas Mackinson - 2 settembre 2013

 

Dopo Libia ed Egitto, la Siria. L’Italia che ora, nelle parole del premier Letta e del ministro degli Esteri Bonino, caldeggia una soluzione pacifica sotto le insegne dell’Onu ha contribuito ad armare il regime di Damasco e i ribelli che si fronteggiano da due anni lasciando a terra 90mila vittime. Il contributo italiano è passato sotto traccia perché le forniture non hanno riguardato tanto le armi pesanti come i sistemi di puntamento per i carri russi, che pure abbiamo venduto alla Siria fino al 2009 per oltre 230 milioni di euro. Il meglio, si fa per dire, l’Italia l’ha dato vendendo partite di armi leggere, più facili da piazzare e smerciare ma anche “le più pericolose tra le armi di distruzione di massa”, come ha denunciato Kofi Annan. Siamo tra i primi produttori al mondo. Quante ne abbiamo vendute nella regione del conflitto nei tre anni d’embargo ancora non si sa. Secondo le fonti ufficiali, come le relazioni del governo sull’export, nessuna. Da alcune prove empiriche, su tutte il boom di ordini e fatturati delle aziende italiane verso la regione, la realtà è molto diversa. Ecco come, quanto e perché. 

 

Basta disarmare l’etichetta. E l’embargo è aggirato


I dati ufficiali si riferiscono infatti alle armi ad uso bellico, come prevede la legge 195 del 1990. Per aggirarla, però, basta far passare semiautomatiche, fucili a pompa e relative munizioni come forniture destinate a corpi di polizia e gruppi di sicurezza. La commessa ricade così nella ben più accomodante legge del 1975, che non prevede comunicazioni obbligatorie al Parlamento e consente ai container di uscire dal radar dei controlli e dagli elenchi delle contabilità ufficiali. E’ successo diverse volte, l’ultima nel 2009, in Libia. Nel distretto delle armi di Brescia, quell’anno, si registrò un’exploit da 8 milioni di euro nelle forniture in direzione di Gheddafi. A Roma, Bruxelles e Washington – almeno ufficialmente – nessuno sapeva nulla. Solo il passaggio dei container presso le autorità maltesi e l’insistenza della Rete italiana disarmo permisero di rintracciare gli 11mila “pezzi” marcati Beretta che erano destinati all’esercito ma formalmente richiesti dal colonnello incaricato della pubblica sicurezza di Tripoli. Quale uso ne avrebbe poi fatto il regime libico è storia. Ma la storia si ripete, stavolta a Damasco. Una spia è stata la vendita da parte di Selex al governo siriano di un sistema di controllo delle informazioni. La vicenda è emersa l’anno scorso a seguito di un cablo di Wikileaks. Una nota di Finmeccanica ha poi spiegato che la commessa era precedente l’esplosione delle violenze e il conseguente blocco e quindi l’azienda non si riteneva responsabile se Damasco ne avesse fatto un uso “militarizzato”. Anche i successivi contatti registrati dal cablo a ridosso dell’embargo erano finalizzati solo al recupero dei crediti. Ma l’episodio aprì una breccia sul metodo.

Le esportazioni di armi e munizioni verso i paesi confinanti con la Siria

 

L’aumento delle esportazioni verso i paesi confinanti con la Siria


L’arte di aggirare gli embarghi prevede poi un’altra opzione: venderle al vicino. L’Europa che ora si mostra scossa dall’uso di gas sui quartieri orientali di Damasco e prepara un intervento militare ha continuato finora a rifornire di armi e munizioni i confini siriani. Lo documentano, questo sì, i rapporti ufficiali dell’Unione europea: la Turchia, ad esempio, è passata da 2,1 milioni di euro di importazioni di armi leggere europee del 2010 agli oltre 7,3 milioni del 2011; Israele da 6,6 milioni a oltre 11 milioni e addirittura l’Iraq da meno di 3,9 milioni a quasi 15 milioni. Il rapporto 2012 non è stato ancora pubblicato, ma diverse relazioni nazionali confermano l’incremento delle esportazioni verso paesi confinanti con la Siria. E l’Italia non fa eccezione. “Abbiamo rilevato una strana e sospetta anomalia nei dati che riguardano i paesi confinanti”, spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente armi leggere e politiche di sicurezza e difesa di Brescia (Opal). La riprova è contenuta nei dati Istat relativi a ordinativi e fatturati del distretto bresciano delle armi negli ultimi tre anni: le forniture verso il Libano sono passate da 145mila euro a 1,2 milioni, quelle verso Cipro da 864mila a 1,1 milioni, verso Israele da 2,3 a 2,5, ma soprattutto verso la Turchia che in quattro anni ha decuplicato gli ordinativi, passando da meno di 1,7 milioni a 36,5. In totale l’area intorno alla Siria è passata dagli 8,2 milioni del 2009 ai 42 milioni del 2012. 

 

Fortissimo il sospetto che siano rifornimenti destinati ad alimentare il conflitto in Siria e su entrambi i fronti, ribelli e regime. “A meno che non si voglia credere che siano di tipo sportivo, per la caccia o per la difesa personale”, accusa Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal che sollecita un’interrogazione parlamentare sulla vicenda. Perché l’opacità nelle informazioni chiama in causa il governo, le imprese italiane e l’Europa. “È gravissimo – continua l’esperto – che l’Italia, tra i maggiori produttori mondiali di queste armi, continui a comunicare all’Unione europea cifre che non trovano riscontro né nelle relazioni governative inviate al parlamento né nei dati sulle esportazioni di armi forniti dall’Istat”.

 

Rete italiana disarmo punta il dito contro un sistema di regole che sembra fatto apposta per aiutare industrie spregiudicate, anche partecipate dallo Stato, ad aggirarle. “Le continue esportazioni di armi leggere verso i paesi confinanti con la Siria – dice Francesco Vignarca, coordinatore di Rid – evidenziano che gli stati membri dell’Ue sono ancora lontani dall’applicare le norme che di comune accordo hanno deciso di adottare per promuovere la pace e la sicurezza. Come hanno dimostrato i casi delle forniture di armi alla Libia, all’Egitto e oggi alla Siria, l’inosservanza delle normative comunitarie sull’export di armi finisce con l’alimentare tensioni e conflitti con il conseguente carico di vittime e di profughi”.

 

 

Guerra in Siria, gli interessi economici e strategici

 

Americani contro russi.

Occidente contro ayatollah.

Sunniti contro sciiti.

Le ragioni dell'intervento.

Obama pronto al blitz

 

Lettera 43 di Giovanna Faggionato - 28 Agosto 2013

 

A parole i missili sono già pronti sulle rampe. Ma non è detto che la guerra in Siria alla fine sia veramente combattuta. Non solo perché il portavoce di Barack Obama ha fatto sapere che non valuta opzioni per «un cambio di regime».


Al contrario dell'Iraq e della Libia, all'ombra dei minareti di Damasco non ci sono giacimenti di oro nero per cui mandare uomini a morire. Dal punto di vista delle risorse, la Siria possiede briciole e tutto attorno ha montagne di idrocarburi.


UN DECIMO DEL PETROLIO DEI VICINI. Secondo la Energy information administration americana (Eia), a gennaio 2013 la Siria produceva solo 150 mila barili al giorno di petrolio, quando Iraq e Iran ne sfornavano oltre 3 milioni ciascuno.


Certo, con la guerra civile la produzione dello Stato si è dimezzata, ma anche considerando i livelli preconflitto (385.297 barili al giorno a gennaio 2011), si tratta di poca cosa. Lo stesso vale per il gas: Damasco sforna 'solo' 26 mila barili al giorno rispetto ai 152 mila del Kuwait o ai 345 mila del Qatar.


UN MERCATO RISTRETTO E POVERO. Povera dunque, tra i ricchi Stati mediorientali, la Siria non si configura nemmeno come un obiettivo commerciale: nel panorama globale, osservano unanimemente gli analisti, un mercato di 20 milioni di abitanti (i cittadini del Paese erano 22 milioni nel 2012) non vale abbastanza per cominciare una guerra.


ECONOMIA A RISCHIO STOP. Guerra che, peraltro, solo a essere nominata con insistenza, fa già oscillare pericolosamente le Borse e rischia di mandare il prezzo del petrolio alle stelle, arrestando la fragilissima ripresa europea (per non dire quella italiana: non a caso Roma è intenzionata a tenersi alla larga dal conflitto). Oltre a costare parecchio alle tasche impoverite dei contribuenti, sulle due sponde dell'Atlantico.

 

Le ragioni di un intervento, con l'eccezione forse del Qatar, vanno dunque cercate in obiettivi strategici di più lungo periodo. In equilibri di potere e antichi domìni dell'area. In esibizioni di grandeur. E nella ricerca di una credibilità perduta.

 

Il Qatar sogna un gasdotto in Siria, sbocco verso l'Europa

 

Il solo Paese che potrebbe sperare in un reale guadagno economico da un eventuale guerra in Siria è il Qatar. Per gli affari dello sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, il regime di Bashar al Assad, legato a doppio filo alla Russia di Vladmir Putin, è un ostacolo rilevante.


Il Qatar condivide con l'Iran la sovranità sul più grande giacimento di gas naturale al mondo: il South Pars - North Dome field, un bacino di gas naturale da 51 mila miliardi di metri cubi (pari al 20% delle riserve mondiali), da cui Doha ricava gran parte della sua ricchezza.


LA CONCORRENZA CON LA RUSSIA. Il Qatar oggi è il terzo produttore di gas naturale al mondo, dopo Russia e Iran. Ma le sue esportazioni (77 milioni di tonnellate all'anno) sono dirette soprattutto verso l'Asia.


Per arrivare all'Europa infatti Doha avrebbe bisogno che un gasdotto trasportasse il suo gas attraverso la Siria, provvista di sbocco sul mare Mediterraneo. Damasco, sotto pressione degli alleati russi, si è sempre opposta al progetto.


Il gasdotto sarebbe una rivoluzione in termini geopolitici. E per l'Europa dipendente dai rubinetti di Vladimir Putin sarebbe anche un alleggerimento di costi molto importante.


IL VETO DELLA RUSSIA. Tuttavia, che si arrivi «a una soluzione simile è improbabile. Innanzittutto perché prima bisognerebbe vincere una guerra rischiosa e complessa», ha spiegato a Lettera43.it Eugenio Dacrema, ricercatore dell'Istituto per gli studi di Politica internazionale (Ispi). «Ma anche perché quello sul gasdotto sarebbe il primo veto che la Russia metterebbe al momento della ricostruzione».

 

Le monarchie sunnite lottano contro l’influenza sciita

 

La questione è così delicata che si mormora che il principe Bandar al Sultan, capo dei servizi segreti dell'Arabia Saudita, già vicinissimo a George W. Bush, abbia cercato di convincere Mosca a smettere di proteggere Assad assicurando che comunque il gasdotto qatariota non si sarebbe fatto. Ma Mosca non ha abboccato.


I SUNNITI COMPATTI CONTRO LA SIRIA. Arabia Saudita e Qatar, rappresentati rispettivamente del wahabismo integralista sunnita e di un islam sunnita più moderato e riformatore - e spesso su posizioni internazionali distanti - sulla Siria sembrano marciare compatte.
La levata di scudi congiunta contro Assad, uno sciita della setta alawita, si inserisce nella ricerca di un dominio sunnita sul mondo arabo, da sempre diviso a livello confessionale tra sciiti e sunniti.


LO SCONTRO SETTARIO CON GLI SCIITI. Per bin Khalifa e re Abudllah, vincere la guerra in Siria significa infatti vincere una battaglia di potere e influenza che risale addirittura ai tempi delle crociate. E che vari fattori, tra cui gli interventi dell’Occidente - ultimo quello della guerra in Iraq con cui gli americani rovesciarono il regime sunnita di Saddam Hussein - hanno contribuito a modificare.


IL RISCHIO DI UN EFFETTO DOMINO. La prova anche economica dello scontro è che il gasdotto negato al Qatar, il regime di Damasco intende invece costruirlo con gli altri due governi sciiti dell'area, cioè Iran e Iraq. 


«L'effetto domino di una guerra settaria tra sciiti e sunniti, in parte già in atto in Medio Oriente in Iraq e Siria, è il pericolo maggiore» di un possibile conflitto dell'Occidente contro Damasco, ha spiegato a Lettera43.it Stefano Silvestri, analista di questioni di sicurezza e difesa ed ex presidente dell'Istituto affari internazionali (Iai).

 

Gli Stati Uniti devono arginare la Russia e si giocano la credibilità

 

Per gli Stati Uniti risulta difficile comprendere bene gli interessi che trarrebbero da un possibile intervento in Siria: formalmente hanno tutto da perdere, dal punto di vista strategico ma anche economico. Un conflitto potrebbe costare carissimo agli Usa, che già battagliano in Congresso su misure di austerity e tetto al deficit.


L'INFLUENZA DEL VECCHIO BLOCCO. Di certo, però, nella Guerra fredda che ancora scorre sottotraccia tra Russia e America, la Siria è un tassello importante: l'ultimo avamposto del blocco dell'ex Urss in Medio Oriente, sbocco sul Mar Mediterraneo e territorio di confine e di battaglia tra tutte le potenze della regione.


Soprattutto, alleato di ferro dell'Iran degli ayatollah. Con cui il mondo occidentale (e Israele), è in perenne conflitto.


Non perdere il controllo della Siria è una questione di stabilità regionale. E anche di credibilità. Specie in un momento in cui la sfida con la Russia è alle stelle.


LA PROMESSA SULLA LINEA ROSSA. «La verità è che dal punto di vista economico non c'è nulla da guadagnare», ha dichiarato a Lettera43.it Philippe Moreau De Farges, politologo e analista dell'Institut français des relations internationales. «L'amministrazione americana, così come quella francese rischia invece di perdere la sua credibilità», ha aggiunto.


LA GUERRA OBBLIGATA. Perché tutte le linee rosse poste da Obama sono in effetti state sorpassate. «Prima i bombardamenti aerei, poi i quelli sui civili nella battaglia di Aleppo, oggi le armi chimiche», ha riassunto Dacrema.


Per gli Usa la vera posta in gioco è la credibilità, merce che nelle relazioni internazionali vale oro. «L'unica ragione per cui l'America potrebbe intervenire militarmente insomma è che ha detto che lo avrebbe fatto», ha concluso Moreau de Farges.

 

Francia e Gran Bretagna, guerra di influenza sul Mediterraneo

 

Gran Bretagna e Francia, le sole potenze politiche militari dell'Europa che spingono (come già per la Libia) per un conflitto, hanno problematiche e obiettivi simili.

           
Si giocano il loro status di potenze, in un mondo in cui il Vecchio continente conta sempre meno.
Né Londra né Parigi hanno particolari interessi economici in Siria (il primo partner commerciale di Damasco in Ue è l'Italia, seguita dalla Germania), ma la loro è una strategia di largo respiro, allargata al Medio Oriente e al Mediterraneo.


LA STRATEGIA DI PARIGI. La relazione francese con la Siria è stata a dir poco tormentata. Sotto la lunga presidenza di Jacque Chirac, sostenitore del governo sunnita del Libano, Parigi  ha rotto ogni rapporto con Damasco. Ma nel 2008 l'iperattivo Nicolas Sarkozy ha istituito l'Unione euromediterranea e riaperto i canali diplomatici con Damasco.


I rapporti sono stati interrotti nuovamente dalla guerra civile. Ma con gli interventi in Libia e in Mali la Francia è tornata a sognare in grande.


UNA GUERRA DI INFLUENZA. «Per Parigi si tratta soprattutto di costruire credibilità, influenza e visibilità. In Siria e nell'intera regione», ha spiegato Mansouria Mokhefi, responsabile del programma del Medio Oriente dell'Institut français des relations internationales.
Londra e Parigi inoltre hanno il vantaggio di poter invocare un intervento a cuore più leggero. E alleggerendo il portafoglio altrui. «La spesa di una missione lampo, da compiere perlopiù attraverso missili e raid», ha rilevato Silvestri, «ricadrebbe in gran parte sugli Stati Uniti».

 

 

Che succede con la Siria

 

Da tre giorni un attacco comincia a diventare probabile

e ci sono dichiarazioni e iniziative ufficiali:

la Russia è contraria, la Cina attende l'esito delle ispezioni ONU

 

 

Lunedì 26 agosto, gli ispettori delle Nazioni Unite in Siria hanno iniziato la loro visita a Ghouta, la zona a est di Damasco dove si sospetta siano state utilizzate armi chimiche nel corso di un attacco effettuato mercoledì 21 agosto in cui sono morte centinaia di persone. Il permesso per visitare l’area da parte del regime di Bashar al Assad è stato dato con molti giorni di ritardo, tanto da fare sospettare che tempi così lunghi abbiano permesso di nascondere le prove dei presunti bombardamenti con armi chimiche.

 

L’area di Ghouta è contesa tra i ribelli e le forze di Assad, che hanno consentito una tregua per rendere possibili le ispezioni. I rappresentanti dell’ONU hanno il compito di visitare sia le zone governate dal regime, sia i territori controllati dai ribelli, che da mesi cercano di avvicinarsi a Damasco. La visita è stata resa possibile dopo molti giorni di negoziati e grazie all’intervento diretto di Angela Kane, capo della sezione delle Nazioni Unite che si occupa del disarmo.

 

Nella mattina di lunedì 26 agosto, uno o più cecchini hanno sparato contro uno dei veicoli del convoglio delle Nazioni Unite che trasportano gli ispettori. Non ci sono stati feriti e l’automezzo è stato sostituito per consentire agli ispettori di proseguire la loro visita. Non è ancora chiaro chi abbia sparato, ma le Nazioni Unite hanno comunque rinnovato l’invito a collaborare sia all’esercito siriano sia alle forze di opposizione.

 

I 20 ispettori ONU si trovano in Siria dal 18 agosto scorso, ma fino a ora non hanno avuto molte possibilità per visitare le aree di guerra in cui si sarebbero verificati altri attacchi con armi chimiche. Il loro compito è di stabilire se siano state utilizzate o meno armi vietate dai trattati internazionali, come il gas nervino, attraverso l’analisi di prove ritrovate sul campo e di esami condotti sulla popolazione. Gli ispettori non hanno comunque il compito di stabilire chi abbia usato le armi chimiche, ma solo se queste siano state effettivamente utilizzate.

 

Secondo buona parte dei governi occidentali, il permesso per visitare l’area di Ghouta è arrivato molto in ritardo, e questo suggerirebbe che il regime di Assad stia cercando di nascondere la verità. Tra le posizioni più nette, dopo giorni di criticate affermazioni generiche, c’è ora quella degli Stati Uniti. Stando alle dichiarazioni di un funzionario della Casa Bianca, molto riprese dalla stampa statunitense, ci sono “pochissimi dubbi” sul fatto che le armi chimiche siano state utilizzate da Assad la scorsa settimana. Il permesso dato agli ispettori dell’ONU è stato definito “troppo tardivo per essere considerato credibile”.

 

Dopo avere chiesto per giorni l’immediata possibilità per gli ispettori ONU di visitare la zona di Ghouta, sabato 24 agosto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si è incontrato con i principali responsabili della sicurezza nazionale per discutere un’opzione militare contro la Siria.

 

Il New York Times riferisce che da giorni circola una lista di possibili obiettivi in territorio siriano, un elenco preparato dal Pentagono e in cui sono compresi diversi siti dove si pensa siano stoccate le armi chimiche della Siria, che fu uno dei pochi paesi a non aderire alla convenzione internazionale del 1997 che ne bandì l’utilizzo, e si pensa che abbia quindi ancora grandi scorte di iprite (gas mostarda) e sarin (gas nervino). L’elenco è una versione aggiornata della lista preparata già alcuni mesi fa dal Pentagono: oltre ai siti di stoccaggio comprende altri obiettivi come edifici dell’esercito e palazzi governativi. L’attacco, che ufficialmente non è stato ancora deciso, sarebbe realizzato attraverso il lancio di missili Cruise dalle navi da guerra statunitensi nella zona, almeno in una fase iniziale.

 

Domenica 25 agosto, Obama ha sentito telefonicamente il presidente francese François Hollande, con il quale si è confrontato sulle possibili reazioni della comunità internazionale a quanto accaduto a Ghouta: la Francia era stata nei giorni precedenti la più decisa nel minacciare e chiedere interventi. Il giorno precedente, Obama aveva parlato al telefono con il primo ministro britannico, David Cameron, per avere un quadro chiaro della sue posizioni in vista di una possibile coalizione per l’intervento, che di minima comprenda il Regno Unito e la Francia.

 

Come gli Stati Uniti, i due paesi fanno parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e potrebbero quindi proporre una risoluzione per l’intervento in Siria, anche se questa sarebbe con ogni probabilità bocciata dagli altri due membri permanenti Russia e Cina, più vicini al regime di Assad e intenzionati a opporsi agli interventi americani. Con le affermazioni di domenica, l’amministrazione Obama ha fatto comunque intendere che quello dell’ONU non è considerato un passaggio obbligato e che potrebbero quindi esserci soluzioni che non prevedano un suo coinvolgimento diretto, per sveltire i tempi e fermare il regime di Assad prima di nuovi attacchi con armi non convenzionali.

 

I sospetti sull’utilizzo di armi chimiche sono iniziati più di un anno fa, ma il governo siriano ha sempre negato di averne fatto uso, sostenendo semmai che siano stati i ribelli a usare armi chimiche contro esercito e popolazione. Sabato 24 agosto ha annunciato di avere sequestrato armi non convenzionali a un gruppo di ribelli, ma secondo diversi analisti appare alquanto improbabile che siano le opposizioni a usare gas nervino: non avrebbero le strumentazioni adeguate per lanciare i razzi che contengono il gas e nemmeno le capacità tecniche.

 

Nei giorni scorsi la Russia, alleato storico della Siria, ha accusato i ribelli di usare armi chimiche, ma non ha fornito particolari elementi per provarlo. Il portavoce del ministro degli Esteri russo ha detto che chi spinge per un intervento militare contro il regime sta arrivando a conclusioni affrettate, senza avere la pazienza di attendere le conclusioni cui arriveranno gli ispettori dell’ONU.

 

Il Segretario di Stato americano, John Kerry, domenica si è sentito telefonicamente con il ministro degli esteri russo, Sergej V. Lavrov, per aggiornarlo sulle posizioni del governo statunitense. Gli ha spiegato che ormai ci sarebbero pochi dubbi sul fatto che Assad abbia utilizzato armi chimiche e che il permesso per gli ispettori delle Nazioni Unite è stato tardivo, quindi inutile: “Se il regime siriano avesse voluto provare al mondo di non avere utilizzato armi chimiche, avrebbe smesso di bombardare la zona e avrebbe garantito accesso immediato agli ispettori cinque giorni fa”.

 

Nel corso di una conferenza stampa a Mosca, Lavrov ha detto che in Occidente è iniziata una campagna per promuovere un’incursione militare in Siria, anche in assenza di prove concrete sull’utilizzo delle armi chimiche da parte del regime siriano. Ha poi aggiunto che un qualsiasi intervento senza un mandato delle Nazioni Unite sarebbe considerato una grave violazione delle leggi internazionali. Lavrov ha invitato gli Stati Uniti e i suoi principali alleati ad attendere gli esiti delle ricerche degli osservatori dell’ONU vicino a Damasco.

 

Il governo cinese fino a ora è stato contrario a imporre sanzioni al regime di Assad, ma ha comunque confermato di essere contrario all’utilizzo di armi chimiche e di attendere i risultati delle indagini degli ispettori delle Nazioni Unite. Per la Cina il problema della guerra in Siria deve essere risolto politicamente, evitando un intervento militare esterno.

 

Dopo giorni senza particolari dichiarazioni, lunedì per la prima volta il governo tedesco ha fatto intendere che in presenza di prove chiare sull’utilizzo di armi chimiche da parte di Assad la Germania sarebbe a favore di un intervento militare contro la Siria. Il portavoce del cancelliere Angela Merkel, in campagna elettorale per un nuovo mandato (si vota il 22 settembre), ha spiegato che l’utilizzo di armi chimiche “deve essere punito”, se effettivamente riscontrato.

 

Oltre a respingere le accuse, il governo siriano ha annunciato minaccioso che un’azione militare di qualsiasi tipo contro la Siria creerebbe “una palla di fuoco tale da infiammare tutto il Medio Oriente”. Anche il governo iraniano ha parlato di serie conseguenze se fosse organizzato un attacco contro le forze di Assad. Per il governo israeliano, invece, “l’attuale situazione non può continuare”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha spiegato che “i regimi più pericolosi al mondo non possono avere le armi più pericolose al mondo” e ha aggiunto che il “regime di Assad è diventato a tutti gli effetti un cliente iraniano, e la Siria è diventato un campo di prova per l’Iran”.

 

Buona parte dei media statunitensi sono concordi sul fatto che ci sarà un attacco contro la Siria guidato dagli Stati Uniti. Già lo scorso anno Obama aveva spiegato che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe costituito il superamento di una “linea rossa”, implicando la possibilità di un intervento militare. Obama è stato però criticato per avere atteso a lungo prima di assumere una posizione netta sulla Siria come quella di domenica, considerato che già nei mesi scorsi erano circolate diverse notizie su attacchi condotti in territorio siriano con armi chimiche.

 (Il convoglio degli ispettori ONU in partenza da Damasco – AP)

 

 

 

Siria, sterminata famiglia con sei bambini

Infuria battaglia ad Aleppo

 

Ansa 21 luglio 2013, 22:29

Orrore in Siria. Un'intera famiglia sunnita di 13 persone con donne e sei bambini è stata sterminata in casa e i cadaveri sono stati dati alle fiamme. L'eccidio è stato scoperto nel villaggio costiero di Bayda dai ribelli, che ne hanno attribuito la responsabilità a miliziani fedeli al regime di Bashar Al Assad.

Regime che  ha lanciato un'offensiva militare per riprendersi la città di Aleppo, la seconda della Siria, che un anno fa fu attaccata e conquistata dalle forze ribelli. Le quali, sempre più divise al loro interno, da giorni si scontrano anche nel nord, per il controllo del territorio strappato al regime, fra milizie curde e jihadisti, in combattimenti culminati con la cattura ieri di un capo militare locale di Al Qaida da parte dei curdi, costretti però oggi a rilasciarlo in cambio della liberazione di "centinaia di civili curdi" da parte dei miliziani fondamentalisti.

Sull'eccidio di Bayda, l'ong Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh) riferisce la testimonianza degli abitanti del villaggio: "Un parente è venuto oggi a far visita ai suoi familiari e ha trovato i cadaveri degli uomini fucilati riversi all'esterno. All'interno di una stanza ha trovato le donne e dei bambini, i cui corpi erano stati bruciati". L'Osservatorio ricorda come in maggio Bayda aveva già subito lo sterminio di 50 abitanti e il vicino villaggio di Baydas di 60. I corpi, molti dei quali di bambini, in quell'occasione furono trovati bruciati e anche mutilati.

E mentre un'altra strage si è consumata ad Ariha, nella provincia di Idlib, dove altre 13 persone sono morte sotto le bombe del regime, e' di almeno 49 ribelli siriani uccisi dalle forze fedeli al regime di Damasco il bilancio odierno dei combattimenti attorno alla capitale, secondo l'Osservatorio siriano dei diritti umani. La ong, vicina all'opposizione, riferisce che i violenti combattimenti si sono verificati ad Adra, che è ancora sotto il controllo delle forze ribelli. La città è collegata a Damasco da una strada, che veniva usata dagli insorti per contrabbandare armi prima che fosse ripresa dall'esercito di Assad.

 

Siria, la “democrazia” può attendere

 

 

La particolarità della guerra in Siria è che ogni giorno la situazione cambia. E non sempre al meglio. L’impressione, da almeno sei mesi a questa parte, è che a fare la differenza non siano più i ribelli dell’Esercito Siriano Libero (ESL), bensì i gruppi radicali che spesso e volentieri hanno interessi diversi da quelli per i quali tutto è iniziato.

 

La rivoluzione “romantica” per il rispetto dei diritti umani, l’uguaglianza e la libertà è solo un lontano ricordo dei tempi andati. O per lo meno una prerogativa di pochi, che per lo più vivono in Turchia o in Occidente, Italia compresa. È diventato difficile sentire da chi è impegnato al fronte queste parole. L’unica parola ricorrente, da sei mesi a questa parte, è “alawita”. Non ci sono più i buoni e i cattivi, i forti e i deboli. Il conflitto, sempre più settario, è solo una questione tra sunniti (i ribelli) e alawiti (il gruppo religioso del presidente Bashar al-Assad che domina il Paese).

Niente di sconvolgente, purtroppo. Il conflitto va avanti da quasi due anni e mezzo. Tanti, abbastanza da far radicalizzare anche chi è sempre stato, o si è sempre definito, moderato. La popolazione civile che ha deciso di non fuggire nei campi profughi dei Paesi confinanti o è tornata a casa dopo mesi di “esilio”, si trova a fronteggiare violenze di ogni genere. Quotidianamente e senza distinzioni. Non più solo da parte del regime, ma anche da parte dei tanti gruppi di criminali che si nascondono sotto la bandiera dell’ESL. Un problema che i capi militari dell’opposizione hanno ben presente ma di cui non riescono a venire a capo.

 

Ma chi ci racconta di una Siria che combatte per difendere il diritto di tutti alla libertà, probabilmente in Siria non c’è mai stato. O per lo meno negli ultimi tempi. I ribelli dell’Esercito Siriano Libero non sono più uniti. Non lo sono mai stati, ma fino allo scorso ottobre, quando la guerra ancora infuriava, gli scontri erano quotidiani in tutto il Nord e le energie principali venivano spese a combattere, non si uccidevano tra loro. Poi, quando la guerra è diventata statica, le posizioni “quelle” e la situazione, almeno sul fronte dei combattimenti “vis-à-vis”, hanno iniziato a litigare tra loro per chi doveva controllare “cosa” e “dove”. Molti dei cittadini che se ne erano andati da Aleppo durante i combattimenti sono tornati nelle loro case agli inizi di ottobre e se non erano distrutte le hanno trovate saccheggiate. Con l’alto numero di ribelli che giravano armati è stato difficile per loro collegare quei furti a criminali qualsiasi. Hanno subito puntato il dito contro quei giovanotti armati. Ovviamente senza prove, ma non è bastato a far declinare la reputazione dei ribelli verso una popolazione civile che nello stesso momento si è dovuta trovare anche a far fronte al taglio di acqua e luce. Insomma, una popolazione stremata e impaurita non solo dalle bombe del regime ma anche dal freddo inverno in arrivo. Che non ha capito, in una situazione così drammatica, le lotte di potere tra le varie fazioni dell’ESL.

 

Le Corti Islamiche facenti capo a quello o quell’altro gruppo, più o meno potente, hanno iniziato ad arrestare interi battaglioni di ribelli. Quelli che avrebbero dovuto amministrare le aree cosiddette “liberate” hanno iniziato uno stillicidio ritorsioni reciproche. Un gruppo arrestava un altro e così via, creando un senso di confusione difficile da capire. Tutto questo ha contribuito a rendere ancora più profondo il senso di disprezzo da parte di chi non voleva stare né da una parte né dall’altra, ma senza volerlo si trovava in mezzo.

 

Per questi motivi - e altri - ha trovato vita facile l’estremismo, che in questi casi diventa armato e religioso. Quell’estremismo che taglia le mani a chi ruba e uccide chi è accusato di essere una spia. Senza tentennamenti. Spesso e volentieri in nome di Dio. Non è una novità che la popolazione civile, esasperata da una guerra che non vede fine, si sia messa dalla parte dei “cattivi”. Il numero dei combattenti volontari di Jabhat al-Nusra, il braccio di Al Qaeda in Siria, considerata un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti, ha iniziato a crescere. È grazie poi ai petrol-dollari che riceveva e riceve dai paesi del Golfo (Arabia Saudita in testa) che questa fazione ha iniziato uno sforzo “umanitario” per aiutare la popolazione in difficoltà, distribuendo farina per il pane e punendo chi commetteva crimini o anche semplici torti, come saltare la fila per il pane, che però facevano infuriare i civili, già con i nervi a fior di pelle

Accanto a Jabhat al-Nusra, a stragrande maggioranza composta da siriani, è nata la brigata el-Muhajirin, “i migranti”, ossia una formazione estremista composta da “mujahedin” provenienti dall’estero. Il loro unico obiettivo è ash-Sham, la grande Siria. E il regime di Bashar al-Assad è solo un ostacolo a questo scopo. Al suo interno è composta dal gruppo dei ceceni, dei libici, dei tunisini. E molti altri. Oltre che dagli europei, tra cui alcuni italiani, per la maggior parte con doppia cittadinanza. Gente che combatte per una ideologia religiosa più che per una Siria libera e democratica. Il villaggio al confine di Atme, tristemente famoso per il campo profughi di sfollati interni, oggi sembra una piccola Kandahar ai tempi dei talebani, con combattenti stranieri che vestono kurta, pakol e kalashnikov. E ovviamente donne in giro da sole non se ne vedono.

 

Quale sia ad oggi il vero potere dei ribelli più “moderati” è difficile da capire. Come del resto è difficile capire cosa e dove controllano. I casi di rapimento/detenzione di giornalisti da parte dei gruppi più radicali non si contano più. Nella maggior parte dei casi il rilascio avviene dopo qualche giorno senza grossi problemi. O per lo meno fino ad adesso.

 

Ma c’è anche il caso dei sette giornalisti che sono spariti nel nulla e con loro cinque operatori umanitari. In totale, mancano all’appello, 13 occidentali. Se siano stati presi dal regime o da qualche gruppo della galassia radicale nessuno lo sa. L’ultimo caso è quello di un paio di settimane fa, quando due giornalisti francesi sono stati rapiti sulla strada per Aleppo. L’autista ha detto che si trattava di “criminali”. Ma chi ad Aleppo ha lavorato sa benissimo che un check-point gestito da criminali sulla strada Mareea–Aleppo dove viaggiano centinaia di macchine di combattenti ogni giorno è semplicemente poco credibile. È più probabile un gruppo di Islamisti o di governativi. In questo secondo caso sarebbe una conferma in più che i ribelli non riescono a controllare le zone che hanno conquistato. E non stiamo parlando di un villaggio nella campagna di Idlib ma della strada principale tra il confine Turco di Kilis ed Aleppo. (1 – continua).

 

In Siria, Freedom 4566

rifiuta di essere indotto al silenzio


OWNI.eu  9 marzo 2012


Noi lo chiameremo Abu Jaffar. Per motivi di sicurezza non vuole essere identificato con il suo vero nome o fotografato. Ci siamo incontrati sul lato turco del confine tra Siria e Turchia. Tra gli sbuffi del narghilè, spiega a OWNI come lui e i suoi amici siano andati ad infoltire le fila di una unità di supporto della rivoluzione siriana, specialmente nelle aree di Latakia e Jisr al - Shughour a Jabal al - Zawiya

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Quali sono state le circostanze che attraversano la frontiera turca?


Avevo un amico, il suo nome era Mohamed Sabaq. Parlo al passato, perché il mio amico è morto a causa di un colpo di pistola alla testa, che gli ha strappato l'intera parte posteriore del cranio, il 27 dicembre 2011. Aveva appena attraversato il confine con la Turchia, in realtà era 100 metri all'interno del territorio turco. Aveva 29 anni. Lo conoscevo da scuola, eravamo vicini di casa. Abbiamo apprezzato insieme la visione di film d'azione, ma in silenzio, non come altri siriani che chiacchierano durante un film. Mohamed era sempre tranquilla e riservato, mai una parola detta fuori posto. Penso a lui ogni giorno.

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Come è organizzato il lavoro che stai facendo?


Sono responsabile della logistica. Mohamed, era un ingegnere a Latakia, ed è stato il responsabile del progetto tecnico. Lui era quello che postava i video su YouTube, tutti i video pubblicati per “Freedom 4566”. (Nota dell'editore: ci sono oltre 400 video , con descrizioni arabi, che la repressione quotidiana in Siria . Alcuni dei video sono estremamente grafico). In un primo momento lo facevo da casa, poi abbiamo deciso di dirigerci verso Erber Jaway al fine di utilizzare l’internet turco. Abbiamo avuto in dotazione computer portatili, plug-in di Internet 3G, e tutti avevano un iPhone. Questa apparecchiatura è rapidamente diventata il nostro hardware standard per l'invio di immagini e per le comunicazioni. La registrazione delle immagini, organizzata da Mohamed sono state fatte in seguito a dei corsi di formazione per l’Esercito siriano libero, e a tutti coloro che volevano partecipare.

 

Quando abbiamo bisogno di rifornirci, andiamo in Turchia. Tutta l'attrezzatura è stata finanziata da siriani che vivono all'estero, tra cui due medici negli Stati Uniti che non vogliono comparire. Il denaro è stato inviato a noi tramite Western Union. Siamo tornati in Siria e in questo momento abbiamo iniziato a coprire un po’ meglio Latakia e Al- Qusayr .


Avete notato nulla che dimostri che le vostre comunicazioni vengano monitorate dai servizi siriani?


Non posso dire molto circa la nostra sicurezza delle informazioni. Di sicuro, cambiamo le password di frequente. Il nostro piccolo gruppo si è cominciato ad espandersi. Avevamo bisogno di persone attive e veloci come gli studenti, così siamo stati raggiunti da alcuni altri nostri amici. C'era Anas , Bashir e Tariq . Ho continuato a svolgere il mio ruolo logistico, andando avanti e indietro per la Turchia per acquistare macchine fotografiche e computer e recuperare i fondi. Siamo stati in grado di espandere le nostre operazioni in Homs , Jisr al - Shughour e in altre città.

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Anas e Bashir sono stati responsabili per la zona di Jisr al - Shughour. L'ultima volta che li abbiamo sentiti, è stato poco prima che l'esercito assaltasse la città. Eravamo molto preoccupati, dopo tutto quello che avevamo visto. Qualcosa di terribile deve essere successo. Dieci giorni dopo, li abbiamo visti nella televisione siriana ufficiale. Avevano confessato di essere terroristi. Hanno mostrato i luoghi in cui operavano. Non avevano segni sui loro volti, ma qualcosa era cambiato nelle loro espressioni. Li conoscevo bene, sapevo che non erano in loro. Abbiamo immediatamente inviato le loro foto ai canali televisivi arabi, Al Jazeera , Al Arabia. Abbiamo bisogno di creare la massima pubblicità possibile, per evitare che li uccidano. Il regime è più attento quando si tratta di personaggi noti.

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Altri attivisti hanno sostituito tuoi compagni imprigionati?


Abbiamo dovuto ricostruire l'unità. Abbiamo reclutato nuove persone e ha iniziato daccapo. Questa volta abbiamo operato fuori Ramel, il campo profughi palestinese di Latakia. C'era Abu, un palestinese, e Abdel Ibrahim. Hanno organizzato la raccolta fondi, per ricevere aiuti dall'estero, dalla Francia, dagli Stati Uniti e dall'Arabia Saudita. Quando l'esercito ha attaccato il campo ci ha messo tre giorni per prenderne il controllo. In quei tre giorni hanno trasmesso le immagini in diretta dei combattimenti. Sono stati tutti arrestati alla fine. Abbiamo fatto di nuovo la stessa cosa come avevamo fatto per i miei amici, abbiamo inviato le loro foto ai maggiori canali televisivi per proteggerli.

 

In un primo momento, Abu Jaffar era depresso e arrabbiato per aver perso i suoi amici. Da allora ha ripreso le operazioni dalla Turchia, ed è in attesa di ricominciare il lavoro all'interno della Siria .