USA

Hanno vinto i Repubblicani

 

E di parecchio: alle elezioni americane di metà mandato

hanno ottenuto la maggioranza al Senato,

per i prossimi due anni controlleranno l'intero Congresso

 

Senate Hopeful David Perdue Gathers With Supporters On Election Night
 
 

I Repubblicani hanno vinto le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, confermando e anzi allargando la loro maggioranza alla Camera – come era atteso – ma soprattutto ottenendo una larga maggioranza al Senato, dove erano l’opposizione da otto anni. Quando devono ancora essere completati gli scrutini di alcuni stati, e quindi il distacco potrebbe aumentare ulteriormente, i Repubblicani hanno sottratto 7 seggi ai Democratici: in questo momento possono contare su 52 seggi su 100. Erano in ballo tutti i 435 seggi della Camera, un terzo (33) dei seggi del Senato e i governatori di 36 stati su 50. I Repubblicani per il momento hanno vinto dove ci si aspettava una loro vittoria e anche dove la situazione sembrava in bilico, andando persino oltre quanto si poteva prevedere dai precedenti storici per cui il partito del presidente – specie se quel presidente è al secondo mandato – perde sempre seggi alle elezioni di metà mandato.

La serata per i Repubblicani è cominciata bene con le vittorie in South Carolina e in Kentucky. La vittoria in Kentucky è stata un importante segnale di buona salute perché il Repubblicano uscente era Mitch McConnell, capogruppo dei Repubblicani al Senato, che era favorito ma non sicuro di vincere contro un’agguerrita trentacinquenne Democratica, Alison Lundergan Grimes. McConnell ha vinto con il 56,2 per cento dei voti. Ma questi seggi erano già dei Repubblicani: il primo seggio perso dai Democratici è stato invece quello del West Virginia, come nelle attese: la candidata Repubblicana, Shelley Capito, ha vinto con il 62 per cento dei voti.

 

Da lì in poi è stata una cascata, i Repubblicani hanno vinto anche dove non era certo che vincessero e i Democratici non hanno ottenuto nemmeno uno dei seggi che pensavano di poter strappare ai Repubblicani: i siti di news americani descrivono la vittoria della destra “wave”, un’onda. I Repubblicani hanno vinto in Arkansas, dove il senatore uscente Mark Pryor, Democratico molto centrista e religioso, è stato battuto da Tom Cotton, una specie di giovane e popolare eroe di guerra, laureato ad Harvard e molto di destra; in South Dakota e in Montana, come era atteso; in Colorado, dove il Repubblicano Corey Gardner ha fatto fuori il senatore uscente, Mark Udall, in uno stato che Obama aveva vinto sia nel 2008 che nel 2012; in Georgia, dove il Repubblicano Perdue ha ottenuto più del 50 per cento evitando il ballottaggio; in Kansas, dove inizialmente sembrava che il vecchio senatore Repubblicano Pat Roberts potesse perdere da un candidato indipendente. La certezza matematica della riconquista del Senato per i Repubblicani è arrivata intorno alle 5.25 – ora italiana – quando il Repubblicano Thom Tillis ha battuto la Democratica uscente in North Carolina, Kay Hagan, che era data per favorita. Poco dopo Joni Ernst (quella dello spot dei maiali) ha battuto il senatore democratico Democratico uscente dell’Iowa, Bruce Braley.

 

La maggioranza dei Repubblicani al Senato potrebbe allargarsi ancora: in Louisiana, dove la legge dello stato prevedeva l’elezione al primo turno solo nel caso un candidato superasse il 50 per cento dei voti, si andrà al ballottaggio. E mancano ancora i dati dell’Alaska, l’ultimo stato a chiudere i seggi, e della Virginia, dove il Democratico uscente Mark Warner sembrava sicuro della vittoria e invece si sta giocando il seggio per poche frazioni di punto percentuale. Alla Camera, invece, la maggioranza dei Repubblicani sarà probabilmente la più larga che si sia mai vista dal 1928.

 

Barack Obama affronterà quindi gli ultimi due anni del suo mandato con un Congresso interamente repubblicano, una circostanza non insolita nella politica americana: Bill Clinton, per fare l’esempio più recente, governò così per la quasi totalità del suo mandato alla Casa Bianca. Toccherà fare accordi e compromessi oppure rassegnarsi ad altri due anni di quasi immobilismo politico, con i Repubblicani a perseguire la loro agenda al Congresso e il presidente a usare molto il suo potere di veto. Anche perché, nella politica americana, oggi comincia di fatto la campagna per le presidenziali del 2016.

 

Altre cose notevoli:

– in South Carolina è stato eletto al Senato il Repubblicano Tim Scott, il primo nero a essere eletto al Senato in uno stato del sud dal 1881 (dalla Guerra civile, praticamente);

– in New Hampshire il Repubblicano Scott Brown – quello nudo sul vecchio paginone di Cosmopolitan – ha perso;

– i Democratici si sono ripresi il governatore della Pennsylvania, uno stato che conta parecchio alle presidenziali; i Repubblicani hanno vinto in Ohio, dove vale lo stesso, e anche in Illinois (lo stato di Obama, e il candidato Democratico era molto vicino a Obama) e nel Massachusetts (uno stato storicamente liberal);

– è ancora in corso lo scrutinio in Colorado, dove il governatore uscente, il Democratico John Hickenlooper, è in svantaggio di poche migliaia di voti; il Repubblicano Scott Walker è stato confermato governatore del Wisconsin, e ora sarà meglio tenerlo d’occhio in vista delle elezioni presidenziali: è noto soprattutto per una dura lotta contro i sindacati, piace molto agli elettori di destra;

– in Florida il referendum sulla legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo è stato bocciato nonostante abbia ottenuto il 57 per cento di sì: la legge richiedeva il 60 per cento. I referendum sulla legalizzazione sono stati approvati però in Oregon e nel District of Columbia, che si aggiungono così al Colorado e allo Stato di Washington;

– Mia Love è stata eletta alla Camera nello Utah: è la prima donna repubblicana nera eletta alla Camera; Elise Stefanik, trentenne Repubblicana eletta a New York, è diventata la deputata più giovane della storia della Camera;

– alla Camera statale del West Virginia (non al Congresso, per capirci) è stata eletta una diciottenne repubblicana, Saira Blair: è la più giovane legislatrice del paese;

– ci saranno più di 100 donne nel prossimo Congresso degli Stati Uniti, per la prima volta.

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foto: David Perdue, eletto senatore per i Repubblicani in Georgia. (Jason Getz/Getty Images)

 

Gli Usa ora vogliono attaccare l’Isil in Siria:

è il fallimento della politica estera di Obama

 

   notiziegeopolitiche.net  di Enrico Oliari - 23 agosto 2014

isil obama grande

Gli Usa potrebbero presto colpire con i raid obiettivi dell’Isil in Siria: le voci che da giorni stanno girando per i corridoi di Casa Bianca e Pentagono sono state in qualche modo ufficializzate dal vice consigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes, il quale, rispondendo ad una domanda specifica, ha affermato che “valuteremo cosa sia necessario nel lungo termine per assicurarci di proteggere gli americani”.


L’ipotesi di raid in Siria contro i qaedisti arriva dopo la barbara esecuzione del giornalista statunitense James Foley, tuttavia un intervento di questo genere rappresenterebbe il radicale cambiamento di posizione della politica dell’amministrazione Obama, che, giusto un anno fa, era arrivata quasi a colpire le forze di Bashar al-Assad in seguito all’uccisione con le armi chimiche di 1.429 civili, azione fermata in extremis dall’iniziativa diplomatica russa.
Va detto che i miliziani dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante, detto anche Isis, Is o Daesh) hanno mutato nel corso del conflitto siriano la loro posizione e, oltre a combattere l’esercito regolare, da alleati degli insorti si sono messi a muovere loro guerra, come pure ai curdi del nord e persino agli altri gruppi di jihadisti, come nel caso di Jabat al-Nusra.


Riferendosi all’Isil il presidente Barak Obama nei giorni scorsi ha affermato che si tratta di “un cancro che va estirpato”; tuttavia, vien da chiedersi, perché sostenere la caduta di governi stabili per arrivare alla situazione della Siria di oggi, il cui conflitto conta ormai 191mila morti, come pure a quella della Libia, dell’Iraq e si potrebbe dire dell’Egitto, se non fosse per l’intervento dei militari?


Il Segretario alla Difesa Chuck Hagel ha esclamato che “l’Isil va ben oltre ogni altro gruppo terroristico visto finora” e rappresenta “una minaccia a lungo termine”. Eppure quanta e quale responsabilità hanno le potenze che hanno sostenuto il rovesciamento dei vari governi per reggere il gioco di Arabia Saudita o Qatar nella loro assurda lotta, giocata sullo scacchiere dei paesi circostanti, per accaparrarsi il ruolo di interlocutore con l’Occidente? Possibile che importanti leader e strapagati consiglieri presidenziali non abbiano tenuto conto della storia e della peculiarità delle varie popolazioni e non abbiano considerato il “dopo”, ovvero cosa sarebbe successo in seguito?


Correttamente il generale statunitense Martin Dempsey, capo di stato maggiore Interforze, si è chiesto se “ Senza affrontarne il ramo in Siria (l’Isil) può essere sconfitta? La risposta è no”, proprio perché in Siria vi sono le basi degli jihadisti che ormai hanno quasi raggiunto le porte di Baghdad. Tuttavia, considerando che i qaedisti dell’Isil compiono stragi e tagliano teste da ormai tre anni, come è stato possibile fino ad oggi chiedere all’opinione pubblica internazionale di combattere culturalmente e militarmente al-Qaeda in Afghanistan, salvo appoggiarla in Siria? Perchè, se l’Isil si è dichiarata ufficialmente una branca di al-Qaeda e lo stesso numero uno, Ayman al-Zawahiri, ne ha dichiarato la paternità, i media occidentali continuano a parlare semplicemente di “jihadisti”, di “terroristi” e di “islamisti”, e omettono il termine “qaedisti”?


Mosca, che certamente ha nel paese di Damasco i propri interessi (a Tartus vi è una fornitissima base russa, fino a poco fa l’unica in un panorama che, dal Marocco al Kirghizistan con esclusione dell’Iran, vedeva piazzate basi statunitensi), sembra averci visto giusto nel costringere gli Stati Uniti a stare fuori dalla Siria: a prescindere dal fatto che ancora si hanno forti dubbi su chi sia l’autore della strage con le armi chimiche di un anno fa, quanto terreno avrebbero guadagnato i qaedisti se gli aerei americani e francesi avessero bombardato l’esercito di Damasco?


Tutti siamo contrari ai regimi, specie se dittatoriali, ma ha ragione l’Alto commissario Onu per i Diritti umani Navi Pillay a denunciare oggi, per l’ennesima volta, come “la paralisi internazionale” abbia incoraggiato gli “assassini, i torturatori e i devastatori in Siria”: non si abbattono i regimi per i più disparati interessi (solo la ricostruzione dell’Iraq post-deposizione di Hussein comporta investimenti per 500 miliardi di dollari, un affare che interessa 7 banche occidentali) fregandosene di cosa poi accadrà a milioni di individui!


L’idea di un califfato che si appoggi sul radicalismo non è nuova, anzi, è antichissima, mentre fino a quando vi erano governi stabili termini come “Isil”, “Ansar Dine”, “Ansar al-Sharia”, Jabat al-Nusra” ecc. erano del tutto sconosciuti.


La lezione che se ne trae è che la democrazia non è un bene che può essere esportato, quasi fosse un oggetto, ma resta il frutto del percorso evolutivo di un popolo attraverso la storia, per cui “misurare” il mondo con il proprio metro resta un errore imperdonabile, fatto sulle spalle delle famiglie distrutte e delle generazioni di giovani spazzate via dai conflitti o risucchiate dal vortice dell’integralismo.


Perché, se il proposito era quello di abbattere i regimi che imprigionano gli avversari politici, torturano e arrivano persino a compiere genocidi, L’Occidente ha girato le spalle alle “Primavere arabe” e alle rivolte soffocate nel sangue che hanno interessato nel 2011 e nel 2012 le monarchie del Golfo?
Anche in Egitto Obama ha giocato malissimo le proprie carte appoggiando i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi, finanziati e sostenuti dal Qatar, tanto che l’attuale presidente Abdel Fatah al-Sisi ha spostato la tradizionale alleanza con Oltreoceano alla Russia e Mosca oggi sta piantando una propria base ad Alessandra. La seconda sul Mediterraneo.


La verità è che l’Occidente e quei ricchi, ricchissimi paesi che si affacciano ad ovest del Golfo Persico sono legati da interessi che si misurano con cifre dai molti zeri, basti pensare aggli affari che fanno gli emiri nelle nostre città acquistando hotel, palazzi ed aziende. Per cui oggi, davanti alle molte teste tagliate e al dramma dei milioni di profughi, tutta la politica estera dell’Occidente appare inebetita ed afflitta da un colpevole immobilismo, basata sul pressapochismo o quanto meno sulla mancanza di lungimiranza: l’educazione al valore della democrazia arriva solo attraverso un cambiamento graduale e morbido, che tenga conto del rispetto e della considerazione delle peculiarità di popolazioni composite e antichissime, con una propria cultura e con una propria, ben determinata, identità.

 

 

Com’è fatto un centro di detenzione

per migranti in California

 

    ilpost.it  -  25 novembre 2013

 
ICE Holds Immigrants At Adelanto Detention Facility  

 

Il fotografo di Getty Images John Moore ha realizzato un reportage nel centro di detenzione di Adelanto, in California. La struttura è la più grande e la più recente costruita in California dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia del ministero della Sicurezza interna degli Stati Uniti che si occupa della sicurezza dei confini e dell’immigrazione illegale. Il centro ospita una media di 1.100 migranti irregolari – ha circa 1.200 posti letto – in attesa di giudizio o di espulsione dagli Stati Uniti. Un detenuto rimane nella struttura in media 29 giorni. È organizzata come un carcere federale, con celle, aree comuni e centri ricreativi; alcuni detenuti sono rinchiusi in isolamento per motivi di sicurezza e gli agenti passano loro il cibo e le eventuali telefonate attraverso le sbarre.

 

ICE Holds Immigrants At Adelanto Detention Facility

 

John Moore ha raccontato sul Lens, il blog di fotogiornalismo del New York Times, che il reportage ad Adelanto fa parte di un suo progetto più ampio sull’immigrazione negli Stati Uniti, per cui ha già fotografato centri gestiti dall’ICE a Florence ed Eloy, in Arizona, e il rimpatrio di un centinaio di guatemaltechi nel loro paese. Moore ha scritto che l’ICE detiene in carcere una media di 33 mila immigrati privi di documenti in più di 400 strutture in tutto il paese. Soltanto nel 2012 l’agenzia ha rimpatriato 409.849 immigrati, finora il numero più alto nello stesso anno. Si calcola che entro il 2014 l’amministrazione Obama avrà rimpatriato più di due milioni di persone, più di qualsiasi presidente americano.

 

Adelanto, California

 

Moore spiega che per rimpatrio si intendono sia le «deportazioni formali che le partenze volontarie». Si tratta di procedimenti molto diversi: la deportazione prevede un processo, l’ordine di un giudice e vieta all’immigrato di tornare negli Stati Uniti per un certo periodo di tempo, anche se il resto della sua famiglia vive lì. Il rimpatrio volontario invece non prevede alcun processo e spesso chi lo sceglie tenta di nuovo di tornare negli Stati Uniti illegalmente. I migranti messicani vengono accompagnati alla frontiera, mentre gli altri devono essere portati nel loro paese per via aerea: quasi ogni settimana ci sono voli che partono che partono da Meza, in Arizona, diretti in America Centrale.

 

ICE Holds Immigrants At Adelanto Detention Facility

 

Negli ultimi anni sono cresciuti sempre di più i movimenti, come NotOneMoreDeportation e i Dreamers, che chiedono la fine delle deportazioni, soprattutto quando si tratta di genitori che vengono separati dai figli. Uno dei principali successi è arrivato ad agosto quando l’ICE ha ordinato ai suoi agenti di non deportare più genitori di minorenni che sono nati negli Stati Uniti e hanno la cittadinanza americana. A giugno invece il Senato americano ha approvato la riforma sull’immigrazione: prevede da un lato il rafforzamento militare del confine con il Messico, dall’altro una sorta di sanatoria, che permetterà agli 11 milioni di immigrati irregolari negli Stati Uniti di ottenere la cittadinanza attraverso un processo graduale. La legge dovrà essere però approvata anche alla Camera, dove si prevede una maggiore opposizione da parte dei repubblicani.

 

Lo shutdown rischia di mettere in ginocchio l’America Latina.

Che chiede una rapida soluzione

 

notiziegeopolitiche.net  di Giacomo Dolzani - 12 ottobre 2013

obama schiena grande

 

Sono stati molto espliciti i ministri dell’Economia dei paesi sudamericani riguardo alla situazione di stallo generatasi negli Usa, causa dello shutdown e dell’enorme mole di licenziamenti, oltre 700mila, il quale rischia di creare un pericoloso effetto a catena che coinvolgerebbe tutti i paesi del mondo. Gli esponenti dei governi dell’America Latina hanno infatti espresso grande preoccupazione per gli avvenimenti che stanno interessando gli Stati Uniti, fatti che potrebbero nell’immediato ripercuotersi sui paesi dell’intero continente americano.
L’occasione per il confronto è stato il vertice tra i segretari dell’Economia delle due Americhe, tenutosi a Washington per iniziativa dell’Iadb (Inter American Development Bank) e presieduto da Mauricio Cardenas, ministro colombiano delle Finanze; questi hanno chiesto al loro omologo statunitense, Jacob Lew, di trovare urgentemente una rapida soluzione per risolvere le loro controversie interne sul bilancio al fine di scongiurare conseguenze devastanti per la regione; gli stati dell’America meridionale possiedono infatti una notevole parte del debito Usa, una somma che se non dovesse essere restituita o se solo i pagamenti dovessero tardare potrebbe costituire un duro colpo per le, spesso fragili, economie di quei paesi.
Da quanto riferito da Cardenas nella conferenza stampa a margine del summit: “è stato chiesto enfaticamente alle autorità economiche e politiche degli Stati Uniti di trovare un punto di consenso”, manifestando anche una seria preoccupazione nel caso Washington decidesse per una sospensione temporanea del pagamento delle rate del debito; ha infatti continuato il ministro: “l’America Latina dipende dagli Stati Uniti e potrebbe essere seriamente minacciata se non sarà risolta questa crisi”, alludendo a possibili e gravi “effetti collaterali”.
Lo shutdown statunitense è stato causato da una crisi politica, prima che economica: la riforma sanitaria voluta dal presidente Barack Obama, che dovrebbe permettere a 50 milioni di cittadini americani che fino ad oggi non potevano permettersele l’accesso alle cure mediche, ha infatti incontrato la ferma opposizione delle compagnie assicuratrici e quindi del Partito Repubblicano che, per non consentire l’applicazione della cosiddetta “Obamacare” ha negato al governo il permesso di aumentare ulteriormente l’enorme debito pubblico americano, ad oggi pari a 16.700mld di dollari, bocciando quindi anche la legge finanziaria.
Come conseguenza si è reso necessario diminuire l’organico del settore pubblico di oltre 700mila unità, portando inoltre il paese sull’orlo di un default che sta preoccupando il mondo e, principalmente, i maggiori detentori del debito pubblico Usa: Cina (1137mld), Giappone (oltre 936 mld $), Gran Bretagna (397 mld $) e Brasile (210 mld $).

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UN DISCORSO STORICO PER LA LIBERTA' DEI POPOLI

 

Redazionale 20 giugno 2013

 

Il discorso di Obama davanti alla Porta di Brandeburgo

 

Il 19 giugno del 2013 sarà ricordato come un giorno storico per il mondo della comunicazione politica, poichè Barak Obama, cinquant'anni dopo John Kennedy, ha tenuto uno storico discorso nella parte est della Porta di brandeburgo a Berlino. Un discorso costruito sul concetto di libertà per quei popoli che ancora non ce l'hanno, che per parafrasare kennedy, Obama ha detto che oggi anche loro sono cittadini berlinesi.

 

"Le economie devono lavorare per la gente e non per chi sta al top della piramide sociale..."

 

"Noi siamo persone più libere quando le persone possono ricercare con la libertà la loro felicità..."

 

"I nostri sforzi non devono indirizzarsi sulla beneficienza ma sulla emancipazione dei popoli..."

 

"Il potere esiste per servire i cittadini e non viceversa..."

 

"L'ingiustizia in una parte del mondo è una ingiustizia per il mondo intero..."