ITALIA

Diritti violati e cattiva gestione.

Viaggio nei CIE dopo Mafia capitale

 

 

unimondo.org   Giacomo Zandonini   -  27 Gennaio 2015

 

 

Il titolo è suggestivo: “Interferenze di memoria. Per non dimenticare”. Ma la conferenza svoltasi a Roma e legata alle celebrazioni della Giornata della Memoria, ha cercato di andare oltre il ricordo. E’ giusto raccontare ciò che non trova spazio, quelle interferenze inascoltate nel flusso delle informazioni, ma è necessario anche agire. Soprattutto quando si parla di CIE. 

 

“Più che un campo di concentramento – ha sostenuto la filosofa Donatella Di Cesare, fra i relatori – i Centri di Identificazione e Espulsione sono campi in cui si mettono a punto le tecniche persmaltire le scorie umane della globalizzazione”. Una posizione dura, confermata da altri interventi e soprattutto da interrogazioni parlamentari, rapporti, denunce e rinvii a giudizio accumulatisi nell’ultimo decennio. In occasione della Giornata, Unimondo vi propone un viaggio nell’arcipelago CIE. Cinque centri, gestiti da grossi consorzi, che continuano a sopravvivere a un sistema tacciato di incostituzionalità e violazione dei diritti fondamentali.

 

"Qua dentro siamo merci di uno sporco sistema". A parlare è Sunjay, trattenuto nel CIE di Ponte Galeria, appena fuori Roma. La sua storia ci rimanda a un nome centrale delle inchieste sul "mondo di mezzo", ovvero Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative sociali romane, fra i principali protagonisti della mercificazione dei migranti nella capitale. Come il dirigente del consorzio Eriches 29 Giugno, Sunjay ha studiato nel carcere di Rebibbia, dove è stato il tempo sufficiente per diplomarsi in ragioneria, diventare mosaicista e apicultore e partecipare a diversi concorsi letterari. Ma per quest'uomo di 46 anni, originario delle Mauritius e in Italia dal 1989, uscire dal carcere ha significato diventare un'invisibile. E' entrato a Ponte Galeria nel novembre 2014, e qui sconterà ulteriori tre mesi di reclusione. "Sono un invisibile - spiega - pur avendo un conto corrente e un codice fiscale. Di sicuro lo stato non aveva bisogno di identificarmi". Una sorte che è condivisa da una buona metà dei trattenuti del centro: ex carcerati, che perdono i titoli per il soggiorno in seguito alle detenzione.

 

Ponte Galeria è uno dei cinque CIE attualmente dichiarati attivi dal Ministero dell'Interno. Dei 1790 posti disponibili fino a due anni fa in 11 centri, oggi si arriva a malapena a 650. Ma a essere occupati, nonostante il ministero non diffonda dati dallo scorso luglio, si calcola che siano oggi meno della metà dei posti disponibili. Gli ultimi anni hanno dunque visto la chiusura di diverse strutture, danneggiate da rivolte periodiche e travolte da alcune inchieste giudiziarie per mala gestione. I pochi rimasti però resistono, nonostante situazioni sempre più critiche, evidenziate fra gli altri dallaCommissione Straordinaria per i Diritti Umani del Senato

 

 Partiamo proprio da Roma, il centro più grande: è dello scorso dicembre il cambio di gestione, che ha visto subentrare a Auxilium il raggruppamento di imprese costituito da Gepsa, Acuarinto e Synergasia. Da 67 operatori si è passati a una ventina, in attesa - secondo i dirigenti - di definire la vertenza sindacale aperta con i precedenti gestori. Si tratta, a detta di molti trattenuti, di personale poco qualificato, che poco può fare in un centro fatiscente e sporco, che alloggia circa 100 persone per una capienza di 250. Sono infatti numerose le segnalazioni critiche: docce che non funzionano per settimane, assenza di forniture di base come carta igienica e assorbenti, pasti freddi o non adeguati a persone con regimi alimentari particolari,riscaldamento malfunzionante. Mancano poi, o non sono presenti con continuità, le figure professionali previste dai capitolati firmati dai gestori: mediatori culturali, psicologi, assistenti legali, addetti alle pulizie. Addirittura, segnalano alcuni trattenuti, i costi dello spaccio interno, che vende tabacchi e genere alimentari secchi, con la nuova gestione sono saliti anche del 30%, a fronte della riduzione da 3,50 a 2,50 euro delpocket money quotidiano. Effetti del sistema dei bandi al ribasso, che ha fatto vincere Gepsa e soci con un'offerta di 29 euro/die per ospite, lontana dai 41 spesi con Auxilium. 

 

E' sempre Gepsa, questa volta in consorzio con la sola Acuarinto, a gestire dal 15 gennaio il più piccolo dei CIE attualmente aperti, quello di Torino, ristrutturato nel 2013 con una spesa di 14 milioni di euro. In una struttura registrata per 210 persone, ne vivono oggi 21, racchiuse in poche stanze. L'esiguità degli spazi non ha impedito che a fine 2014, per due settimane, "ospiti" e operatori rimanessero al freddo, in seguito a un guasto alle caldaie. 

 

Salito all’onore delle cronache per un presunto utilizzo della struttura per l’espulsione di, sempre presunti, terroristi, il CIE di via Brunelleschi racconta però un’altra storia: una delegazione della campagna LasciateCIEntrare, in visita lo scorso 25 gennaio, è stata parzialmente fermata, fatto inedito e che si ricollega a un altro episodio simile, avvenuto a Ponte Galeria nel dicembre 2014. Anche lì, diversi giornalisti e avvocati erano stati bloccati per motivi di sicurezza. Raccontare cosa succede in questi centri è insomma scomodo, per le prefetture, che devono autorizzare in accordo con le questure gli ingressi di Ong e giornalisti e forse anche per gli enti gestori, che con appalti vinti al ribasso non sono in grado di soddisfare i criteri alloggiativi previsti dalla legge. 

 

Caso Cucchi:

“Lesioni necessariamente legate a percosse”

 

 

   oltremedianews.it  by Nicola Gesualdo  -  12 gennaio 2015

 

Caso Cucchi già il 13 dicembre scorso abbiamo parlato di novità riguardanti il decorso degli eventi, oggi la procura della Repubblica di Roma conferma che verranno riaperte le indagini, inoltre sembra che non ci siano dubbi, Cucchi da qualcuno è stato picchiato.

 

Conferme che arrivano dalle 67 pagine delle motivazioni del collegio: “le lesioni subite da Cucchi sono necessariamente collegate ad un’azione di percosse e comunque da un’azione volontaria che può essere consistita anche in una semplice spinta che abbia provocato la caduta a terra con l’impatto sia del coccige, sia della testa contro una parete o contro il pavimento”.

 

Rimettendo gli atti alla Procura della Repubblica la Corte dispone che venga valutata “la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte”. Forse ulteriori indagini verranno svolte nei confronti dei carabinieri che arrestarono la notte dell’ottobre del 2009 Stefano Cucchi.

 

Nelle motivazioni si legge ancora: ““le quattro diverse ipotesi avanzate al riguardo, da parte dei periti d’ufficio (morte per sindrome da inanizione), dai consulenti del pubblico ministero (morte per insufficienza cardio-circolatoria acuta per brachicardia), delle parti civili (morte per esiti di vescica neurologica) e degli imputati (morte cardiaca improvvisa), tutti esperti di chiara fama – si spiega – non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente del decesso di Stefano Cucchi. Dalla mancanza di certezze, non può che derivare il dubbio sulla sussistenza di un nesso di causalità tra le condotte degli imputati e l’evento”.

 

Ieri la sorella di Stefano, Ilaria tramite il proprio profilo facebook affermava: “Tutti, ma proprio tutti, hanno manifestato il proprio orrore e la propria indignazione per l’assoluzione di tutti gli imputati nel processo per la morte di Stefano. Cariche istituzionali, personaggi politici, dello spettacolo, della cultura, del giornalismo e persino le più importanti associazione rappresentative dei magistrati.


Il fallimento della procura di Roma sotto gli occhi di tutti, riconosciuto ed indiscutibile.
Il Procuratore di Roma che cosa fa allora? Dopo aver criticato la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Roma annuncia di aver aperto un fascicolo nuovo sulla morte di mio fratello.


Ma di quale fascicolo si tratterebbe?


Un fascicolo senza indagati, un cosiddetto modello 45, e cioè contenente una pseudo notizia di reato. Si! Pseudo notizia di reato, per la quale non sarebbe neppure necessaria la richiesta al Giudice di archiviazione. Potrebbe essere in qualsiasi momento cestinata.


Ma ho come la sensazione che comunque con questo fascicolo si faranno indagini per dimostrare che i due pm del primo processo hanno fatto tutto benissimo. Ciò a dispetto dell’evidenza dei fatti sotto gli occhi di tutti.
Meglio se a raggiungere questo risultato potrà essere un valente magistrato anti mafia. Magari sotto scorta. Allora nessuno potrà dire nulla. Nessuno.


Quanto vale la morte di Stefano Cucchi di fronte a questi meccanismi? Mafia capitale, lotta alla ndrangheta. Inchieste eroiche e preziose. Necessarie.


Ma la morte di un tossico di fronte al prestigio di due magistrati non vale nulla. Di fronte a questi grandi scenari ed a questi grandi temi scompare.


A Firenze stanno già dicendo ‘non siamo Roma, non fateci Cucchi’. Ma io non ci sto. La vita di una persona che viene consegnata alle mani dello Stato viva ed in ottima salute e che viene restituita ai suoi famigliari, dopo il crudele gioco della sberla del soldato, morta ed in quelle terribili condizioni, deve valere almeno il riconoscimento e l’ammissione che i due pm hanno sbagliato. Deve almeno valere le scuse dell’ufficio.


Se la procura di Roma non riesce a fare autocritica con quale autorevolezza può farla agli altri cittadini? Se lo Stato non riesce a processare se stesso e fare chiarezza su se stesso, con quale autorità può imporre la propria legge sui cittadini che non è in grado di tutelare ed ai quali non è in grado di garantire Giustizia anche quando essi di Giustizia muoiono?
Ci cibiamo di grandi temi, di grandi eventi, di grandi inchieste nell’illusione che tutto funzioni bene e che la legge sia uguale per tutti. Ma fino a che ci saranno udienze di convalida d’arresto per disgraziati come poteva essere mio fratello, finché questa sarà la Giustizia per gli ultimi, finché queste saranno le nostre carceri e la nostra cultura, noi continueremo a vivere in una società sempre più simile ad una giungla dove vale sempre la legge del più forte.

Alemanno e il nostro dossier sulle municipalizzate

 

 

  oltremedianews.it  by Nicola Gesualdo  -  2 dicembre 2014

 

In tempi non sospetti, quando Alemanno occupava ancora la poltrona di sindaco di Roma, noi di Oltremedia abbiamo più volte affrontato il problema dei rifiuti, quello della gestione dell’Ama, delle vicende che hanno coinvolto Franco Panzironi (arrestato nell‘inchiesta di oggi che vede indagato anche Alemanno) e Manlio Cerroni. Una questione, quella della gestione dei rifiuti, per la quale tra l’altro l’Italia ha proprio oggi ricevuto una condanna esemplare dalla UE, che si intreccia a doppio filo con le cronache odierne, e che all’epoca stimolò un nostro approfondimento, evidentemente premonitore, che fu pubblicato nella più ampia inchiesta “Dossier Alemanno. Roma distrutta in un giorno”.

 

Riproponiamo qui il capitolo sui rifiuti, curato da Nicola Gesualdo.

 

Quadro generale


“La vita terminava in uno spiazzo dove si sarebbero visti cumuli d’immondizia, mucchi di terra infranti e rifiuti vegetali, se non fosse che a Roma simile mercanzia si getta dappertutto, senza accordare preferenze ad alcun sito particolare.”
Potrebbero sembrare le parole per descrivere la Roma di oggi, invece sono le parole usate da Charles Dickens, in “Versioni d’Italia”, un secolo e mezzo fa. La gestione dei rifiuti a Roma non sembra sia cambiata più di tanto nel corso degli anni, anzi la cattiva
amministrazione ha portato al malaffare.


Quello fra uomo e rifiuto è un rapporto ancestrale. Scriveva Freud che il rapporto dell’uomo con le proprie deiezioni è assai istruttivo nell’illuminare i meandri nascosti della nostra psiche; così possiamo dire che il modo con cui produciamo e gestiamo i rifiuti ha moltissimo da raccontare circa il nostro modello di società.


Calvino, ne “La poubelle agrée”, scorgeva nel rito serale dello svuotamento del pattume quella necessità dell’uomo di separarsi da una parte di ciò che è suo perché egli possa identificarsi per completo (senza residui) in ciò che è ed ha: “maledizione dello stitico e dell’avaro, che temendo di perdere qualcosa di sé accumula deiezioni e finisce per identificare se stesso con la propria deiezione e per perdervisi” scriveva ancora il grande autore. La metafora calviniana serve per comprendere quanto sia cambiata la percezione del rifiuto da ieri sino ad oggi: un tempo l’esistenza della spazzatura, il gesto quotidiano di separarsene, era sinonimo di benessere materiale e di tranquillità economica; oggi il rifiuto è sinonimo di inquinamento, veleno, distruzione dell’ambiente, povertà.


Per capire come il rifiuto sia diventato un problema basta guardare l’evoluzione che le società contemporanee hanno conosciuto in pochissimi anni, sia dal punto di vista demografico, sia da quello relativo ai rapporti sociali ed economici. L’avvento del consumismo e la trasformazione dei processi industriali ha fatto sì che le attività manuali diventassero sempre più costose a vantaggio della produzione industriale che grazie alle economie di scala ha presentato sempre maggiori vantaggi. Insomma costa di meno acquistare qualcosa di nuovo piuttosto che riparare o risparmiare. E questo comporta inevitabili ripercussioni nella produzione del rifiuto e sull’impatto ambientale che l’accumularsi degli scarti al giorno d’oggi causa. Spreco delle materie prime, inquinamento dei mezzi di smaltimento, esternalità dei processi volti al riciclo. Queste le principali criticità che la questione dei rifiuti presenta. Così è emersa la necessità di una regolamentazione organica della materia che consentisse di sviluppare delle politiche integrate con i processi produttivi. Dalla semplice igiene urbana, insomma, si è passati alle politiche ambientali; il rifiuto è diventato un problema e i costi per la sua gestione si sono moltiplicati. Basta pensare che trent’anni fa il 36 costo dei rifiuti era di 5€/tonnellata, mentre oggi siamo sui 150€ a tonnellata. Inutile dire che si tratta di un mercato a tutti gli effetti in cui la malavita ha piantato le sue radici.


Ma cosa è il rifiuto per l’esattezza? Rifiuto è anzitutto quel qualcosa per cui ciascuno è disposto a pagar per disfarsene. Il rifiuto, per dirla in termini più economici, è un concetto legato al valore ed alla utilità potenziale di un bene: quando un bene viene usato, la sua utilità potenziale diminuisce e con essa anche il suo valore; finché tale valore diventa negativo. A questo punto il bene diventa uno scarto ed un costo da sopportare.

Questa definizione è molto importante per diversi motivi. Prima di tutto il bene avente valore negativo, cioè il rifiuto, ha uno “status giuridico” suo proprio. Ciò significa che il regime giuridico degli scambi dei beni negativi è sottoposto a disciplina differente rispetto ad una qualsiasi compravendita fra privati avente ad oggetto beni materiali della vita. È la legge quindi che stabilisce i criteri per definire qualcosa come rifiuto, per classificarlo nelle diverse tipologie, e per identificare le diverse attività di gestione e di trattamento cui questo deve essere soggetto. La principale fonte normativa in materia è di matrice europea ed i principi generali cui gli Stati devono attenersi nell’ambito delle rispettive competenze sono racchiusi nella direttiva 2008/98 introdotta poi dal legislatore italiano nel nostro ordinamento con il d.lgs 152/06.


Nella normativa sono specificate modalità di trattamento del rifiuto e distribuzione delle competenze.

 

Quanto al destino del bene dopo il suo uso, le soluzioni adottate dalle amministrazioni sotto l’impulso della produzione normativa sono andate di pari passo con lo sviluppo delle tecnologie in materia che nel tempo hanno avuto il merito di mostrare prospettive un tempo inimmaginabili. In parole semplici, una volta utilizzato, il bene deve essere raccolto ed infine andare incontro a due diversi possibili processi: lo smaltimento e il riuso. Diversissime tra loro dal punto di vista concettuale e procedurale, le due soluzioni hanno mostrato nel tempo di essere più complementari di quanto non sembrasse ad un primo sguardo. Ma andiamo con ordine. La raccolta può essere differenziata o indifferenziata. L’esigenza di una differenziazione a monte dei rifiuti è emersa pian piano nel tempo con lo sviluppo delle diverse tecnologie per il corretto smaltimento e un più efficace riuso dei materiali. Contrariamente a quanto si pensa, quindi, la raccolta differenziata non serve solamente per il riciclo, bensì consente di differenziare quanto più possibile i rifiuti in modo da ideare per ciascuna tipologia il trattamento più idoneo e meno dispendioso sia dal punto di vista economico che ambientale. Emblematico è l’esempio, a riguardo, degli inceneritori: i rifiuti meno sono puri e meno potere calorifero hanno; ciò comporta che per bruciare e produrre energia essi necessitano dell’aggiunta di combustibili con la conseguenza che il processo è più inquinante e maggiormente costoso.


La raccolta dei rifiuti può avvenire con tre diverse modalità: quella collettiva, basata su contenitori stradali liberamente accessibili, quella individuale porta a porta e quella basata sul conferimento diretto da parte del cittadino a punti prefissati e gestiti dall’operatore. Ciascuna modalità presenta pro e contro. La prima ha dalla sua il fatto che non comporta particolari costi per i cittadini, ma d’altra parte non consente una ottimale raccolta differenziata; la seconda è difficile da praticare nei grandi centri urbani, inoltre bisogna tener presente che costi ed esternalità delle modalità di raccolta non possono essere maggiori dei benefici scaturiti dalla differenziazione dei rifiuti, e quindi una raccolta porta a porta ha dei costi difficilmente sostenibili in certi contesti; infine la terza ipotesi, che potrebbe comportare però un eccessivo aggravio per i cittadini i quali sarebbero costretti a trattenere il pattume in casa. Insomma, efficienza, economicità ed incentivo: il progresso della raccolta differenziata passa da questi fattori oltre che, soprattutto, dalla sensibilizzazione sul tema da parte dei cittadini e dei produttori.

 

In Italia, l’obiettivo per il 2012, era di raggiungere il 65% a livello nazionale di raccolta differenziata.


Obiettivo grandemente fallito visto che oggi siamo solo al 25%; e se teniamo conto che nel bel paese il recupero diretto dei rifiuti è solo al 16% contro i parametri Ue che impongono il raggiungimento del 50% entro il 2020, già risulta evidente il fortissimo ritardo che in Italia oggi registriamo rispetto al contesto europeo. Quest’ultimo dato però, fa emergere un altro aspetto della gestione del rifiuto che aiuta ad introdurre la trattazione sul suo destino: le modalità di raccolta sono cosa diversa rispetto alla destinazione finale del bene dopo il suo uso. In particolare il riciclo consiste nel far rientrare il rifiuto nel circuito produttivo in modo che, dopo diversi trattamenti, il bene riacquisti valore positivo; in questo caso si può parlare di recupero diretto. La seconda strada invece consiste nel restituire all’ambiente il rifiuto usato tramite lo smaltimento. In mezzo c’è tutta una zona grigia che è rappresentata da quei casi in cui il bene riacquista utilità in seguito ad una nuova destinazione (es. ricavare combustibili dai rifiuti); questo processo si chiama downcycling. Il principale esempio di smaltimento del rifiuto è rappresentato dalla discarica. Essa consiste in un’area confinata, realizzata in un sito idoneo a distanza da centri abitati e su un suolo impermeabile che eviti il rischio di contatto con la falda acquifera. La discarica comporta due tipologie di inquinamento: inquinamento dell’aria mediante la produzione di gas generati dalla decomposizione dei materiali organici, contaminazione del suolo tramite la produzione di un liquame che trascina con sé in soluzione molti composti (spesso chimici) presenti nei rifiuti e che è chiamato percolato.


Il rischio di contaminazione è alto qualora in discarica finiscano rifiuti putrescibili, cioè i cosiddetti rifiuti tal quali. La discarica, se gestita correttamente, potrebbe rappresentare un ottimo sistema di produzione del gas e di produzione di materiali organici destinati a concime. Anche qui però la purezza del rifiuto è il requisito minimo per far sì che il prodotto da immettere sul mercato abbia richiesta. Dal 2000 in Italia è in vigore una norma che, distinguendo i rifiuti in pericolosi, non pericolosi ed inerti, vieta il conferimento in discarica di ogni forma di rifiuti diversa dai rifiuti inerti ossia non passibili di altre forme di valorizzazione. Il divieto è stato più volte derogato a causa delle inadempienze di numerose amministrazioni, tra cui, lo vedremo dopo, anche e soprattutto il Lazio, dove a Malagrotta viene ancora gettato di tutto. Il secondo metodo di smaltimento dei rifiuti è sicuramente l’incenerimento. I rifiuti contengono infatti molte frazioni combustibili e questa loro caratteristica ha da sempre spinto verso l’opzione di bruciarli. Tecnicamente il rifiuto viene trasformato in fumi (spesso tossici e molto inquinanti) e in scorie che necessitano di trattamenti specifici. Col tempo si sono sviluppate numerose tecnologie che hanno fatto degli impianti di incenerimento dei veri e propri complessi industriali all’avanguardia, dove i filtri consentono di ridurre di molto le emissioni e di produrre ancor meno scorie. Nell’ideazione delle nuove tecnologie finalizzate a ridurre l’impatto ambientale dell’incenerimento ha avuto un ruolo molto importante l’Unione europea che ha imposto per gli inceneritori parametri di inquinamento molto più severi rispetto a quelli fissati per altre attività industriali come i cementifici. Se rimane controversa la questione delle nanoparticelle, che secondo alcuni non sarebbero filtrabili e causerebbero importanti danni alla salute, è vero anche che lo sviluppo della tecnologia dell’incenerimento ha fatto si che potesse essere utilizzata un’altra caratteristica del rifiuto: il potere calorifico da cui ricavare energia. Anche qui però il condizionale è d’obbligo. Una corretta gestione dei termovalorizzatori farebbe dell’incenerimento una pratica di smaltimento all’avanguardia, tuttavia le lacune della legislazione, unite a corruzione e infiltrazione della criminalità organizzata, hanno fatto emergere un dissennato utilizzo di questi impianti all’interno dei quali sono stati bruciati rifiuti anche pericolosi senza appositi trattamenti.


Infine un terzo modello di smaltimento dei rifiuti è rappresentato dal trattamento meccanico-biologico.


Molto diffusa negli anni ’80, la pratica consiste nella selezione dei rifiuti a valle con la quale ricavare tre flussi di rifiuti: i rifiuti umidi (da trasformare in materiali organici inerti), i combustibili derivati dai rifiuti (il Cdr da usare negli inceneritori) e gli scarti. Tuttavia il principale ostacolo al diffondersi di questa modalità di smaltimento è costituito dal fatto che senza una selezione a monte dei flussi di rifiuti è difficile creare dei compost o dei cdr di qualità, tali da avere una domanda sul mercato. Il trattamento meccanico oggi è usato molto come sistema complementare rispetto ad altri, tenendo presente l’imprescindibilità della raccolta differenziata.


Abbiamo parlato di smaltimento, ora occorrono due parole sul riciclo. Il riciclo è una pratica molto diffusa innanzi tutto nell’ambito dei processi industriali. L’Italia, come paese povero di materie prime, è sempre stata all’avanguardia per quanto riguarda la costruzione di filiere industriali che consentono di non sprecare i materiali di scarto. Il riciclo si è diffuso poi in vasti settori: dalla carta all’olio delle auto, sino alle pile, ai materiali di elettronica e al vetro. Il vero problema del riciclo sta nel processo industriale che occorre effettuare per ridare valore positivo al bene. Tanto più il rifiuto è “impuro” tanto maggiore sarà il dispendio di risorse energetiche, economiche e in termini di impatto ambientale che tali trattamenti richiederanno.


È evidente dunque quanto il problema della produzione e dello smaltimento dei rifiuti costituisca un tema complesso e di difficile risoluzione. In Italia ed in Europa si sono provati a stabilire dei principi ed una ripartizione delle competenze in modo tale da sensibilizzare cittadini, amministrazioni locali e produttori dei beni. Secondo la normativa italiana spetta allo Stato tradurre la direttiva 2008/98 della UE in principi; ciò è stato fatto con il d.lgs. 152/06. Alle Regioni spetta l’organizzazione del sistema di gestione dei rifiuti, con particolare riferimento alla pianificazione dello smaltimento e della raccolta differenziata, alla fissazione dei criteri per l’individuazione di siti ove collocare gli impianti, alle attività amministrative e di istruttoria e valutazione, alla pianificazione della bonifica dei siti contaminati. Il piano strategico viene poi dettagliato e reso operativo dalle Province che, ciascuna nel territorio di propria competenza, individuano nel concreto flussi di rifiuto da smaltire, obiettivi, siti designati ed impianti. Accanto alle Province ci sono le Agenzie per la protezione dell’ambiente istituite a livello regionale (Arpa), che svolgono attività tecnico scientifiche, istruttorie, di controllo e monitoraggio ambientale. Infine agli enti locali compete la gestione nel concreto dei rifiuti. I Comuni devono assolvere alla loro responsabilità affidando il servizio a dei soggetti gestori mediante autorizzazione con la quale l’amministrazione deve imporre tutte le prescrizioni che ritiene opportune, nel rispetto dei principi e negli obiettivi imposti dalle norme nazionali e regionali.


Una volta chiarito il quadro normativo e la ripartizione delle competenze, ecco alcuni numeri sullo stato delle cose in Italia ed in Europa. In Italia si producono oggi 140 milioni di tonnellate di rifiuti al giorno di cui 32 sono rifiuti urbani. L’incremento in pochi anni è stato enorme, se pensiamo che solo di rifiuti urbani se ne producevano 13 t nel 1975 e 24t nel 1996. La produzione annua pro capite di rifiuti non è omogenea su tutto il territorio nazionale, e ciò a dimostrazione del fatto che essa dipende molto anche dalle abitudini e dal benessere della popolazione; essa infatti varia da un minimo di 450kg/ab di Basilicata e Molise ad un massimo di 600kg/ab di Liguria, Emilia-Romagna, Umbria e Lazio. Oggi rispetto al passato sono aumentati di molto i rifiuti derivanti dagli imballaggi, soprattutto plastiche: si stima che ammontino a quasi il 15% del totale. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, un grave rischio dell’incremento dei rifiuti nelle società industriali è rappresentato dagli alti costi di smaltimento, che spesso spingono i produttori a rivolgersi alla criminalità organizzata. In Italia sono state censite 13mila discariche abusive contaminate, sulle quali sono stati effettuati sino ad oggi 5mila interventi di bonifica. Quanto alla destinazione dei rifiuti, invece, la raccolta differenziata si attesta oggi in Italia sugli 8milioni di tonnellate l’anno, con un forte sviluppo al Nord (40%) ed un Sud ancora indietro, fermo al 10%. In forte crescita è la modalità di smaltimento del rifiuto tramite incenerimento (dal 5% al 10% in dieci anni) mentre il 23% dei rifiuti è destinato a trattamento meccanico biologico. La discarica rimane ancora la destinazione prevalente; anche se in netta diminuzione la percentuale dei rifiuti conferita in discarica (si è passati dal 90% di inizio anni ’90 a poco più del 50%), sono ancora molti i casi in cui, in deroga ad ogni norma, sono destinati al cosiddetto smaltimento rifiuti tal quali, cioè privi di trattamento. Un triste esempio di questa pratica è, come vedremo, la discarica di Malagrotta. Confrontando i dati appena citati con il passato, è evidente che anche in Italia si è avuto un forte progresso nel campo della gestione di quello che possiamo ormai chiamare il ciclo dei rifiuti. Tuttavia la situazione italiana si distingue, nel contesto europeo, per il fatto di presentare numerosissime situazioni di criticità. Basti pensare al fatto che in Italia si pratica ancora l’incenerimento di rifiuti indifferenziati e che la percentuale di energia ricavata dai rifiuti è molto bassa rispetto a Germania, Olanda e Francia, che si attestano su valori compresi tra il 20% e il 30%. Inoltre il nostro paese è ancora molto indietro per quanto riguarda l’obiettivo fissato dalla UE di raggiungere entro il 2020 una percentuale di recupero diretto dei rifiuti intorno al 50% (abbiamo detto che ad oggi l’Italia è al 16%).

 

Malagrotta, l’ottavo colle di Roma


Quella dei rifiuti a Roma e nel Lazio, è una storia lunga più di 25 anni, fatta di commissariamenti, di proroghe, di promesse mai mantenute, di battaglie nei tribunali, con due soli grandi protagonisti: la mala politica, e un uomo, Manlio Cerroni, oggi 86enne di Pisoniano in provincia di Frosinone, che ha costruito nell’ombra la sua fortuna venendo a capo di un impero composto da imprese specializzate nello smaltimento dei rifiuti che oggi fattura a detta dei più oltre due miliardi di euro l’anno e che vede il suo titolare operare da monopolista nella gestione dei rifiuti di Roma e Provincia. Lo stato di emergenza in cui da anni ormai versa la Regione Lazio per quanto riguarda la gestione dei rifiuti ha origini lontane. Quando negli anni ‘80 nasceva Malagrotta nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventata la discarica più grande d’Europa. I suoi numeri presto sono diventati da record: vasta 240 ettari (250 campi da calcio), in essa vengono riversate 5000 t/giorno di immondizia non trattata provenienti dalla capitale e dalla provincia. In poco tempo quello che era un grande buco nel terreno si è riempito, diventando una collina maleodorante e guadagnandosi l’appellativo di VIII colle di Roma. La discarica di Malagrotta diviene presto l’emblema di un errato sistema di smaltimento dei rifiuti: essa raccoglie tutte le categorie di rifiuti cosiddetti tal quali (senza alcun trattamento), i rifiuti speciali degli aeroporti di Fiumicino e Ciampino, i rifiuti ospedalieri, mentre il cattivo odore del pattume accumulato si espande a seconda della direzione del vento anche a 20 km di distanza. Non basta. In questa avvelenata periferia romana c’è posto anche per due inceneritori, un bitumificio, un cementificio e per la grande raffineria di Roma; e questo basta per definire questo territorio a due passi dal Tevere a forte rischio ambientale.


La discarica giunge al centro delle polemiche in seguito alle numerose denunce presentate dai 40mila cittadini residenti nelle aree limitrofe, che hanno evidenziato numerose irregolarità nella gestione degli impianti e un forte incremento delle polveri sottili sino a 15 volte più del normale: dal percolato (stante le testimonianze dei comitati) sversato nei canali di scolo delle acque piovane, al mancato sotterramento dei rifiuti depositati e, non da ultimo, il sequestro per mancato rispetto dei parametri di legge dell’impianto di gassificazione ultimato nel 2008. Inchieste che sono andate a coinvolgere in prima persona anche il re della monnezza romana e padrone della discarica Manlio Cerroni, presidente del consorzio Co.la.ri. monopolista nello smaltimento della spazzatura. Non solo la dissennata conduzione dell’attività di discarica; dal 2003 Malagrotta, come ogni discarica del suo genere, è ufficialmente fuori legge e ciò in seguito al recepimento di una vecchia direttiva della UE, risalente al 1990, la quale vieta lo smaltimento dei rifiuti tal quali in discarica. In particolare, il D. Lgs. 36/2003, nel disporre che i rifiuti possano essere collocati in discarica solo dopo il trattamento, ha previsto un regime transitorio per le discariche già esistenti con termine ultimo per la loro chiusura previsto per il 31/12/2008.

 

Cosa è successo dal 2003 ad oggi? Perché allo stato attuale si continua a prorogare la chiusura di Malagrotta al in attesa di aprire altre discariche nascenti già in regime di illegalità? La risposta sta nella progressiva saturazione delle 10 discariche laziali autorizzate e nei motivi che hanno condotto allo stato di emergenza ed inadempienza in cui versa la Regione oggi. Dalla fine degli anni ’90 sino ad oggi la Regione Lazio è stata incapace di avviare un proficuo piano industriale di sviluppo della raccolta differenziata, oltre che una efficiente rete di impianti di trattamento dei rifiuti indifferenziati utili soprattutto alla produzione del Cdr, combustibile derivato da rifiuti, indispensabile per il funzionamento di termovalorizzatori.


I risultati rovinosi della gestione commissariale sono sotto gli occhi di tutti: mentre nel decennio appena trascorso venivano gettati nelle discariche laziali più di 20milioni di tonnellate di rifiuto tal quale, la percentuale relativa alla raccolta differenziata nel Lazio rimane inchiodata, stando agli ultimi dati, al 13%; un dato lontanissimo tanto rispetto al 31% riscontrato su base nazionale, quanto rispetto a quel 65% che l’amministrazione poneva come obiettivo da raggiungere entro il 2012. Un mix di cattiva politica, lentezze burocratiche e malaffare hanno falcidiato sul nascere anche quelle poche iniziative poste in essere da soggetti privati che nell’avviare attività d’impresa finalizzata al compostaggio o al trattamento di rifiuti differenziati/indifferenziati si sono visti costretti ad accogliere rifiuti dalle altre regioni, in quanto nel Lazio sembra si preferisca la discarica. Ciò senza contare le perplessità in termini di efficienza (economica) ed efficacia (nello smaltimento) avanzate da più fronti riguardo un piano-rifiuti, come quello della Regione Lazio, in cui il termovalorizzatore riveste un ruolo fondamentale. Se è vero che in esso possono essere bruciati, oltre che il Cdr, anche molti rifiuti differenziati, i proventi dell’energia prodotti con la combustione non sono tali da sostenere il costo della raccolta differenziata; l’unico sbocco possibile del rifiuto differenziato – spiegano da Zero Waste Lazio, che ultimamente ha prodotto una sua proposta di legge – è il riuso.


I primi giorni del maggio 2011 saranno ricordati per il black out della raccolta di rifiuti nella parte est della capitale: in poche ore si sono creati accumuli di oltre mille tonnellate di rifiuti che hanno reso impraticabili le aree antistanti i cassonetti della spazzatura e, in qualche caso, anche le strade.


Stefano, abitante di Tor Pignattara, raccontava quei giorni: “Da un giorno all’altro i camion dell’AMA non sono più passati ed il 1 Maggio ricordo che i cassonetti erano già pieni sino all’orlo. Dal comune dicono che il problema è risolto ma in alcune aree del Prenestino e del Collatino la raccolta ad oggi non è ancora stata ripristinata”.


Da Tor Pignattara a Centocelle, passando per il Prenestino, il Collatino sino a Ponte di Nona; l’emergenza rifiuti ha interessato soprattutto la parte est della capitale, ma non sono mancate segnalazioni di disservizi anche nelle zone a nord. “Per fortuna non siamo arrivati al livello di Napoli e provincia nel 2008, ma la persistenza di immondizia in strada associata al caldo tardo-primaverile ha reso l’aria nauseabonda ed irrespirabile per giorni”.


“Un problema ordinario è la frequente comparsa di accumuli di rifiuti in zona Tor Sapienza, via dell’Acqua Bullicante, passando per Malatesta e via Antonio Tempesta, l’assenza di un sistema di raccolta “porta a porta” e, tantomeno, della raccolta differenziata”.


La sensazione, insomma, è che si tratti di un primo campanello d’allarme che viene da un sistema di smaltimento rifiuti che mostra da anni pericolose crepe.

 

A confermare le preoccupazioni dei romani, infatti, c’è una procedura d’infrazione in corso d’opera presso la UE la quale si è espressa, riguardo la gestione dell’immondizia romana, con una relazione stroncante della Commissione. A questa si è aggiunto anche il deferimento all’Alta Corte Europea. Del resto, l’obiettivo dell’Italia doveva essere quello di raggiungere il 65% di raccolta differenziata e almeno il 50% di riciclaggio entro il 2020, obiettivi ben lontani.
Pesano come un macigno sul futuro dei romani anni di scellerata gestione dei rifiuti, in cui l’inabilità delle istituzioni ha condotto all’ormai prossimo collasso di Malagrotta, e all’ideazione di un sistema di stoccaggio, di smistamento e di raccolta differenziata, gestito in condizione di semi-monopolio privato, assolutamente inadeguato ad una città europea; e a lamentarsi non sono solo i romani, ma anche i dipendenti che da mesi minacciano uno sciopero.
La logica dell’”ipermercato”, come l’ha definita Legambiente, impone di: inchiodare da una parte la differenziata a percentuali mai arrivate sopra al 25% praticando, dall’altra, il conferimento in discarica a fronte di un bassissimo prezzo di smaltimento (70 euro a tonnellata). Un diabolico “do ut des” tra amministrazione comunale, AMA e imprese, che ha portato inevitabilmente all’esaurimento di Malagrotta senza la parallela strutturazione di un percorso parallelo di trattamento alternativo dei rifiuti.


Ecco perché a Roma, così come anche in tutto il Lazio, le leggi sui rifiuti non sono mai state rispettate. Le normative in merito prevedono infatti una rigida gerarchia ovvero in ordine, riduzione, riciclo, recupero di materia e di energia ed infine lo smaltimento del residuo in discarica. Azioni queste che dovrebbero essere messe in campo esattamente nell’ordine elencato. Invece a Roma circa il 75% della spazzatura finisce tal quale a Malagrotta.


Così, tra proroghe, procedure UE d’infrazione e inadempienze amministrative, si è giunti alla saturazione di Malagrotta e alla scadenza prevista per il 31/12/2011 della autorizzazione al suo funzionamento, poi spostata a fine 2012, e ancora al giugno del 2013.
Va detto che nella Valle Galeria non esiste solo la discarica più grande d’Europa, ma anche un gassificatore – per ora fermo – due impianti di trattamento meccanico biologico, una raffineria, un inceneritore per rifiuti ospedalieri, dei depositi di carburante e diverse cave. Tale quadro aiuta a comprendere quanto la zona sia fortemente antropizzata ed inquinata. Questa affermazione è avallata inoltre anche da due recenti studi, di cui il primo dell’Ispra che certifica senza mezzi termini il notevole inquinamento della Valle Galeria ed il secondo dell’Asl Rm che attraverso un’indagine epidemiologica ha rilevato come in questo quadrante della città siano state riscontrate elevate percentuali di decessi rispetto ad altre zone della Capitale.


È importante sapere che la raccolta porta a porta dove effettuata correttamente a Roma (Colli Aniene, Massimina, Trastevere, Villaggio Olimpico, Decima) oggi produce almeno il 60-65% di recupero di materiali preziosi che possono essere rivenduti al CONAI (il Consorzio che si occupa di veicolare i materiali recuperati nel ciclo manifatturiero) con entrate di contributi pari a circa 70 euro /tonnellata invece che spese complessive di discarica/incenerimento attuali pari a 160 euro/tonnellata.


Da quando Alemanno si è insediato e ha proclamato di voler risolvere il problema dei rifiuti, siamo ancora a meno del 50% di efficienza di un sistema di quattro impianti TMB, il trattamento meccanico biologico, (due di AMA Spa e due del Colari di Cerroni), che se funzionasse a regime potrebbe trattare 900 mila tonnellate annue, cioè non più del 60% dei rifiuti non differenziati oggi prodotti. Quindi di circa 1,9 milioni di tonnellate annue di rifiuti urbani prodotti, tolto un 20% di raccolta differenziata pari a 390 mila tonnellate annue, rimangono da trattare ancora oggi 1,5 milioni di tonnellate. Visto che i famosi quattro impianti di TMB oggi sarebbero in grado di lavorarne solo 500 mila tonnellate annue, in attesa del funzionamento a pieno regime che li porterebbe a 900 mila tonnellate annue, la conclusione è che nei prossimi mesi dobbiamo smaltire un milione di tonnellate annue.


In parole povere chi ha governato negli ultimi tre lustri sia la Regione Lazio che il Comune di Roma pur di risparmiare ha scelto di buttare di tutto in discarica, non tenendo nella giusta considerazione la salvaguardia della salute umana, nonché le norme operanti in materia.

 

La gestione dell’AMA


Nel Piano Industriale del febbraio 2009, AMA si era prefissata di raggiungere il 35% di differenziata con un incremento in 5 anni del 15% per ottenere 600 mila tonnellate annue; di realizzare un impianto di pretrattamento dei rifiuti di 400 mila tonnellate; di potenziare gli impianti esistenti; di individuare entro il 2010 una nuova discarica di proprietà di AMA. La realizzazione di questi obbiettivi, avrebbe assicurato il trattamento di tutti i rifiuti, evitando il trasferimento all’estero al costo di 180 euro a tonnellata, che comporterà un ulteriore aumento della tariffa per i cittadini romani, che già oggi è la più alta d’Italia con Napoli. Benché AMA disponesse delle risorse, nessuno di questi obbiettivi è stato raggiunto.


La differenziata è aumentata di soli 6 punti in 5 anni (dal 19 al 25%), gli impianti di trattamento non sono stati potenziati. Non è stato neppure presentato un progetto alla Regione per accedere ai 52 milioni stanziati per la differenziata e si sono impiegati 5 anni per scoprire che il così detto sistema duale (gli utenti conferiscono i sacchetti presso i punti di raccolta mobili di AMA), era un totale fallimento.


In compenso, nel corso della legislatura di Alemanno, l’azienda dei rifiuti, che ha 7.500 dipendenti, ha avuto tutto il tempo di accumulare dei veri e propri disastri dal punto di vista gestionale. Senza contare tutta la questione relativa a parentopoli, che ha utilizzando la stessa “tattica” di gestione da parte del Comune di Roma; al Campidoglio (circa 200 collaborazioni esterne al costo di 18 milioni di euro in meno di due anni). In poco tempo si arriva ad un cumulo di debiti davvero straordinario: 660 milioni con le banche (che si garantiscono con la vendita degli immobili AMA); 300 milioni con i fornitori. Sofferenze per fronteggiare le quali AMA mette mano alla svendita di immobili attraverso un fondo SGR (Società Gestione Risparmio) a garanzia. La Cgil (Funzione pubblica) denuncia come “manca il gasolio per i mezzi e nelle unità territoriali da mesi mancano addirittura sacchi e guanti per gli operatori”. E potrebbe non essere la notizia peggiore. “Nel frattempo apprendiamo – continua il sindacato – che la giunta capitolina starebbe predisponendo un piano per smembrarne le attività”. Il rischio più grande è quello di passare la mano ai privati: “Mettendo insieme la crisi di governance aziendale, la mancanza di un piano industriale serio e questo ipotetico piano del Comune, sorge il timore che si stia aprendo la strada alla privatizzazione”.


Durante la legislatura Alemanno sono stati 3 gli avvicendamenti degli amministratori delegati dell’AMA; Franco Panzironi, Salvatore Cappello e Giovanna Anelli. Le tre nomine, ai romani, sono costate ben 2 milioni di euro per le buonuscite dei manager. L’ultimo avvicendamento, quello tra Cappello e Anelli, sarebbe arrivato a causa di un accordo che Cappello aveva intenzione di sottoscrivere con il Colari di Cerroni, 50 milioni di euro all’anno per un decennio, per il trattamento di una parte dei rifiuti prodotti dai romani.


Accordo del quale non sarebbe stato a conoscenza il consiglio di amministrazione di AMAe lo stesso primo cittadino.


È davvero difficile sostenere, a fronte di circoli e verbali, la tesi che il Comune non fosse al corrente dell’accordo. Insomma, non c’erano ragioni per la rimozione, ma si sarebbe trovato un pretesto per l’avvicendamento e, infatti, si è scelta la strada delle dimissioni concordate. Alemanno ha potuto mutare gli assetti mentre Cappello ne esce continuando a percepire gli emolumenti previsti: 700mila euro, anche questi soldi dei romani.

 

Alcune fonti in Ama spiegano che su questa decisione ha pesato il ruolo che ancora svolge Panzironi in azienda, ex Amministratore delegato. E Franco Panzironi torna di fatto a comandare all’Ama. È uscito dalla porta ed è rientrato dalla finestra”. La storia più interessante è quella di Franco Panzironi e il ruolo svolto come A.d. dell’Ama, nonché il protagonista principale della “parentopoli Ama ” e uno dei protagonisti del complesso sistema di potere messo su da Alemanno e dai suoi, l’altro è Riccardo Mancini. Panzironi è nominato Amministratore delegato dell’Ama da Gianni Alemanno; durante l’epoca ministeriale di Alemanno, gli viene assegnata la posizione di segretario generale dell’Unire, l’ente per l’incremento delle razze equine.


Esperienza nel settore ippico? Zero. Fino al 2001 il dottor Panzironi, area democristiana, è direttore generale di Lavoro Temporaneo, agenzia romana di lavoro interinale, che nel 2002 sarà acquisita all’80% da un’altra società che si occupa di reclutamento e selezione di personale per le imprese: Obiettivo Lavoro, che nel 2010 compare tra le vincitrici di una gara per selezionare personale proprio per l’Ama. Conosce Alemanno durante la campagna elettorale del 2001; l’attuale sindaco gli chiede prima di aiutarlo a organizzare il suo futuro incarico da ministro e poi di mettere in piedi un laboratorio politico; Panzironi progetta la Fondazione Nuova Italia (che nasce ufficialmente nel 2003) e soprattutto trova i finanziatori e gli sponsor per farla funzionare a dovere.


Della fondazione, Alemanno è il presidente, Panzironi il segretario generale e insieme a loro, tra i consiglieri, ci sono anche Antonio Buonfiglio (mentore di Unirelab) e Ranieri Mamalchi. Panzironi, intanto, è già commissario straordinario Unire dal 16 settembre 2002; nel 2003 si aumenta lo stipendio (con effetto retroattivo), affittando un immenso palazzo sulla via Cristoforo Colombo per trasferirci la sede (canone annuo: 1,5 milioni), assumendo personale senza concorso, distribuendo centinaia di migliaia di euro in consulenze esterne (molte delle quali affidate a persone del giro Alleanza nazionale).
Azioni che attirano a più riprese l’attenzione della Corte dei Conti e, nel 2007, anche quella del Gup del Tribunale di Roma Claudio Mattioli che lo rinvia a giudizio per abuso d’ufficio e falso ideologico. In seguito sarà assolto e in appello finirà in un nulla di fatto, per vizi procedurali, anche una sentenza avversa della Corte dei Conti che metteva in dubbio la legittimità di un ricco contratto stipulato da Stefano Andriani e successivamente avallato da Panzironi. A maggio 2006 Alemanno lascia il ministero e il suo successore, Paolo De Castro, altra sponda politica, comincia a fare le pulci all’Unire che ormai ha accumulato un rosso di decine di milioni di euro e che viene per questo sottoposto nuovamente alla gestione controllata.


Il neocommisario avvia subito la procedura di rimozione di Panzironi, segnalando che il bilancio dell’ente è disastrato, che molte scelte prese dalla dirigenza sono censurabili, che il contratto di assunzione del segretario generale prevede espressamente la revoca dell’incarico in caso dell’accertamento di “gravi responsabilità e per i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione”.


In pratica è una lettera di licenziamento che Panzironi evita dando le dimissioni il 2 aprile 2007. Mossa astuta che, come ricorda la Gazzetta dello Sport, “gli dà diritto, per legge, a fronte del ricco contratto in essere fino al 2008, a una buonuscita da 7 a 10 mensilità, ovvero dai 210 ai 300 mila euro”.

Negli ultimi mesi del 2010 scoppia il caso “parentopoli”; l’indagine dei p.m. romani vede indagati 7 tra dirigenti ed ex dirigenti dell’Ama (Azienda municipale ambiente) che si occupa della nettezza urbana a Roma.


Il Procuratore aggiunto, Alberto Caperna, e il sostituto procuratore, Corrado Fasanelli, hanno puntato l’indice contro l’ex amministratore delegato Franco Panzironi e altri dirigenti dell’azienda per 841 assunzioni sospette, divise in due tranche, una da 41( le più importanti) e l’altra da 800.


Gli altri indagati sono: Sergio Bruno, presidente del Consorzio Elis, Luciano Cedrone, responsabile del personale, Gianfrancesco Regard, ex responsabile legale di Ama, Ivano Spadoni, dirigente Ama e i consulenti Bruno Frigerio e Giovanni D’Onofrio. I sette indagati sono accusati, a seconda delle diverse posizioni, di abuso d’ufficio, falso e violazione della legge Biagi.


Nelle 41 assunzioni della prima tranche a persone prive di requisiti e avvenute a chiamata diretta nel periodo del 20 ottobre 2008, 24 ore prima dell’entrata in vigore della legge Brunetta, per sfuggire al divieto di assumere a chiamata diretta ci sono molti collegamenti con esponenti politici. Tra le assunzioni spicca il nome della figlia del capo scorta del sindaco di Roma, Alemanno, Ilaria Marinelli.


Inoltre ci sono Graziella Salvatori, Emanuele Arcese, Gerardo Mottola e Antonello Potenziani su cui c’è il nome di Gianfranco Zambelli. Panzironi ammette: “Riconosco come mia la grafia apposta a mano con nome Zambelli, si tratta di un consigliere del Pd”. Stessa formula per confermare che è stato il deputato del Pdl Fabio Rampelli a segnalare un altro candidato, Francesco Gasperoni. Con altri aspiranti impiegati, invece, Panzironi ha avuto un filo diretto: la sua ex segretaria Gloria Rojo;Valentina De Angelis, già nella segreteria del sindaco; Edoardo Mamalchi, con il padre dirigente Acea; Silvia Pietropaoli, rampolla di un consigliere di Multiservizi. Stefano Andrini, per esempio, con un passato nell’estrema destra, risulta assunto come quadro a 90 mila euro all’anno dopo una collaborazione al dipartimento esteri di Alleanza nazionale e «studi e incontri per la Fast ferrovie per l’interoperabilità del trasporto ferroviario”. Proprio riguardo a quest’ultimo (condannato per tentato omicidio nei confronti di due militanti di sinistra nel 1991) e a Mericone, Bettidi (Antonio candidato municipale del Pdl e poi distaccato nello staff del Campidoglio), Gallo e Magrone;


Panzironi afferma che gli sono stati segnalati in ambito comunale non ricordando esattamente da chi. Da chi gli è stato segnalato l‘architetto Gianluca Brozzi, 46 anni, cugino di primo grado di Isabella Rauti, consigliere regionale a moglie del sindaco Alemanno.


La seconda tranche di assunzioni è quella realizzata dalla municipalizzata attraverso il Consorzio Elis, consorzio dell’Opus Dei, che non avrebbe potuto procedere alla selezione del personale perché non sarebbe stata iscritta nell’ albo previsto dalla legge Biagi. In secondo luogo, gli aspiranti dipendenti avrebbero sostenuto solo “colloqui confermativi”, come dimostrerebbero le carte in possesso della procura. In questo caso, nel mancato rispetto della legge, sarebbero stati assunte altre 800 persone tra autisti, operatori ecologici e interrogatori. Panzironi all’Ama percepiva circa 545.287 euro l’anno, 380mila euro come a.d. Ama e 165.187 euro come presidente della Roma Multiservizi srl. Ma la storia di Panzironi sembra non avere fine, il 18 ottobre 2012 il Nucleo di Polizia  tributaria della Guardia di Finanza effettua alcune perquisizioni e acquisizioni di documenti nelle sedi della società Roma Multiservizi srl e nella sede dell’Azienda municipalizzata per l’ambiente della capitale, Ama. L’accusa, mossa dal pm Paolo Ielo, è di favoreggiamento ad una società per farle vincere un appalto dal valore complessivo di 14 milioni di euro per i servizi e il noleggio di materiale e vestiario dell’azienda municipalizzata capitolina; illegalità contestata nel 2010 e appalto che sarebbe dovuto durare per 48 mesi. Oltre a Panzironi ci sono altri tre indagati: gli imprenditori Piero Grossi, Fabrizio D’Antino e Luciano Nardi Schultze, tutti accusati di aver usato “mezzi fraudolenti costituiti da un preventivo accordo ed in questo modo avrebbero turbato la gara, predeterminando così caratteristiche e tempi di fornitura tali da impedire ad altri concorrenti di presentare offerte concorrenziali”. Le perquisizioni si sono svolte presso case, uffici e aziende degli indagati, nella sede della So.Ge.Si di Perugia, alla Alfredo Grassi spa a Varese, alla Alsco Italia, all’Ati, ovvero la società che ha vinto la gara, all’Ama e a Roma Multiservizi.


Alla gara d’appalto hanno partecipato svariate aziende provenienti da tutta Italia; Panzironi, secondo l’ipotesi di reato, ha favorito due aziende, la Alsco Italia della provincia di Lodi e la Alfredo Grossi Spa della provincia di Varese. Le eventuali irregolarità sono state denunciate alla procura di Roma dalle altre aziende partecipanti, che poi sono state escluse dall’accusa, le quali sostengono che ci sia stato qualcosa di strano.


Le aziende che hanno vinto l’appalto hanno infatti presentato un’offerta molto più alta rispetto alle altre partecipanti.


Le assunzioni in Ama fanno parte di un intero sistema, quello Alemanno, che allarga il proprio raggio d’azione a dismisura; il Campidoglio ha continuato a dettare le proprie linee guida sulle modalità di gestione degli affari romani.


Un altro protagonista del “sistema Alemanno” è l’uomo che il sindaco ha voluto alla guida di Eur s.p.a. Società controllata dal Campidoglio e dal ministero dell’Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni; e rimasto incastrato nella vicenda delle tangenti della Breda-Menarini bus, Riccardo Mancini. Mancini e Panzironi, ovviamente, si conoscono bene. A novembre 2009, il capo dell’Eur Spa ha assunto Dario, il figlio di Franco, già portaborse al Comune e poi funzionario con contratto a tempo indeterminato. Ma Panzironi non si ferma mai, e dopo le assunzioni arrivano le consulenze. Si va dalla “necessità di effettuare uno studio per l’individuazione di aree e siti idonei all’installazione di impianti di termovalorizzazione e discariche”, a “necessità di un supporto tecnico per ottimizzare le risorse (medici competenti) per prevenzione e tutela della salute dei lavoratori”. A questa voce, nonostante le grandi difficoltà economiche tra la seconda metà del 2008 e il 2010, l’AMA spende milioni di euro.

 

Un processo per Manlio Cerroni


Di fronte all’ottava sezione monocratica del Tribunale di Roma si sta svolgendo un processo contro l’avvocato Manlio Cerroni. Il verdetto dovrebbe arrivare per la prima decade di luglio. È la prima volta che Cerroni deve affrontare l’aula giudiziaria in prima persona per questioni inerenti gli impianti di Malagrotta. In passato altri procedimenti avevano coinvolto i suoi collaboratori. Stavolta Cerroni, che ha 86 anni di età, è accusato dalla Procura di Roma, pm Simona Maisto e Alberto Galanti, di aver fornito dati non veritieri sul gassificatore che ha allestito nell’area di Malagrotta, a ridosso della strada che attraversa la valle Galeria e del corso d’acqua omonimo, uno dei più inquinati d’Italia proprio a causa della discarica e di altre compresenze industriali della zona. I dati sono quelli del serbatoio per l’ossigeno, tarato per 228 tonnellate (la soglia di pericolosità scatta da quota 200 tonnellate). “Dando dati non veritieri, sotto le 200 tonnellate, speravano che nessuno se ne accorgesse”, ha ricordato il pm Galanti. Rilevanti le implicazioni aggravanti di queste comunicazioni falsificate. La prima è stata quella di evitare la cosiddetta normativa Seveso, che riguarda i siti a rischio di grave incidente . In particolare, se fossero stati comunicati dati corretti, il Comune di Roma avrebbe dovuto avviare uno studio sui pericoli riguardanti l’area più vasta che nel caso Malagrotta riguarda tutta l’area industriale di Roma Nord e insediamenti abitativi a partire da quello della Borgata Massimina che è a ridosso della mega-discarica. I dati non corretti sono stati forniti tra l’altro a tutte le autorità coinvolte, a partire dai Vigili del fuoco incaricati di sorvegliare sulla possibilità di esplosioni di gas.


Nel processo che è in corso da oltre due anni sono parti offese il ministero dell’Ambiente e alcune associazioni di residenti, difese da Francesca Romana Fragale, a partire dal Comitato Malagrotta.

Leggi l’intera inchiesta: Dossier AlemannoDossier Alemanno. Roma distrutta in un giorno

Periferie, Bologna quella con più disagio sociale.

Il “rischio banlieue” è al Nord

 

 

   ilfattoquotidiano.it  di Giulia Zaccariello  - 1 dicembre 2014

Periferie, Bologna quella con più disagio sociale. Il “rischio banlieue” è al Nord

È la conclusione di uno studio realizzato e diffuso dalla Fondazione "Leone Moressa", che alla luce degli ultimi episodi di Tor Sapienza ha deciso di accendere i riflettori sulle grandi città, per capire quali siano i livelli di esclusione e marginalizzazione degli stranieri

 

La periferia di Bologna come una polveriera, incubatrice di possibili conflitti e disagio sociale. È la conclusione di uno studio realizzato e diffuso dalla Fondazione “Leone Moressa”, che alla luce degli ultimi episodi di Tor Sapienza ha deciso di accendere i riflettori sulle grandi città, per capire quali siano i livelli di esclusione e marginalizzazione degli stranieri, e il conseguente “rischio banlieue”. Ne esce una cartina dell’Italia rovesciata, con i vertici della classifica occupati dai capoluoghi del nord: la maglia nera va a Bologna, la città più pericolosa, dove a un aumento delle diseguaglianze si aggiunge la riduzione della spesa pubblica per l’integrazione, seguita poi da Milano e Genova. Gli ultimi posti spettano invece a Bari e Reggio Calabria.

 

Da anni specializzata sui temi legati all’economia dell’immigrazione, la Fondazione ha incrociato tre fattori di rischio, mettendo in relazione la condizione socio economica della popolazione straniera, con i tassi di criminalità e la presenza di investimenti pubblici. In particolare, sono stati presi in considerazione i dati relativi alla concentrazione di immigrati nelle periferie, il tasso di disoccupazione, le differenze di reddito tra italiani e stranieri. Ma anche il livello di criminalità tra gli stranieri e la percentuale di detenuti non italiani, insieme alla variazione della spesa comunale per migranti e nomadi, e l’incidenza in questa sul totale dei finanziamenti dedicati all’assistenza. Il risultato di questa combinazione è un “indicatore di precarietà sociale, utile a definire una classifica delle città più a rischio”, ossia quei contesti dove si è generato “terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto”.

 

Nonostante nelle ultime settimane l’attenzione si sia concentrata soprattutto su Roma, il record, secondo lo studio, va al capoluogo emiliano, che ha un indicatore di precarietà sociale pari a 127. Ed è quindi la città con la periferia più a rischio banlieue tra quelle prese in esame. Il motivo: a Bologna, dove la popolazione straniera residente rappresenta il 14.7% del totale (oltre 56 mila persone), incide soprattutto la variabile legata al reddito medio, che per gli immigrati, nel 2013, è stato più basso di 11 mila euro. E se Bologna non spicca per tasso di criminalità, è vero anche che dal 2003 al 2011 la spesa per l’integrazione, pari a 5,2 milioni di euro, è calata dello 0,6%. Insomma, “il rischio di precarietà della periferia è molto alto a causa del forte differenziale di reddito e della diminuzione dell’incidenza della spesa per l’immigrazione”.

 

Al secondo gradino si posiziona Milano, con un indicatore fermo a 122. Qui il 95% degli stranieri abita nelle periferie. E anche il tasso di detenuti non italiani è molto alto: sono almeno 6 su 10. Come per Bologna, il valore che pesa maggiormente è però il differenziale di reddito tra italiani e stranieri (11.300 euro). Subito dopo s’incontra Genova (indicatore 119), con valori poco distanti dalle prime due, seguita da Roma (indicatore 118). Nella media nazionale rientrano invece Venezia, Firenze e Torino, dove la variazione di reddito non è molto alta.

 

Le tre città con il rischio più basso appartengono però all’Italia meridionale. Bari, per esempio, pur avendo un alto tasso di criminalità, ha la più alta spesa pro-capite per l’immigrazione (521 euro) e il più basso differenziale di reddito (5.755 euro). Napoli spicca invece per una scarsa percentuale di detenuti stranieri: sono 9 su 100. Ultima in graduatoria Reggio Calabria, dove dal 2003 a oggi sono saliti i finanziamenti per l’immigrazione, Questi rappresentano il 10% dell’intera spesa per l’assistenza sociale.

 

Più di mille fiaccole per Cucchi

 

 

   oltremedianews.it    by Nicola Gesualdo   -  8 novembre 2014

Davanti al palazzo del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) blindato dalle forze dell’ordine, in piazza Indipendenza a Roma, più di mille persone hanno dato vita ad un presidio emozionante e intriso di contenuti.

Sul palco si  sono succeduti i familiari di Stefano Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo e tanti altri familiari di vittime dello Stato: Magherini, Budroni, Mastrogiovanni.

 

Parole toccanti e di rabbia; una rabbia verso chi dovrebbe tutelare il cittadino e invece ne diventa il carnefice.

Al presidio, organizzato dall’associazione ACAD (associzione contro gli abusi in divisa), si sono registrate le parole di alcuni organizzatori che hanno invitato la cittadinanza a non rimanere chiusa nel mondo virtuale ma esternare la propria rabbia contribuendo attivamente alle battaglie portate avanti dall’associazione e dalle famiglie.

 

Inoltre l’associazione denuncia la media di una segnalazione al giorno riguardante abusi di qualsiasi genere da parte delle forze dell’ordine.  

     

Colpisce l’orgoglio e allo stesso tempo la pacatezza dei familiari delle vittime, i quali riescono a trasmettere questi sentimenti ad una “platea” che oggi ha alzato 1000 candele al cielo per chiedere giustizia e per  porre fine ad una cultura repressiva che nel nostro paese si respira sempre di più.

Intanto ieri il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, d’accordo con i due procuratori del caso Cucchi, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, ha annunciato di aver aperto un’indagine (senza indagati né ipotesi di reato) sul perito Paolo Arbarello. L’ex direttore del dipartimento di medicina legale dell‘università La Sapienza e consulente dei pm, nei giorni scorsi era stato infatti accusato da Ilaria Cucchi di aver redatto, per i pm, una falsa perizia  sulla morte del fratello.

#14N. Verso lo Sciopero Generale Sociale

 

 

    oltremedianews.it  By Veronica Pavoni  -  5 novembre 2014

#14N. Verso lo Sciopero Generale Sociale

Domenica 2 Novembre, a Portonaccio (Roma), presso Officine Zero, si è svolta l’Assemblea Nazionale per coordinare lo Sciopero Generale Sociale del 14 Novembre.

 

In centinaia i cittadini che si sono dati appuntamento per ‘incrociare le lotte’ nel giorno in cui lavoratori, studenti e disoccupati ‘incroceranno le braccia’ nella giornata di mobilitazione nazionale. Hanno preso la parola i rappresentanti dei laboratori e comitati territoriali, ognuno con la sua testimonianza a rappresentare le piccole lotte territoriali dislocate in tutto lo stivale: ben 61 città, fra cui Roma, Napoli, Bologna, Torino, Genova, Padova, Milano, Firenze, Bari, Pisa, Venezia.

 

Rete della Conoscenza, USI, USB, Forum Acqua Bene Comune, Sindacato è un’altra cosa, e molti altri. Ha preso la parola anche Michele De Palma, coordinatore nazionale Fiat-auto della Fiom-Cgil e Piero Bernocchi, insegnante, sindacalista e politico italiano che ha sottolineato quanto sia importante il risultato del 14: ‘utilizzando una metafora calcistica: quando si vince lo spogliatoio si compatta, quando si perde lo spogliatoto litiga’. Ecco che nella giornata di oggi i laboratori, le associazioni e i cittadini si sono incontrati per coordinare le pluralità che scenderanno nelle piazze il 14. Il 10 ottobre ha manifestato la scuola, il 16 i migranti, il 7 novembre ci sarà una giornata d’azione contro il Piano Garanzia Giovani, il 14 ci sarà lo Sciopero Generale Sociale. Dopo il 14 la mobilitazione e le giornate d’azione non si fermeranno e giovedì 6 novembre, sempre presso Oz | Officine Zero (via U. Partini, 20 – Casal Bertone), h. 19, ci sarà un’altra assemblea in cui si parlerà di nuovi ammortizzatori sociali con gli avvocati e commercialisti delle CLAP.

Dossier immigrazione. E’ tempo di diritti

 

 

     oltremedianews.it  -  1 novembre 2014

 

Presentazione del Dossier Statistico sull’immigrazione 2014 presso il Teatro Orione a Roma, nel quartiere San Giovanni. Un quartiere nel quale compaiono sempre più spesso scritte razziste, pochi mesi fa delle scritte antisemite e svastiche sono apparse sui muri e sulle serrande di negozi. Si è trattato di frasi offensive contro gli ebrei scritte con vernice nera. Numerosi anche i manifesti apparsi con su scritto: “Ogni palestinese e’ come un camerata, stesso nemico stessa barricata”.


Il Dossier è stato presentato dal’UNAR, alla presenza del presidente Marco De Giorgi (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e da Franco Pittau del Centro studi e ricerche IDOS.

 

Alla presenza di Domenico Manzione (Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno), Giovanna Martelli (Consigliere del Presidente del Consiglio per le pari opportunità) e Franca Biondelli (Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali); inoltre sono intervenuti Paula Baudet Vivanco (Associazione nazionale stampa interculturale) e Radwan Khawatmi (Imprenditore straniero in Italia).

 

La stessa Biondelli ha rimarcato come il razzismo si sia esteso anche e soprattutto in rete, tramite i social network.

 

Durante il suo intervento ha parlato di minacce ricevute proprio tramite i social network e ha rimarcato il ruolo di strumentalizzazione assunto da alcuni partiti o organizzazioni politiche che per raccattare voti si lasciano spesso andare a proseliti xenofobi.

 

Nel mondo si contano 7 miliardi e 124 milioni di persone. Se la ricchezza mondiale fosse equamente distribuita, ciascuno disporrebbe di un reddito medio di 14 mila dollari (USA) annui a parità di potere d’acquisto. Purtroppo sono oltre 2,7 miliardi le persone che sopravvivono con un reddito al di sotto della soglia di povertà: 2,5 dollari al giorno; di questi oltre mezzo miliardo di persone vive in Africa. Dati che davvero fanno rabbrividire e riflettere. Una tale disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza esercita il suo impatto sulla mobilità internazionale, contribuendo a determinare gli spostamenti verso i paesi più ricchi. Alla fine del 2013 i migranti nel mondo sono stati stimati dalle Nazioni Unite in 232 milioni, il 3,3% della popolazione mondiale, tra i quali 175 milioni di lavoratori.
Nell’Unione Europea, a fine 2012, i residenti con cittadinanza diversa da quella del paese in cui vivono sono 34.061.000. Le presenza più costanti si registrano in Germania (7.696.000), Spagna (5.072.000), Regno Unito (4.929.000), Italia (4.992.000 nel 2013), anche se IDOS stima una presenza di 5.364.000 di persone in posizione regolare in Italia.


Nel mondo sono 1,2 milioni i richiedenti asilo politico la cui posizione è ancora in corso di definizione e 16,7 milioni quelli che hanno ottenuto lo status di rifugiati o una forma di protezione. In Italia, paese maggiormente esposto per la sua posizione geografica ai flussi migratori, le persone sbarcate sono state 130 mila nei primi mesi del 2014 al cospetto dei 43 mila dell’intero 2013, con almeno 3 mila persone morte durante quest’ultimo anno.
L’operazione Mare Nostrum ha salvato circa 127 mila persone.

In Italia le richieste di asilo nel 2013 sono state circa 26.620, mentre i migranti nei centri di accoglienza erano oltre 61 mila.


I casi di discriminazione segnalati all’UNAR sono stati, nel 2013, 1142. Consistenti sono le discriminazioni in ambito della vita pubblica ma anche nel mondo del calcio ci sono state tantissime segnalazioni di razzismo, molte provenienti dai cosiddetti campi minori.

Spesso gli atteggiamenti di chiusura sono dettati da visioni parziali e poco chiare del fenomeno migratorio, che contrasta con il suo carattere strutturale. L’UNAR auspica un intervento più incisivo da parte delle istituzioni, che non possono limitarsi a uniformarsi a posteriori a dettami della giurisprudenza e delle Direttive europee. E’ tempo di passare dalle discriminazioni ai diritti.

 

Gli stranieri residenti nel Lazio alla fine del 2013 sono 616.406. L’incremento degli stranieri nella regione è un risultato che supera il valore medio nazionale e che aumenta anche rispetto all’anno precedente. Secondo l’INAIL i nati all’estero occupati in regione sono stati 335.495, il 9,4% del totale nazionale. 275.828 lavoratori migranti sono a Roma, cioè l’82,2% del totale. Gli studenti stranieri iscritti nelle scuole laziali sono 77.071 di cui il 78,4% è concentrato nella Capitale.

 

Una situazione da denunciare è quella dell’Agro pontino, zona in cui i lavoratori stranieri sono costretti a lavorare anche 12-15 ore al giorno compresa la domenica. Addirittura tra i sikh (comunità indiana), c’è chi parla di sostanze dopanti per sostenere le massacranti ore di lavoro. Secondo le testimonianze questo traffico è gestito da italiani.

Roma. Come strumentalizzare una tragedia

 

 

 oltremedianews.com  di Nicola Gesualdo  - 28 ottobre 2014

 
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A Roma una tragedia colpisce un'intera famiglia. Immediata la strumentalizzazione sull'accaduto da parte di una classe politica che sta facendo galleggiare l'Italia nell'immobilismo.

 

Una donna e 2 bambini morti, un'altra bambina in ospedale in fin di vita e un uomo, anch'egli in ospedale distrutto per la strage che ha colpito la propria famiglia. Questo lo scenario in cui si sono trovati gli abitanti di Via Carlo Felice (Quartiere san Giovanni) e gli occupanti del Sans Papiers, Centro sociale occupato da 10 anni a Roma. 

Immediata la strumentalizzazione di chi vuol nascondersi, ancora una volta, dietro un dito facendo finta di analizzare il problema dell'immigrazione e dell'abitare. Immediatamente il Sans Papiers e le occupazioni in generale diventano il capro espiatorio per Khalid Chaouki deputato Pd e responsabile immigrazione del Partito Democratico di Roma: “La tragica notizia del ritrovamento del corpo di una donna marocchina e dei suoi due bambini nel Centro Sociale Sans Papiers, sottolinea ancora una volta linadeguatezza dei centri e delle strutture occupate abusivamente nella Capitale– sottolinea in una nota - Occorre prendere una posizione netta contro queste situazioni di illegalità per garantire il bene di chi abita in quelle strutture e per risanare quei contesti dove migliaia di persone continuano a vivere in condizioni disumane e fuori da qualsiasi tipo di controllo”.

Si limita a rimarcare l'illegittimità di chi vive in quel palazzo senza analizzare realmente il perché quella gente vive in un palazzo occupato, senza chiedersi come mai le occupazioni abitative a Roma, e non solo, sono in forte aumento; afferma che bisogna “garantire il bene di chi abita in quelle strutture”, senza pensare che forse bisognerebbe garantire il bene di chi dovrebbe avere il diritto ad un lavoro per poter vivere e non sopravvivere, si dovrebbe pensare a garantire chi non ha la possibilità di avere un tetto sopra la propria testa. 
Il deputato Pd e tutta la classe politica italiana, devono capire che tanta gente non vuole rimanere nell'immobilismo in cui loro ci vogliono far vivere.

Lo sciacallaggio dei media continua, addirittura qualcuno chiude un articolo di cronaca nera in questo modo: “A destra del portone c'è la serranda del centro sociale Sans Papiers, manifesti rossi, annunci di iniziative e scioperi per la casa. E qualcuno ricorda ancora la cacciata con la forza, undici anni fa, del portiere, allora l'ultimo abitante rimasto nel palazzo della Banca d'Italia, chiuso perché doveva essere ristrutturato. Ma è rimasto così.”

                                                                                                                                       

 

 

Caso Sharifi et al. v. Italia e Grecia - La Corte di Strasburgo

condanna l’Italia. Un ricorso costruito dal basso

ferma i respingimenti dai porti dell’Adriatico

 

Fu un trattamento disumano e degradante,

violato il divieto di espulsioni colelttive ed il diritto ad un ricorso effettivo

 

 

meltingpot.org  di  Alessandra Sciurba  -  22 ottobre 2014
 

Tutto comincia con la morte di Zaher Rezai, in Via Orlanda a Mestre, l’11 dicembre del 2008. Un ragazzino afghano che, dopo mesi di viaggio e 9000 chilometri percorsi da solo, si era imbarcato dal porto di Patrasso, nascosto sotto un tir come migliaia di altri minori, per fuggire dalle violenze della Grecia: un paese già condannato dalla Cedu per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei migranti e dove è impossibile chiedere protezione internazionale.
Ma neanche una volta arrivato in Italia Zaher aveva potuto palesarsi, perché sapeva che dal porto di Venezia, come da quelli di Ancona, Bari e Brindisi, si viene rimandati indietro, dentro cabine di ferro senza acqua né cibo, rimessi in mano alla polizia greca e poi rispediti in Turchia e da lì, ancora una volta, nell’orrore afghano. Allora Zaher è rimasto nascosto finché il camion non è uscito dalla nave, finché non ha iniziato ad allontanarsi dal porto, le piccole mani strette ad aggrapparsi sotto la pancia del tir: non ce la fa, scivola, viene travolto. Nelle sue tasche quattro animaletti di gomma e alcune bellissime poesie: giardiniere, apri le porte del giardino, io non sono un ladro di fiori.

 

Le associazioni veneziane della Rete Tutti i diritti umani per tutti sapevano già da tanti racconti quello che avveniva ai porti. Lo sapeva anche l’Ambasciata dei Diritti di Ancona che si unisce, anch’essa inascoltata da tutte le istituzioni, alle denunce.

 

Il 19 dicembre del 2008 le associazioni veneziane scrivono una lettera aperta a tutti gli enti chiamati a gestire il servizio di accoglienza al porto di Venezia chiedendo di rifiutare ogni incarico senza prima avere rinegoziato i criteri minimi per garantire la tutela dei profughi. Il Cir decide di accettare comunque e gestisce per anni la sua presenza al porto di Venezia, ( ma dopo poco inizia a denunciare anche pubblicamente le troppe ombre con cui è costretto a convivere).

 

Il sangue di Zaher però, su quella strada di Mestre, spinge a fare qualcosa di diverso. Partire, andare a ritroso sulle tracce dei respinti, trovarli, dare loro voce. Perché i ricorsi alla Cedu funzionano così: deve essere la vittima a fare appello, servono delle procure firmate.

In pochi, allora, partiamo con in testa l’idea di permettere ai respinti di ricorrere alla Corte europea di Strasburgo, con me anche Anna Milani e Basir Ahang, rifugiato politico e giornalista afghano. È il 2009, arriviamo a Patrasso dopo 37 ore di viaggio in nave. Aiutati da Kinisi, un’associazione di attivisti del luogo incontriamo subito migliaia di afghani relegati in un campo informale ai margini della città che sarà dato alle fiamme dalla polizia pochi mesi dopo. Ci sono anche dei sudanesi e degli eritrei che hanno scelto la strada dell’Est per sfuggire alle torture libiche e al cimitero del Mediterraneo.

 

Ma muoversi a Patrasso è difficile, siamo seguiti a vista dalla polizia greca, fermati per ore con l’assurda accusa di traffico internazionale di stupefacenti solo perché parlavamo coi migranti, e poi lasciati andare grazie all’intervento della rete di avvocati greci che avevamo preventivamente contattato per autenticare le firme che avremmo raccolto. Ci rifugiamo nel campo e ci restiamo per giorni.

 

Spieghiamo ai profughi cosa siamo andati a fare, dopo poco si fidano di noi. Piove per tutto il tempo in cui restiamo lì, ma fuori dalla capanna di legno e cellofan costruita dai migranti e in cui ci ospitano per raccogliere le storie e le procure, c’è una fila di centinaia di persone.

Ne raccogliamo molte, di storie, ma solo 35 sono complete della documentazione necessaria. Torniamo in Italia con il nostro carico di speranza. Rifacciamo il viaggio da patrasso a Venezia. Nei garage osserviamo gli autisti guardare freneticamente, prima dello sbarco, sotto e dentro i loro mezzi per accertarsi di non avere a bordo “clandestini”.

 

Al porto vediamo la polizia portare i tir in apposite zone coperte per controllarli, usano sofisticate apparecchiature per passarli ai raggi, incuranti del fatto che questi sistemi, se davvero ci fossero delle percorse nascoste, causerebbero loro gravi danni alla salute.

Una volta a casa coinvolgiamo le persone giuste: il Prof. Fulvio Vassallo Paleologo e l’avvocata Alessandra Ballerini di Genova. Con loro e con l’Avvocato Luca Mandro di Venezia , dell’Associazione Tutti i diritti umani per tutti, viene costruito il ricorso, e poi inviato a Strasburgo. Da quel momento inizia l’attesa. Un’attesa lunga anni in cui la caparbietà dell’avvocata Ballerini ha avuto qualcosa di epico.

Presa Diretta nel frattempo decide di dedicare a questi respingimenti una puntata , Gian Antonio Stella scrive un editoriale sul corriere della Sera, in prima pagina.

 

Ma se i media finalmente ci ascoltano, le autorità governative rimangono sorde

 

A Venezia chiediamo incontri con l’autorità portuale, la prefettura, la polizia di frontiera, ma nessuno ammette l’illegalità delle pratiche di respingimento. Nonostante l’Acnur, da anni, raccomandasse di non rimandare i migranti verso la Grecia, nonostante anche alcuni assessori del Comune di Venezia come Gianfranco Bettin e Sandro Simionato, consiglieri comunali come Beppe Caccia, e l’allora sindaco della città Massimo Cacciari avessero pubblicamente preso posizione in nostro favore.

 

Chi gestisce i respingimenti, allora sotto gli ordini del Ministro degli interni del tempo, il leghista Roberto Maroni già autore dei respingimenti verso la Libia anch’essi condannati dalla Cedu, continua a dire che ogni cosa avviene in regola: esiste infatti un protocollo tra Italia e Grecia risalente al 1999 che prevede i respingimenti con affido al comandante. Peccato che, come abbiamo sempre denunciato, quel protocollo, essendo in aperta violazione con gran parte della normativa Ue e internazionale sui diritti umani e le frontiere, non possa essere applicato, sia totalmente illegale.

E poi, nell’aprile del 2009, arriva la prima risposta: nonostante i governi italiano e greco avessero chiesto alla Corte di Strasburgo di considerare inammissibile il ricorso per dubbi sull’identità dei ricorrenti, la Cedu lo accoglie.

 

Un primo straordinario risultato per un intervento interamente costruito dal basso, senza grandi enti o associazioni alle spalle. Solo la voglia di credere che davanti a una violenza così a lungo perpetrata non si può restare immobili, e che anche contro i poteri più forti, contro l’omertà, contro chi nega l’evidenza, si deve osare.

 

E oggi abbiamo vinto. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo condanna l’Italia e la Grecia per la violazione di alcuni diritti fondamentali di 4 dei 35 ricorrenti di cui, tanti anni fa, abbiamo raccolto le storie e le procure a Patrasso. Gli altri, in questi anni sono stati rimandati in luoghi dove è difficile che siano sopravvissuti, nonostante la Corte avesse intimato alla Grecia, ex art. 39 Cedu, di sospendere contro di loro ogni espulsione.

 

La sentenza del 21 ottobre condanna quindi la Grecia per violazione dell’art. 13 Cedu (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e l’Italia per violazione dell’art. 4, Protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive), nonché per violazione dell’art. 3, “perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese”. L’Italia è stata inoltre condannata per la violazione dell’art. 13 combinato con l’art. 3 e con l’art. 4 del Protocollo 4 per l’assenza di procedure d’asilo o di altre vie di ricorso nei porti dell’Adriatico.

 

La Corte, si legge ancora nel suo comunicato stampa immediatamente successivo alla sentenza, “condivide la preoccupazione di diversi osservatori rispetto ai respingimenti automatici attuati dalle autorità frontaliere italiane nei porti dell’Adriatico, di persone che sono il più delle volte consegnate immediatamente ai comandanti dei traghetti per essere ricondotte in Grecia, essendo in tal modo private di ogni diritto procedurale e materiale”.

 

Da domani, questi respingimenti devono essere sospesi, perché dopo anni di denunce, dopo tutti i nostri viaggi in Grecia, dopo manifestazioni e commemorazioni, quelle che abbiamo sempre condannato come violazioni dei diritti fondamentali hanno avuto un riconoscimento ufficiale da cui nessuna autorità italiana potrà più prescindere.

 

Ogni battaglia ha avuto un senso, finalmente. Lo ha avuto la Campagna Welcome. Indietro non si torna, che il 20 giugno del 2010 ha lanciato una manifestazione internazionale tra i porti italiani e quelli greci contro i respingimenti.
Hanno avuto senso tutte le denunce di questi anni, anche recentissime, i dossier e i libri pubblicati, gli incontri pubblici con centinaia di persone, le incursioni di tanti attivisti nei porti, salutate dalla polizia di frontiera con cariche, violenze e denunce.

Ha avuto senso la costituzione di un Osservatorio antidiscriminazioni razziali a Venezia, fondato dall’Associaizone SOS Diritti insieme all’Unar e al Comune che ha chiesto e ottenuto i dati dei respingimenti al porto.

 

Non hanno avuto senso, quelle no, le tantissime morti di tutti quei migranti che stavano esercitando un diritto e sono stati uccisi, come Zaher, dalla frontiera italiana dell’Adriatico. Questa piccola enorme vittoria è per tutti loro.

 

Roma. Un corteo per una vivibilità migliore

 

 

 oltremedianews.com  di Nicola Geualdo - 18 ottobre 2014

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Il 18 ottobre in tantissime città europee i movimenti, le reti, le realtà sociali sono scese in piazza con le parole d’ordine “Stop evictions, take the city!” per denunciare le politiche neoliberiste di privatizzazione dei servizi e dei beni comuni, dall’acqua al suolo, dalla sanità al trasporto, dall’istruzione alla cultura, la vendita del patrimonio pubblico, lo sfruttamento dei territori.

 

Oggi nel quartiere Centocelle si è tenuta la manifestazione contro speculazione, sfratti e sgomberi. Circa 2000 persone hanno attraversato il quartiere est della capitale fino a giungere a Largo Preneste. Uno striscione apriva il corteo "Riprendiamoci la città".


A Roma c'è un numero che fa davvero paura a chi non può permettersi il lusso di affittare una casa: uno sfratto ogni 246 famiglie. Sì, perché ormai affittare un'immobile è diventato un lusso per pochi. 

Tantissima la gente e tante le istanze portate in piazza: dalla lotta per l'abitare fino alla resistenza di Kobane, in Siria. 
 
"Metro C...vostra. Tempo scaduto" una delle scritte lasciate nei pressi di un cantiere della metro C.

Politiche di austerità che precarizzano e impoveriscono le vite di milioni di persone, a cui si chiede di pagare il costo della crisi, mentre gli interessi economici privati e la rendita mettono a profitto le città, con progetti speculativi legati al cemento e ad attività economiche e commerciali che stanno cambiando le relazioni e i volti di molti quartieri
Un modello devastante contenuto nei provvedimenti del governo Renzi in tema di casa e lavoro, che sanciscono il “modello Expo” come paradigma del nostro futuro e che si sta dotando di diversi strumenti per impedire un’opposizione a tutto questo.

La realizzazione di una metropolitana, l'abbellimento di una strada e l'apertura di locali per la movida fanno crescere i prezzi di mercato degli immobili e molti proprietari decidono di aumentare i canoni di affitto. Dall'altra parte gli edifici pubblici vengono svenduti o ceduti società private. L'housing sociale e l'edilizia convenzionata portano nei quartieri altro cemento e soldi ai soliti costruttori e speculatori, si legge in uno dei tanti volantini distribuiti a chi osserva il corteo attraversare le strade e guardare chi fa parte di questo fiume di combattivi come se fossero degli alieni.

 

 

Ad un anno dalla tragedia di lampedusa.

L'inutile pianto della politica

 

 oltremedianews.com di Michele Trotta - 3 ottobre 2014

 
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Un anno fa la tragedia di Lampedusa mieteva 366 vittime a pochi metri dalle coste lampedusane. Oggi, accanto al dolore di migranti superstiti e dei lampedusani, il pianto dei politici presenti. Un cordoglio tardivo perché tante sono le domande insolute sul tema dell'immigrazione e miopi le risposte sin ora fornite


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Un anno fa la tragedia di Lampedusa. Alle 7:00 ore locali del 3 Ottobre 2013 un peschereccio di 20 metri pieno di migranti africani e partito dal porto libico di Misurata prende fuoco capovolgendosi su se stesso dinanzi all'Isola dei Conigli. Immediato l'allarme per quella che sarebbe passata alle cronache come il più grave incidente marittimo avvenuto nel Mediterraneo nel XXI secolo. Sì perché in quell'incendio perdono la vita circa 366 persone con soli 155 superstiti. 

Oggi, ad un anno da quella strage che sconvolse l'isola siciliana, migranti superstitisoccorritori, lampedusani che ospitarono gli africani nelle loro case ed autorità politiche hanno ricordato quel giorno in cui ''i cadaveri nell'acqua si confondevano con gli scogli e le ombre del mattino''. Presenti anche Shulz (presidente del Parlamento Europeo), la presidente della Camera Boldrini ed il ministro degli esteri Federica Mogherini. Tanta commozione e qualche contestazione da parte di attivisti contrari alle passerelle dei politici in quella che è stata una cerimonia dedicata alla memoria di un giorno nero della storia recente italiana ed europea.

Un giorno nero che continua ancora a far discutere, con le domande insolute che il fenomeno migratorio e la globalizzazione pongono al Vecchio Continente, ancora una volta incapace di adottare politiche comuni ed elaborare risposte condivise che affrontino la questione per i decenni a venire. Forse può essere spiegata così l'insofferenza per la presenza di un rappresentante delle istituzioni europee come Shulz. Ed ineffetti, se della pochezza del dibattito politico italiano molti ne fossero già convinti da parecchio, non da meno sono le risposte comunitarie. Non una vera collaborazione nella messa in sicurezza delle frontiere, non una politica estera comune nei confronti delle situazioni critiche del nordafrica. Né tantomeno investimenti ingenti in accordi multilaterali con i paesi di confine. L'incapacità europea di far quadrato sugli eventi che oggi sconvolgono le rive a noi opposte del mediterraneo, sta tutta in quel bombardamento francese ad un paese tendenzialmente alleato dell'Italia quale era la vecchia Libia di Gheddafi. Ora si parla dell'Italia del Mare Nostrum, ma tornando indietro di qualche anno ai tempi delle crisi balcaniche anche la Germania subì un'ondata di immigrazione pazzesca. Guerre per il cibo e l'acqua, conflitti per interessi geopolitici di singole nazioni, rivolte interne, estremismo islamico, malattie, questione palestinese, questione ucraina. Diciamola tutta: se il salto da Comunità Economica Europea a Unione Europea era stato compiuto proprio in ragione di una maggiore integrazione politica sulle grandi questioni del XXI, la pochezza della risposta al fenomeno migratorio basta a certificare il colossale fallimento di questa esperienza.

''L'Italia ha fatto tanto, l'Europa meno'' ha ammesso Shulz. Il riferimento è all'operazione Mare Nostrum con la quale il governo italiano, trasformando in missione nazionale speciale un'attività già svolta in precedenza dalla Guardia Costiera siciliana, ha investito nell'ultimo anno ingenti risorse per implementare il controllo dei mari sino ad operare a poche miglia dalle coste nord africane nel recupero di barconi stracolmi di migranti prima che gli stessi prendessero mare aperto con tutti i rischi del caso. Una sorta di missione umanitaria che verrà fatta propria dall'Unione Europea nell'ambito del progetto ''Frontex Plus'' come anticipato da Alfano. Una ricetta che però continua a dividere l'opinione pubblica italiana ed europea: c'è chi la ritiene giusta in quanto volta a ridurre al minimo ulteriori stragi del mare, c'è invece chi la ritiene un favore agli scafisti che continuano a fare affari d'oro sulla pelle dei migranti africani. Di sicuro non è una ricetta a lungo termine. 

La vera e propria tratta dei braccianti africani ha come punti d'arrivo le campagne italiane dove mai come oggi è reale il fenomeno dello sfruttamento schiavista, quando non i famigerati CIE. I più fortunati scappano e finiscono a Parigi o Calais, il porto sulla Manica dove si ammassano migliaia di africani in fuga da guerra e fame col sogno di imbarcarsi per la Gran Bretagna. Non grandi prospettive nell'Europa malata e nell'Italia del declino economico industriale. E allora tornano le domande sulle cause dei fenomeni migratori di massa, con alcune sorprese che testimoniano la pochezza del dibattito italiano: convinti di essere il paese frontiera d'Europa che più subisce l'immigrazione, attualmente nel Belpaese ci sono circa 4milioni di immigrati (censimento ISTAT 2011), meno dei 7,4 ospitati dalla Germania, dei 5milioni in Spagna, dei 4,8 di Gran Bretagna e Francia; se si approfondisse un po' la materia, poi, la sorpresa nel guardare l'entità delle comunità straniere in Italia sarebbe doppia: con rispettivamente 933mila e 466 mila presenze quella romena e albanese sono le comunità più numerose, seguite, in ordine di grandezza, da quella marocchina, cinese, ucraina, filippina, indiana, moldava, pakistana. La domanda sorge spontanea: dove sono gli africani e quali sono i canali d'arrivo dei popoli orientali? Insomma, mentre noi e i nostri politici guardiamo verso il nord africa, dall'oriente arrivano immigrati ammassati in Tir e container. 


Con questo non si vuole dire che bisogna fregarsene dei morti africani, ma semplicemente che il fenomeno dell'immigrazione non può essere affrontato con respingimenti o salvataggi in extremis, né sbolognando il problema al paese vicino, non bastano le odiose passerelle dei politici italiani ed europei, né norme restrittive che perseguono l'idea claustrofobica ed irreale dell'Italia come isola felice mentre intorno il mondo affonda nella povertà e nella disuguaglianza.

 

 

L’OIM:QUASI 40.000 I MIGRANTI

MORTI NEL MONDO DAL 2000

 

Pubblicato oggi il rapporto “Fatal Journeys”, raccolta dati sui migranti morti nel mondo

 

    italy.iom.int  -   29 settembre 2014

Migranti salvati a bordo dalla marina militare italiana, il 1 giugno 2014. (Antonio Parrinello, Reuters/Contrasto)

 


Ginevra 29 settembre -  L'OIM presenta oggi il rapporto di “Fatal Journeys: Tracking lives lost during Migration,” la raccolta di dati più aggiornata al mondo relativamente ai decessi di migranti, per terra e per mare.

Secondo le stime presentate nel rapporto, sono quasi 40.000 i migranti morti dal 2000: un dato preoccupante, per cui  l’OIM rivolge ai Governi di tutto il mondo un appello a contrastare questo fenomeno.

“Il nostro messaggio è chiaro: tanti migranti stanno morendo,” afferma il Direttore Generale dell’OIM William Lacy Swing, “è arrivato il momento di fare di più che contare il numero delle vittime. E’ tempo di fare fronte comune affinché i migranti in gravi difficoltà non debbano subire violenze.”


missingmigrantsproject2014_3_2.jpg Il lavoro di ricerca cha ha portato alla pubblicazione di “Fatal Journeys” - rapporto di circa 200 pagine - è cominciato con la tragedia dell’ottobre del 2013 quando più di 400 migranti morirono nei due naufragi vicino all’isola italiana di Lampedusa. Lo studio, effettuato nell’ambito del progetto dell’OIM “Missing Migrants Project”, mostra come l’Europa sia la destinazione più pericolosa al mondo per i migranti “irregolari”: dal 2000 sono oltre 22.000 i migranti che hanno perso la vita durante i pericolosi viaggi attraverso il mar Mediterraneo.

Oltre a raccogliere dati sui migranti morti nel mondo, il Missing Migrants Project dell’OIM è parte di uno sforzo maggiore volto ad aumentare l’utilizzo dei social media per coinvolgere le comunità di tutto il mondo. Con il tragico naufragio di questo mese a Malta, gli uffici dell’OIM in tutto il mondo hanno ricevuto chiamate ed e-mail da tutta Europa e dal Medio Oriente da parte di familiari alla ricerca di informazioni sui loro parenti dispersi, molti dei quali si teme siano deceduti.

Inoltre, il Missing Migrants Project sarà utilizzato come deterrente, per cercare di evitare che altre potenziali vittime intraprendano questi viaggi pericolosi.

“Le persone stanno già cercando su Facebook informazioni riguardo ai migranti dispersi. Sappiamo inoltre che molti migranti diventano vittime di traffico usando Facebook ” riferisce il portavoce dell’OIM Leonard Doyle. “Vogliamo trasformare #MissingMigrants in uno strumento efficace per scoraggiare i migranti a intraprendere questi viaggi pericolosi in futuro. Non verranno utilizzati poster o spot alla radio, ma si userà il mezzo più efficace e convincente a disposizione: le voci dei sopravvissuti e dei familiari dei migranti dispersi.”

I dati riportati in “Fatal Journeys” riferiscono come il bilancio delle vittime in Europa sia salito a quasi 4.000 decessi dall’inizio del 2013, e ammonti a più di 22.000 dal 2000. La ricerca dell’OIM riporta che dal 2000 sono avvenuti quasi 6.000 decessi lungo il confine tra Stati Uniti e Messico e che altri 3.000 decessi sono stati registrati in altre aree come Africa Sub-Sahariana e nelle acque dell’Oceano Indiano.

Si ritiene tuttavia che il numero reale delle vittime sia superiore rispetto a quanto si sia riuscito a indicare in “Fatal Journeys”. Ci sono poche statistiche dettagliate a disposizione, poiché la raccolta di dati sui decessi dei migranti non è stata finora considerata una priorità dai Governi.

“Nonostante grandi somme di denaro siano spese per raccogliere informazioni sulla migrazione e sul controllo delle frontiere, sono infatti pochi i Governi che hanno raccolto e pubblicato dati su questo tragico fenomeno,” ha detto Frank Laczko, autore di “Fatal Journeys” e Responsabile dell’Unità per le Ricerche sulla Migrazione dell’OIM. Molti incidenti hanno luogo in regioni remote e spesso non se ne ha notizia.

Nessuna organizzazione a livello globale è al momento responsabile del monitoraggio sistematico del numero di decessi che avvengono. I dati tendono a essere sporadici, e sono diverse le organizzazioni che si occupano di rilevare i decessi. Alcuni esperti ritengono che per ogni corpo ritrovato ce ne siano almeno altri due dei quali non si viene mai a conoscenza.

L’OIM ritiene che la pubblicazione di “Fatal Journeys” contribuirà a gettare luce su quella che può essere considerata un’epidemia crescente di crimini contro i migranti. E’ un buon punto di partenza per poter comcinciare a comprendere in modo più accurato ciò che accade alle vittime. Le informazioni che verranno raccolte potrebbero inoltre essere utili alle autorità per a identificare e perseguire i responsabili di questi crimini.

“E’ paradossale, in un momento storico in cui una persona su sette al mondo è un migrante, vedere quanto sia dura la risposta del mondo “sviluppato” nei confronti della migrazione”, afferma il Direttore Generale Swing. “Le limitate opportunità disponibili per poter migrare in modo sicuro e regolare spingono gli aspiranti migranti nelle mani dei trafficanti, i quali alimentano un mercato senza scrupoli che minaccia le vite delle persone più disperate.”

Il Direttore Swing conclude: “Dobbiamo porre termine a questo fenomeno. I migranti irregolari non sono criminali ma esseri umani che hanno bisogno di protezione e assistenza, e meritano rispetto”.

Il Rapporto può essere scaricato da:
https://www.iom.int/files/live/sites/iom/files/pbn/docs/Fatal-Journeys-Tracking-Lives-Lost-during-Migration-2014.pdf

Per ulteriori informazioni:

OIM Ginevra:
Frank Laczko, Tel: +41 22 717 94 16, Email: flaczko@m.int Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ;
Leonard Doyle Tel: +41 79 285 71 23, Email: ldoyle@iom.int Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ;
Christiane Berthiaume Tel: +41 79 285 4366, Email: cberthiaume@iom.int Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo ;
Joel Millman, Tel: 41 22 717 9486, Tel. 41 79 103 87 20, Email: jmillman@iom.int. Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

OIM Roma:  
Flavio di Giacomo, Tel: +39 06 44 186 207, Email: fdigiacomo@iom.int Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

 

L’incompatibilità tra Ue e Mare nostrum

 

notiziegeopolitiche.ne di Giovanni Caprara – 20 agosto 2014

extracomunitari

L’obiettivo dell’Operazione Mare Nostrum è quello di intervenire a supporto degli esuli, avvicinandosi il più possibile ai porti dei Paesi nord africani dai quali salpano i barconi fatiscenti che li traghettano in Europa.


La speranza era che tale Operazione fungesse come deterrente nei confronti di coloro che organizzano questo illecito traffico di esseri umani, intercettandoli ancor prima che abbandonassero al loro destino i passeggeri e cogliendoli, dunque, in piena flagranza di reato. Punibile, in base a quanto prescrive la giurisprudenza, con la detenzione da 5 a 15 anni.


Tale deterrenza si è trasmutata in illusoria, in quanto Mare Nostrum è stata interpretata come un aiuto per raggiungere le coste italiane dai trafficanti, i quali sperano poi nella riduzione della pena comminata.


Il destino dei migranti non è vincolato da chi presta loro aiuto e basandosi su quanto recita il Diritto di Navigazione Internazionale, la valutazione di dove scortarli dovrebbe essere presa in base alla zona in cui è avvenuto il contatto. Dunque, la nazione soccorritrice non è subordinata alla concessione di asilo ai migranti a cui è stato prestato aiuto; ma nel corso degli anni, alcuni Membri non hanno assolto al dettame internazionale.
I costi di Mare Nostrum incidono principalmente sull’economia italiana, già in rischio di deflazione, e sono ben più gravosi degli esborsi stanziati per i normali pattugliamenti che precedevano la missione umanitaria. Le spese si possono desumere dai costi giornalieri dei mezzi impiegati: le fregate costano 60.000 euro, la unità di supporto, come la San Marco, ne valgono 45.000, mentre quello dei pattugliatori pare essere di poco inferiore ai 15.000. A questo si assommano i valori degli aeromobili: gli elicotteri AB-212 ed i droni si aggirano sui 4.000 euro ad ora di volo, mentre tra gli EH-101 ed il Breguet Atlantic si parte da 7.000 fino ai 13.000. Aggiungendo le indennità del personale e la manutenzione necessaria per l’uso straordinario dei mezzi, la spesa finale dovrebbe attestarsi tra gli 8 ed i 10 milioni di euro al mese.


Stime recentemente confermate dal Governo, che ha fissato ufficialmente il costo di Mare Nostrum a 100 milioni di euro l’anno.
La missione è stata inquadrata nell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, semplicemente nota come Frontex. Di questa organizzazione, fa parte EUROSUR, il sistema di sorveglianza pan-europeo delle frontiere terrestri e marittime. Uno strumento attraverso il quale gli Stati Membri possono scambiarsi in tempo reale informazioni e raccolte dati, in modo da poter meglio analizzare le strategie di intervento.


In base alle dichiarazioni del Commissario Europeo per gli Affari Interni, tutte le operazioni europee, Frontex compreso, si svolgeranno in ambito EUROSUR, ed ogni Stato coinvolto dovrà rendere operativo un centro nazionale di controllo per questo nuovo sistema di sorveglianza. Ad EUROSUR è stato affiancato un servizio di segnalazioni agevolato dai satelliti e droni. Tale apparato di sicurezza costa 35 milioni di euro all’anno, ma parte di questi saranno assorbiti da quelli erogati per Frontex. La configurazione di quest’ultima, con un modesto bilancio, senza guardie di frontiera, unità di superficie e velivoli, non le consente di intervenire in autonomia, pertanto, per un’operazione di lungo periodo devono essere coinvolti tutti gli stati membri.
Il portavoce della Commissione Europea, ha precisato che “l’Italia ha avuto aiuti senza precedenti, con circa 500 milioni di euro di aiuti nel periodo 2007-2013, e sarà il più grande beneficiario nel periodo 2014-2020, con 315 milioni di euro, cifra inferiore dovuta al generale taglio del bilancio Ue, chiesto dagli stati membri”.


Il temine dell’Operazione Mare Nostrum, era fissato per ottobre, ma ora con lo stato dei fatti palesato dall’Ue, dovrà essere rivisto, naturalmente con metodologie ed investimenti diversi.
La missione al momento sembra palesare un duplice effetto: la validità degli uomini e dei mezzi italiani schierati sul campo, ed una flessione della Comunità Europea in materia di cooperazione sia a livello politico che militare

 

Tra profitto e sviluppo:

una nuova cooperazione è possibile?

 

 

   unimondo.org  -  31 Luglio 2014

 

 
L'ingresso dei privati nel mondo del non profit e della cooperazione non è più soltanto un'ipotesi. Si tratta infatti di una delle principali novità introdotte dalla riforma del Terzo Settore, approvata nei giorni scorsi alla Camera dopo diversi anni di discussioni, battute d'arresto e difficili mediazioni. Sembra infatti che il nostro paese sia ormai pronto a compiere questo passo, pur con le dovute cautele.
 
“L’apertura del profit alla cooperazione allo sviluppo pone due questioni fondamentali alle ong e alle associazioni che si occupano di volontariato e solidarietà internazionale – afferma il presidente della FOCSIV Gianfranco Cattai, durante il recente seminario intitolato “Verso una cooperazione tra profit e non profit per lo sviluppo sostenibile nel rispetto dei diritti umani”, promosso dall'organizzazione in collaborazione con la Pontificia Università Lateranense – da un lato c'è l’esigenza di responsabilizzare il comportamento delle imprese al rispetto dei diritti umani per uno sviluppo davvero equo e sostenibile, e dall’altro la necessità di rendere quanto più efficaci gli spazi di collaborazione virtuosa tra terzo settore no profit e mondo del profit”. 
 
Un tema molto caldo, su cui esistono ancora dei contrasti, ma considerato ormai imprescindibile per il nuovo modello di lotta alla povertà che la riforma vorrebbe introdurre. Il concetto principe, su cui si è tanto insistito durante tutto l'incontro, è infatti quello di “lavoro dignitoso”, quale unico strumento capace di rispondere al dramma delle società odierne, caratterizzate da forti disuguaglianze e miseria, e dalla mancanza di crescita. E, secondo la Commissione Europea, è proprio il settore privato a offrire il 90% dei posti di lavoro nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Resta da vedere che tipo di lavoro, ed è qui che dovrebbero entrare in gioco le associazioni e le ong.
 
Quando si parla di profit, infatti, i rischi sono dietro l'angolo. “Se il settore privato non può essere subordinato alla politica degli stati, né deve colmare le lacune del pubblico, dobbiamo comunque evitare che finisca per dettare la linea” spiega Lorenzo Buonuomo, direttore del master in Cooperazione e Diritto internazionale di cui Focsiv è tra i principali organizzatori. Dove è il profitto a farla da padrone, come nel caso della maggioranza delle granzi aziende, il pericolo di ingiustizie è altissimo: basti pensare che il 30% degli abusi di diritti umani sono perpetrati dalle imprese trasnazionali, con punte che arrivano al 50% in alcuni paesi come il Perù. Proprio per questo il 26 giugno scorso le Nazioni Unite hanno adottato una risoluzione che stabilisce un gruppo di lavoro con il mandato di elaborare uno strumento giuridicamente vincolante per il rispetto di diritti umani da parte di queste imprese: ebbene, tra i paesi che hanno votato contro, insieme a Stati Uniti, Giappone e buona parte dei paesi europei, c'era anche l'Italia. “Se promuovere il settore privato vuol dire perpetrare questo stato di cose, allora non possiamo che essere nettamente contrari” ha ribadito Cattai.
 
Come fare allora a mettere d'accordo due istanze apparentemente inconciliabili? Secondo Focsiv, la soluzione va trovata a piccoli passi, magari puntando su una delle nostre peculiarità: “Il modello italiano di economia e società fondato sulle piccole e medie imprese si presta molto a sperimentare forme di internazionalizzazione responsabile delle stesse – continua il presidente – e per questo siamo disponibili a svolgere un ruolo di supporto e di accompagnamento come associazioni di volontariato”. Come nel progetto messo in moto insieme alla Leroy Merlin, per il monitoraggio locale degli eventuali codici di condotta per il rispetto degli standard sui diritti umani e sul rispetto dell'ambiente firmati dai partner e fornitori asiatici dell'azienda su cui, nonostante la buona volontà, è difficile avere un completo controllo. E in questo modo, promuovere sviluppo in quelle stesse comunità.
 
Le imprese, infatti, dal canto loro non vogliono essere considerate solo come “la mucca da mungere”  o come meri tappabuchi del pubblico, ma come vere e proprie catalizzatrici di altri fondi privati. Proprio Luca Pereno di Leroy Merlin, presente all'incontro, lancia dei consigli preziosi al mondo non profit, come quello di essere propositivi e soprattutto di scegliere con criterio gli interlocutori profit, mentre il consigliere di Etimos Marco Sartori, con una lunga storia alle spalle di volontariato e di finanza sociale, spiega come non esista cosviluppo senza corresponsabilità, valutazione e rischio nell'investimento. La nuova legge, pur frutto di numerosi compromessi, dovrebbe andare in questa direzione proprio in quanto viene rivisto il ruolo politico della cooperazione “non più come carità e mero assistenzialismo ma come la vera politica estera dell' Italia del futuro”, secondo la  definizione del consigliere politico del viceministro degli Affari Esteri, Emilio Ciarlo.
 
Funzionerà anche da noi come all'estero? Non resta che sperimentare, in un'ottica – insistono i relatori del seminario – il più possibile europea. “Le persone vengono prima del profitto, e il capitale da valorizzare è l'uomo” affermano il direttore di Concord Seamus Jefferson e Mario Benotti, consigliere del sottosegretario di Stato per le Politiche e gli affari europei, che vede proprio l'Europa come una possile risposta a questi problemi, al di là della moneta e dei mercati: “Un'idea di Europa rifondata dal basso, ecco la chiave di un nuovo rapporto tra profit e non profit – spiega – foriera di una politica forte e creatrice di lavoro legato all'impegno sociale, soprattutto per i giovani, in un'ottica di sussidiarieta e solidarietà”.

 

I migranti sopravvissuti

denunciano decine di morti

 

   Internazionale22 luglio 2014


Un salvataggio dei migranti effettuato dalla marina militare maltese il 20 luglio 2014. (Darrin Zammit Lupi, Reuters/Contrasto)

 

Sono stati individuati e fermati il 22 luglio cinque uomini che, secondo gli inquirenti, potrebbero essere gli scafisti del barcone soccorso nella notte tra il 19 e il 20 luglio nelle acque tra la Libia e Malta. A bordo c’erano 561 migranti che sono sbarcati a Messina il 20 luglio.

 

Che il bilancio dei morti fosse drammatico era chiaro fin dall’inizio del salvataggio: trenta migranti, tra cui un bambino di un anno, sono stati trovati morti nella stiva, asfissiati dalle esalazioni del motore. I sopravvissuti raccontano storie ancora più drammatiche: alcuni migranti sarebbero stati uccisi dai loro compagni di viaggio o dagli scafisti per fare spazio sul barcone sovraccarico e poi spinti fuori bordo. I superstiti raccontano anche che su quel barcone erano partiti in 750: “Gli altri 181 sono morti, annegati quando ci siamo avvicinati alla nave danese Torm Lotte che ci stava aiutando. Tra loro c’erano molti bambini”.

 

Intanto continuano le attività delle marina militare nell’ambito dell’operazione Mare nostrum. Il 21 luglio nel Canale di Sicilia sono stati recuperati cinque cadaveri durante i soccorsi a un gommone semiaffondato. Sono 61 i naufraghi tratti in salvo, i quali hanno riferito che a bordo erano un’ottantina.

 

Al momento sulle navi della marina militare si trovano quasi duemila migranti soccorsi negli ultimi giorni e che ora attendono di essere sbarcati nei porti che il ministero dell’interno comunicherà.

 

Il Cie di Bologna si trasforma,

riapre per accogliere 200 migranti

 

Ora sarà Centro di accoglienza per ospitare i profughi in arrivo dalla Campania. Una corsa contro il tempo per pulirlo ed eliminare le sbarre alle finestre. Il sindaco Merola: “Abbiamo vinto una battaglia di civiltà”

 

 

redattoresociale.it  19 luglio 2014

 

Cambia faccia il Cie di Bologna. E da stasera, dopo essere stato chiuso per oltre un anno, riapre i battenti in via Mattei per accogliere 200 migranti in arrivo dalla Campania. Ieri sera la notizia dell'imminente arrivo, oggi la decisione inattesa di riaprire la vecchia strattura ma con tutto un altro scopo: non più Centro di identificazione e espulsione, ma struttura per l’accoglienza temporanea dei migranti in transito.

In nottata tecnici ed operai si sono messi al lavoro: prima per la disinfestazione dei locali, poi per l'eliminazione delle inferriate, lavoro che è ancora in corso e che non terminerà prima di lunedì. Una corsa contro il tempo per accogliere i migranti che verranno accompagnati in serata direttamente dagli uomini della Prefettura di Bologna.  "Abbiamo fatto uno sforzo sovrumano - dice l'asserrore al Welfare del Comune di Bologna, Amelia Frascaroli - Comune e Prefettura stanno lavorando al massimo per renderlo pulito ed accogliente". Già da settimane le due istituzioni stavano cercando di trovare degli spazi dove ospitare le persone che, una volta sbarcate sulle coste siciliane e, ieri, dalla Campania,  vengono poi  trasferite nel resto d'Italia. Tutto pieno però a villa Aldini, sui colli bolognesi, e a Villa Angeli, a Sasso Marconi. Anche la Caritas ha cercato, con poco successo, strutture adatte. Ecco dunque spuntare l’individuazione del Cie.

 

Catania - Accoglienza zero:

la vita dei migranti tra reclusione e abbandono

 

Un reportage dal Pala Spedini della rete antirazzista catanese

 

 

meltingpot.org  di Davide Carnemolla  -  12 luglio 2014

Catania - Accoglienza zero: la vita dei migranti tra reclusione e abbandono

 

Rinchiusi e abbandonati. E’ questa ormai la sempre più diffusa strategia di “accoglienza” destinata ai migranti.
E ne è l’emblema ciò che sta accadendo in Sicilia, e a Catania in particolare. Nel capoluogo etneo si sta di fatto normalizzando la negazione dei diritti dei migranti. In un mix letale di indifferenza, opportunismo e schizofrenia istituzionale si stanno progressivamente e inesorabilmente erodendo i più basilari diritti di chi arriva nelle coste siciliane. E’ sufficiente raccontare ciò che accaduto negli ultimi quattro giorni per avere un’immagine tanto chiara quanto preoccupante di tutto ciò.

 

Gli eritrei della nave “Chimera”: dalle mura del Palaspedini alla solitudine della stazione

 

7 luglio. Sono da poche ore arrivati al palazzetto dello sport di Catania chiamato “Palaspedini” 261 migranti - prevalentemente eritrei – sbarcati a Catania dalla nave “Chimera”.


Gli attivisti della Rete Antirazzista Catanese arrivano intorno alle 19 e viene loro concesso (fatto non così abituale) di poter parlare con gli stessi migranti. La prima ad avvicinarsi a noi è una giovane donna con una bambina di un anno in braccio. Ci mostra un foglio che le hanno dato all’ospedale “Vittorio Emanuele” e nel quale le viene prescritto un farmaco per la figlia che ha la febbre alta. La donna giustamente ci chiede: “chi mi dà questo farmaco?”. Davanti al piazzale antistante il palazzetto inizia un triste teatrino tra i vari enti che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) occuparsi dei migranti: il Pronto Soccorso si occupa solo di casi di estrema urgenza, la Protezione Civile ci dice che non è compito loro, le Forze dell’Ordine idem finchè un funzionario della Questura non chiama la guardia medica. Ma intanto il farmaco per la bambina e altri beni di prima necessità siamo noi a comprarli.


Mentre aspettiamo la guardia medica (arriverà dopo due ore) e questo è quello che ci viene detto e che vediamo coi nostri occhi: ci sono quasi dieci donne di cui almeno tre in stato di gravidanza e tutte e tre in condizioni di salute molto critiche (due perdono sangue e hanno forti dolori e un’altra ha la febbre alta); molti eritrei lamentano dolori e problemi alla pelle e ci chiedono medicine e sapone; nessuno di loro ha potuto avvisare i familiari in Eritrea o in Europa né per poter dire di essere sopravvissuti né per poter comunicare alle famiglie di chi non ce l’ha fatta la morte dei propri cari; nessuno è stato informato riguardo le procedure d’asilo e i diritti basilari che spetterebbero loro; molti chiedono scarpe e anche vestiti perché quelli che hanno sono gli stessi con cui sono partiti dall’Eritrea. E poi, entrando nel palazzetto, sembra di stare in una sauna. Una gigantesca sauna dove sono buttati come animali donne, bambini e uomini visibilmente sofferenti e alla disperata ricerca di aiuto.


“Grazie per essere venuti qui! E’ la prima volta da quando siamo arrivati in Italia che riusciamo a parlare in inglese con qualcuno per chiedere aiuto e supporto” ci dicono alcuni di loro quasi con le lacrime agli occhi per la felicità di aver incontrato finalmente un briciolo di umanità.

 

Torniamo l’indomani e a dare supporto ai migranti c’è sempre la Rete Antirazzista insieme ad un medico del Centro Astalli. Il funzionario della Questura “smentisce” il suo stesso collega presente il giorno prima e ci impedisce non solo di interagire con i migranti (medico compreso) ma anche di consegnare loro indumenti, scarpe, dizionari e informazioni sulla richiesta d’asilo. E ci racconta il suo punto di vista sulla situazione al Palaspedini: “qui è tutto a posto”, “non c’è nessuno con problemi di salute”, “non ci risulta che abbiano bisogno di scarpe e vestiti”. Le sue parole stridono con quanto accade esattamente a un metro da lui: rinchiusi dentro con delle transenne, i migranti provano in tutti i modi a interagire con noi ma ogni comunicazione è proibita. “Dovete inviare una richiesta formale alla Prefettura”. Questa è l’indicazione. Poi il funzionario della Questura ci dà un consiglio: “Invece di venire qui occupatevi dei milioni di italiani che hanno bisogno di aiuto. Qui ci sono già degli enti accreditati preposti a fornire aiuto ai migranti”.


Già, gli enti accreditati. Ma quali sono? E soprattutto dove sono? Ci viene comunicato che gli enti accreditati sarebbero la Comunità di Sant’Egidio e la Caritas. Proviamo a chiamare più volte la Comunità di Sant’Egidio ma risponde solo la segreteria. Riusciamo a contattare la Caritas che ci spiega: “Noi ci attiviamo per portare beni di prima necessità ai migranti solo su richiesta della Prefettura”. Ma allora perché la Prefettura non li contatta? E perché viene impedito alla Rete Antirazzista di supportare i migranti? Qui non stiamo parlando di “optional”, stiamo parlando di assistenza medica, vestiti, scarpe, informazioni sulla richiesta d’asilo, mediazione linguistica. In una parola: diritti fondamentali.

 

Ma non è finita qui: dopo che le forze dell’ordine così attente a eseguire le disposizioni dall’alto hanno per tutta la mattina respinto dentro il palazzetto i migranti e respinto fuori dal palazzetto gli attivisti, alle 16 circa dello stesso giorno il “Palaspedini” viene svuotato e tutti gli eritrei si spostano verso la stazione. Pochi di loro (quelli che avevano qualche soldo) riescono a partire verso Milano comprando un biglietto, altri restano lì, buttati sul piccolo prato davanti alla stazione centrale. Sono completamente disorientati e abbandonati. Il 9 luglio andiamo da loro, diamo alcune informazioni per la richiesta d’asilo e li indirizziamo verso alcune mense presenti nella zona. Due di loro, visibilmente preoccupati, ci dicono: “Quando ci hanno fatto andare via la polizia ci ha detto che dovevamo lasciare la città entro domani”. Tra di loro ci sono anche donne, bambini e uomini in condizioni di salute critiche. Una donna ha visto morire suo marito durante il viaggio e adesso è rimasta da sola con la sua bambina. Il viaggio di tutti loro è iniziato mesi fa dall’Eritrea ed è stato drammatico. Molti sono morti al confine con il Sudan, attraversando il Sahara o in Libia.


In questo momento sono distesi, sfiniti e spaesati, alla stazione dei treni. E probabilmente resteranno lì per molto. Il nome della nave con la quale sono arrivati era profetico: avere dei diritti per loro è davvero una chimera.

 

Va in scena la “staffetta” degli sbarchi: nuovi migranti, stessa vergogna.

 

Il 9 luglio il Palaspedini resta vuoto solo per poco. Le lungimiranti istituzioni locali e nazionali hanno una particolare preferenza per questi luoghi e si guardano bene dall’ospitare i migranti in strutture più dignitose. A Catania ci sono diversi ex-ospedali molti dei quali ancora attrezzati e quindi perfettamente adatti ad ospitare persone. Ma per alcuni forse i migranti non sono esattamente delle persone e quindi va bene anche un palazzetto-sauna.
Il 9 pomeriggio arrivano dopo l’ultimo sbarco circa 100 migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana (molti di loro dal Gambia). Anche loro sono sopravvissuti ad un viaggio in cui hanno visto la morte in faccia.


Li incontriamo la mattina del 10 luglio, in concomitanza con la conferenza stampa indetta dalla Rete Antirazzista Catanese. Stavolta le Forze dell’Ordine e la Protezione Civile sono assenti, c’è solo un’auto della Guardia di Finanza. Riusciamo a parlare con loro e ci raccontano che, dopo essere partiti dalla Libia, il loro barcone è andato in avaria ed è rimasto per tre giorni fermo in mezzo al mare. La terza sera si è avvicinata una nave mercantile che inizialmente non voleva soccorrerli e che lo ha fatto solo dopo aver visto che il loro barcone stava affondando. Sono arrivati sfiniti e debilitati al porto di Catania e alcuni di loro, quelli con le ferite più gravi e i minori, sono stati portati via dalla polizia mentre tutti gli altri sono stati inviati al famigerato Palaspedini.


Ma lì tra di loro ci sono ancora dei minori i quali sono stati etichettati dalle Forze dell’Ordine come maggiorenni in spregio alla normativa che presuppone la buonafede del minore. “Io dicevo alla polizia di avere 17 anni e loro scrivevano 21. Io non ho 21 anni!” ci dice un ragazzo. E lo stesso vale per altri tre di loro. E poi alcuni vorrebbero ricongiungersi con i familiari residenti in Italia e in Europa (e anche questo sarebbe un loro diritto). E intanto i migranti si avvicinano a noi e ci chiedono scarpe (molti di loro sono scalzi e hanno ferite e piaghe ai piedi), sapone, dentifricio, acqua (al mattino non la danno), vestiti. E anche loro chiedono informazioni sulla richiesta d’asilo e la possibilità di chiamare i loro familiari per dire loro almeno due parole: “siamo vivi”.


Ma in tutto questo dove sono le istituzioni e gli enti accreditati? Anche stavolta non ci sono. Chiamiamo il Comune di Catania che ci rimanda alla Protezione Civile la quale ci dà un’informazione tanto “inedita” quanto sconvolgente: il fatto non è che il piano di accoglienza non funziona, il fatto è che non c’è un piano di accoglienza. La cosiddetta “emergenza” finisce non appena i migranti mettono piede al porto di Catania. E dopo? Praticamente il nulla. Qualche pasto al giorno e basta.


E’ notizia di ieri che sarebbe stato raggiunto “un accordo tra Governo, Regioni, Comuni e Province per il varo di un piano per la gestione dei profughi, con relative politiche di accoglienza”. In attesa di questo piano, che diventerà in ogni caso l’ennesimo business sulla pelle dei migranti, la realtà è che non c’è niente. L’unico aiuto è stato quello fornito dagli attivisti locali: contatti e informazioni utili, vestiti, acqua, scarpe, medicinali, ecc… Un aiuto importante che va però in parallelo con la volontà degli stessi attivisti denunciare quanto sta accadendo e quanto accadrà.

 

Adesso alla stazione decine di eritrei vagano per la stazione, decine di gambiani sono parcheggiati al Palaspedini e altre migliaia di migranti, almeno quelli che ce la faranno, arriveranno a Catania e condivideranno il loro destino.

 

Il destino di chi non ha la libertà di spostarsi o di rimanere in un paese. In una parola: di vivere.


Perché per arrivare nella “Fortezza Europa” si rischia sempre di più la vita e ci si imbatte in Frontex si finisce in mano a trafficanti e a governi dei paesi extraeuropei sostenuti spesso dall’Europa. E senza l’apertura di “veri” corridoi umanitari, di percorsi protetti che permettano a tutti i migranti di rivolgersi ad uffici dell’UE e dei paesi europei e di imbarcarsi su mezzi riconosciuti e sicuri, aumenteranno sempre di più le morti nel più grande cimitero del mondo, il Mar Mediterraneo.


Perché poi chi riesce a sopravvivere e vuole chiedere asilo in Sicilia viene mandato, dopo settimane o mesi di reclusione, al CARA di Mineo, un luogo isolato dal mondo e invivibile (5000 persone rinchiuse lì dentro con una capienza di 2000), un luogo dove si marcisce in attesa di incontrare la commissione che valuterà le richieste di asilo (alcuni migranti sono lì da 3 anni), un luogo che è quindi la negazione stessa del “diritto d’asilo” come dimostra il suicidio di Mulue Ghirmay e i frequenti atti di autolesionismo degli “ospiti” del CARA:
Perché chi vuole andare al Nord Italia deve farlo a sue spese, diventando vittima di truffatori e trafficanti ed essendo costretto a viaggiare sempre in incognito col rischio di essere rinchiuso in un CIE.


Perchè se, comprensibilmente, qualcuno prova ad andare via dall’Italia arriva la mannaia del Regolamento Dublino che, violando ogni principio di libertà di movimento, obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese di arrivo e quindi impedisce loro di costruire la propria vita in un paese che non sia l’Italia, Italia che ha più volte dimostrato di violare i diritti fondamentali dei migranti.

 

Welcome to Sicily, welcome to Italy, welcome to Europe.

 

Strasburgo condanna

(di nuovo) l’Italia per tortura

 

 

La Corte Europea per i Diritti Umani ha dato ragione a Dimitri Alberti nella causa contro l’Italia per maltrattamenti da parte dei carabinieri durante un fermo. Una condotta quella delle forze dell’ordine identificata come trattamento inumano e degradante.

 

Spesso alcune vicende portate agli onori della cronaca hanno dei fotogrammi mancanti, come quelle volte in cui uno spettatore manca le scene clou di un film e poi prova a ricostruirle attraverso i dialoghi successivi dei personaggi e l’evolversi della trama.

 

A ricostruire parte del film della vita di Dimitri Alberti ci ha pensato la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo che lo scorso 24 giugno ha sancito il “the end” alla causa giudiziaria da lui intentata contro l’Italia. Alberti, all’epoca dei fatti 38nne e senza fissa dimora, era stato arrestato dai carabinieri nel marzo del 2010 davanti a un bar di Cerea in provincia di Verona con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, ossia per condotta aggressiva e diniego dell’accertamento dell’identità. Il racconto della vicenda purtroppo si interrompe quando Alberti è fatto salire sulla volante per essere condotto al Comando dai carabinieri. Ritroviamo lo stesso il giorno dopo, dopo aver passato la notte presso la Casa circondariale di Verona, a invocare un intervento medico: le lastre avevano allora rivelato la frattura di tre costole e un ematoma del testicolo sinistro, tutti danni di origine traumatica. Alberti aveva denunciato che le percosse gli erano state inferte dai carabinieri dopo che lo avevano ammanettato con le mani dietro la schiena. Di certo i segni delle manette e le costole rotte avevano indotto all’apertura di un fascicolo per percosse e lesioni ma contro ignoti, perché Alberti non era in grado di fornire precisazioni sull’identità degli uomini in divisa. La versione fornita dalle forze dell’ordine aveva invece attribuito all’evidente stato di ebbrezza dell’uomo e al suo comportamento violento le cause degli stessi colpi, in qualche modo “auto-inferti”. L’inchiesta avviata dalla Procura di Verona aveva poi accertato che durante le fasi dell’arresto non c’era stato un uso illegittimo della forza da parte dei carabinieri; assodato questo punto, aveva chiuso il fascicolo, senza che fosse stata condotta un’effettiva azione investigativa per ricostruire quei tasselli mancanti della storia. Da qui la scelta di Alberti di ricorrere a Strasburgo che gli ha dato invece ragione.

 

La sentenza della Corte istituita dal Consiglio d’Europa ha infatti condannato l’Italia per i maltrattamenti subiti da Dimitri Alberti durante l’arresto, giudicati una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che proibisce i trattamenti inumani o degradanti. La sentenza ribadisce alcuni principi fondamentali secondo cui, in base alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), lo Stato è responsabile di ogni persona arrestata, dato che essa è completamente nelle mani delle forze dell’ordine. Conseguentemente, qualora vi sia una denuncia di violenza e maltrattamenti, incombe sullo Stato l’obbligo di fare immediata chiarezza con un’indagine effettiva. Elemento che la Corte ha dunque contestato all’Italia (e alla Procura di Verona) non avendo affatto accertato come Alberti avesse riportato quelle lesioni all’indomani dell’arresto che, agli occhi dei giudici europei, sono apparse incompatibili sia con una condotta legale dei carabinieri che con la tesi che l’uomo se le fosse auto-inflitte.

 

Mantenendo una incorruttibile fiducia nei confronti del sistema giudiziario, probabilmente il peso dato ai precedenti e alla personalità del ricorrente hanno minato a priori la sua credibilità. Resta però che l’accertamento della verità è avvenuto al di fuori dell’Italia, laddove invece gli è stata negata. Un elemento che, unendosi alla perpetuata assenza di un inserimento del reato di tortura all’interno dell’ordinamento penale vigente, che di fatto rende impossibile procedere giuridicamente contro tale pratica, non può che destare preoccupazione. La sentenza della Corte peraltro si somma alle condanne già subite dall’Italia in passato sempre per violazione dell’art. 3 della CEDU: nel 2013 per le condizioni dei carcerati, nel 2012 per il respingimento in mare dei migranti e nel 2001 per i fatti del G8 di Genova, solo per citare i casi più emblematici.

 

Curioso davvero come la settimana successiva alla sentenza della Corte la stessa Strasburgo abbia visto “salire in cattedra” il Presidente del Consiglio italiano Renzi ad avviare il semestre di presidenza dell’UE e ribadire la necessità di “un’identità comune da ritrovare” tra gli Stati membri dell’UE. Un esempio di valori di riferimento comune sta proprio nell’adesione di tutti i Paesi dell’Unione Europea alla Convenzione Europea per i Diritti Umani, fin dalla sua adozione nel 1950 un punto di riferimento in materia di garanzia della dignità umana su tutto il territorio “unificato” e non solo. Coerente con le linee guida date dal governo italiano al semestre europeo sarebbe anche il sì definitivo della Camera al disegno di legge, approvato al Senato lo scorso marzo, per l’introduzione del reato di tortura nel sistema penale dell’Italia. Un voto che equivarrebbe inoltre ad un segno di civiltà.

 

Mare Nostrum e campi profughi in Libia -

L’ipocrisia dell’Italia e dell’Europa sulla vita dei migranti

 

Impedire le partenze. Lasciar morire i profughi sull’altra sponda del mediterraneo:

per i governi l’importante è non vedere

 

meltingpot.org  -   7 luglio 2014

 

Cerchiamo di mettere innanzitutto un po’ di ordine, partendo dal presupposto che è un’operazione tanto difficile quanto necessaria.
La impongono da ultimo le decine di persone morte asfissiate pochi giorni fa dai gas del motore di una delle tantissime barche che continuano a partire dalle coste libiche verso l’Europa.

 

Bisogna sforzarsi di ragionare, al di là di ogni strumentalizzazione ed emotività, innanzitutto per loro e per tutte le altre migliaia di bambini, di donne e di uomini che non ce l’hanno fatta, per quelle che ancora proveranno a farcela, ma anche per quelle che sono arrivate fino a noi e vagano lontanissime dall’aver portato a termine qualunque progetto che, come ciascuno vorrebbe per sé e per coloro che ama, possa dare significato e dignità all’esistenza umana.
E poi bisogna farlo per noi stessi, sempre più in balia delle quotidiane esternazioni di chi usa il fenomeno delle migrazioni per costruire o rafforzare carriere politiche, per resuscitare partiti che senza la xenofobia e l’allarmismo non avrebbero altri discorsi su cui basare la propria legittimazione, per portare avanti accordi di ben altra natura da quella dichiaratamente “umanitaria”, che stanno riscrivendo le relazioni dell’area euro-mediterranea, ma non solo.

 

Il momento in cui quasi ogni cosa è cambiata è stato certamente quel 3 ottobre del 2013 dal cui anniversario ci separano ormai pochi mesi che rischiano di caricarsi di tantissime altre morti.


Un naufragio, quello del 3 ottobre, che si è sommato ai tantissimi altri in cui hanno perso la vita più di 20.000 persone negli ultimi vent’anni nel Mediterraneo, ma che ha consegnato troppo vicino a noi, proprio di fronte alle coste della piccola Lampedusa 366 corpi, soprattutto di donne e di bambini. Immagini di sterminate file di sacchi neri per cadaveri adagiati sulle banchine del porto, e poi di file altrettanto sterminate di bare, marroni e bianche. Immagini che il mondo è rimasto a guardare, in silenzio, per alcuni giorni. Un silenzio che si sarebbe sperato fosse gravido, finalmente, dei germi di una nuova riflessione politica, nel senso più alto del termine, e onesta rispetto al movimento nel mondo di milioni di persone in fuga da guerre e violenze, o semplicemente in cerca di un luogo in cui costruire una vita possibile.

 

Rotto il silenzio, Mare Nostrum ha iniziato ad operare e Lampedusa e il suo “spettacolo della frontiera” costruito e strumentalizzato per decenni come laboratorio dell’accoglienza emergenziale, ma anche e soprattutto delle politiche più repressive di detenzione, clandestinizzazione e deportazione , sono d’improvviso scomparsi da tutte le rotte migratorie.


Mare Nostrum è l’iniziativa che più di tutte, nell’ultimo periodo, ha rinnovato il nesso pericolosissimo tra l’ambito “umanitario” e quello “militare” che, definitivamente sancito con le guerre occidentali dei primi anni Duemila proclamate in nome della tutela dei diritti umani, innerva ormai ogni aspetto della gestione delle migrazioni.

 

Il primo scopo dichiarato dell’operazione è il salvataggio della vita umana in mare. E su questo non è possibile dire che la missione abbia fallito in toto senza rischiare di dare manforte alle retoriche criminali di personaggi come Matteo Salvini che si oppongono alla situazione attuale permettendosi senza vergogna di auspicare un ritorno ai “tempi d’oro” dei respingimenti in mare condotti dalla marina militare italiana verso la Libia. Respingimenti illegali che hanno mandato verso morte, stupri e torture migliaia di persone e per i quali l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo nel 2012.

 

Troppo da dire ci sarebbe rispetto alle colpe di chi consapevolmente, da troppi anni, istiga all’odio sfruttando la paura, mentendo spudoratamente, travisando in cattiva coscienza gli eventi, rafforzando, in un processo irreversibile almeno a breve termine, quei pregiudizi che, come diceva Bobbio, sono socialmente i più pericolosi in quanto resistono ad ogni confutazione oggettiva, perché troppo rispondono e troppo si attagliano ai peggiori istinti umani.
Ed è questa l’unica prospettiva possibile da cui leggere le critiche mosse a Mare Nostrum dai partiti di destra italiani.

 

Detto questo, però, occorre affermare con la stessa forza con la quale si prendono le distanze da chi polemizza strumentalmente, che Mare Nostrum non rappresenta in nulla una soluzione, perché non ha alle spalle alcuna visione politica innovativa, perché si inserisce in un sistema costruito su priorità vecchie e non condivisibili perché del tutto diverse da quelle dei diritti e della pace.


Non sono i 9 milioni di euro al mese impiegati nell’operazione che devono suscitare scandalo. Anche perché questi fondi sono coperti in gran parte, al contrario di quel che demagogicamente si dichiara, dai fondi europei per l’asilo e l’immigrazione di cui l’Italia è il secondo paese Ue a usufruire in termini quantitativi: quasi 500 milioni di euro per il periodo tra il 2007 e il 2013 (e sarebbe opportuno indagare su come questi fondi siano stati spesi prima dell’avvio dell’operazione Mare Nostrum) e una cifra molto simile prevista per il periodo 2014-2020.


I costi di Mare Nostrum, inoltre, cosa che non si sente dire spesso, appaiono coperti per 90 milioni dal Fondo rimpatri e per 70 milioni dalle entrate Inps relative alle regolarizzazioni dei migranti in Italia.

 

Senza deresponsabilizzare l’Europa, è anche a queste cifre che si deve guardare per spiegare l’indifferenza dimostrata dalle istituzioni Ue al “batter cassa” italiano degli ultimi tempi, unitamente ad altri numeri, quelli relativi alle reali presenze dei rifugiati nei paesi europei, che vede ancora l’Italia al quattordicesimo posto, mentre un paese come la Germania ne ospita un numero 10 volte maggiore di profughi senza per questo urlare al collasso di ogni accoglienza possibile.

 

In Italia, invece, il raddoppiarsi del numero di migranti arrivati dal mare nei primi sei mesi del 2014, e la nuova modalità dei loro arrivi in grandi gruppi a bordo delle navi della marina militare, ha portato a un caos nella gestione dell’accoglienza senza precedenti. Da un lato, migliaia di cittadini e cittadine si sono mobilitate offrendo risorse e assistenza, a dimostrare che questo paese è ancora almeno in parte salvo dalle infiltrazioni dell’indifferenza o del razzismo. Dall’altro, la mancanza di un piano razionale di gestione ha portato al proliferare di centri di accoglienza straordinaria senza adeguate misure di controllo, e soprattutto all’ammassarsi in condizioni precarissime di migliaia di persone presso stabili utilizzati nell’”emergenza”, come tendopoli o palazzetti dello sport, all’uscita dei quali passeur e approfittatori di ogni tipo hanno dato vita a innumerevoli truffe ai danni dei profughi e a veri e propri “canali umanitari a pagamento” che portano oltre confine chi riesce a farsi mandare i soldi dalle famiglie (operazione che richiede una mediazione nel caso non si posseggano documenti) o ha portato qualche riserva economica con sé, pagando lucratori improvvisati o reti più o meno organizzate.

 

Questa realtà è stata denunciata concretamente dal No Borders Train partito da Milano alla volta della Svizzera, lo scorso 21 giugno, l’unica iniziativa che, insieme alla “Marcia per la libertà di migranti e rifugiati”, ha avuto il coraggio di praticare apertamente l’abbattimento dei confini europei per i richiedenti asilo politico.


Inutile dire che un sistema di accoglienza razionale e organizzato aiuterebbe anche le economie locali dei territori che accolgono, visto che, cosa che le retoriche leghiste mai dicono, i soldi stanziati pro-capite per ogni migrante, non vengono direttamente intascati dai profughi ma finiscono in servizi erogati da enti e associazioni italiane.

 

Ma a dover suscitare scandalo, dovrebbero essere soprattutto gli stessi presupposti su cui si fonda Mare Nostrum: ovvero il fatto di continuare a dare per scontato che decine di migliaia di persone in fuga da guerre e crisi politiche debbano continuare ad attraversare i deserti e poi raggiungere la Libia per cercare di salvarsi la vita, e vengano qui detenute, stuprate, umiliate, spesso uccise. E se sopravvissute, messe poi nelle mani delle reti di traffico internazionale che usano i loro corpi come carne da macello che però vale a peso d’oro: una volta saliti sulle barche, che arrivino vivi o morti importa poco.

 

E che il presupposto implicito continui a rimanere quello dei “viaggi della speranza” che cinicamente fanno una selezione ab origine dei profughi che raggiungono l’Europa, lo dicono più di ogni altra cosa le ripetute dichiarazioni del governo italiano rispetto all’auspicio dell’apertura di campi in Libia a egida Onu/Ue per accogliere i richiedenti asilo; dichiarazioni che si propongono ipocritamente di apparire polemiche rispetto alle politiche dell’Unione e europea, mentre non fanno altro che rinfocolare un vecchio sogno dei paesi del vecchio continente, formalizzato per la prima volta dalle proposte britanniche al Consiglio europeo del 2003: quello dell’esternalizzazione dell’asilo nei paesi di transito.

 

Questo tipo di approccio spudorato è lo stesso che permette da decenni di continuare a fare accordi con le peggiori dittature del mondo, di invitare le autorità eritree ai funerali dei profughi fuggiti dalla loro stessa oppressione, di vendere armi che alimentano quei conflitti dai cui profughi poi ci si vorrebbe “difendere”.

 

La storia delle relazioni tra Italia e Libia è in questo senso emblematica, e non è una storia che si interrompe con la fine dei pittoreschi incontri sotto la tenda del colonnello Gheddafi, cui hanno allegramente partecipato rappresentanti dei governi italiani di ogni colore: è una storia che è continuata e si è rafforzata con atti formali come quello dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Italia e Libia nel settore della Difesa, firmato a Roma il 28 maggio 2012, il cui principale obiettivo è l’addestramento delle forze armate libiche da parte di quelle italiane. Questo accordo ha garantito una nuova presenza italiana in Libia attraverso l’operazione “Cyrene” che nel solo trimestre ottobre-dicembre del 2013 è costata all’Italia oltre 5 milioni. Ma di questi soldi, al contrario di quelli direttamente impiegati da Mare Nostrum, nessuno parla.

 

Che questo sia l’approccio di Mare Nostrum lo dimostra il già esistente e strettissimo livello di cooperazione con la Libia che la stessa operazione presuppone. La presenza di autorità libiche a bordo delle navi, ad esempio, è stata definitivamente accertata; come apertamente dichiarata è la relazione esistente tra le attività di Mare Nostrum e quelle di Eubam, missione militare di controllo dei confini interni della Libia anche con lo scopo di allertare preventivamente le autorità (se così si può chiamarle) libiche rispetto al transito di migranti verso il loro paese. Mare Nostrum ed Eubam utilizzano gli stessi droni, gli aerei a pilotaggio remoto, partiti dalle stesse basi militari italiane, all’interno di un programma di militarizzazione del Mediterraneo, Sicilia in testa.

 

Come scrive Antonio Mazzeo:
“Che siano gli aerei senza pilota la nuova frontiera tecnologica per le guerre ai migranti e alle migrazioni lanciate dalle forze armate italiane e libiche lo prova l’ultimo “accordo tecnico” di cooperazione bilaterale sottoscritto a Roma il 28 novembre 2013 dai ministri della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinni. Il memorandum autorizza l’impiego di mezzi aerei italiani a pilotaggio remoto in missioni a supporto delle autorità libiche per le “attività di controllo” del confine sud del Paese. Si tratta dei droni Predator del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Fg), rischierati in Sicilia a Sigonella e Trapani-Birgi nell’ambito dell’operazione “Mare Nostrum” di controllo e vigilanza del Mediterraneo. Grazie ai Predator, gli automezzi dei migranti saranno intercettati quanto attraversano il Sahara e i militari libici potranno intervenire tempestivamente per detenerli o deportarli prima che essi possano raggiungere le città costiere”.

 

In tal modo si usa lo spauracchio del governo delle migrazioni, e tristemente anche l’obiettivo di salvare vite umane, per dare nuova legittimità anche a mostruose operazioni di speculazione bellica che preludono a nuove guerre e a nuovi esodi. Un caso per tutti è quello del MUOS, il sistema di antenne satellitari statunitensi che ha per di più prodotto la devastazione ambientale e compromesso la salute degli abitanti del piccolo paese siciliano di Niscemi, dove è stato eretto, col beneplacito delle istituzioni politiche regionali e nazionali che hanno ignorato le resistenze democratiche espresse dal territorio.

 

Ma tornando alle proposte di esternalizzazione delle procedure di asilo in Libia, che pretendono che in quel paese sia possibile “smistare” i “veri” profughi dai “falsi” richiedenti asilo nel rispetto dei diritti umani di tutti, basti leggere il dossier prodotto da Amnesty International nel 2012 e intitolato “Sos Europe” che valutava l’impatto sui diritti umani dell’esternalizzazione del controllo delle migrazioni già in parte avvenuta, come abbiamo accennato, dall’Europa alla Libia, anche e soprattutto grazie al ruolo dell’Italia.


Amnesty denuncia con fermezza la segretezza delle reali relazioni tra i due paesi, e il fatto che l’opinione pubblica non sia mai messa al corrente delle misure realmente messe in opera.


E dal 2012 ad oggi la situazione libica non ha fatto che peggiorare in termini di stabilità politica e rispetto dei diritti umani, come dimostra la recente uccisione dell’avvocata e attivista Salwa Abugaigis.

 

Dire di avere come obiettivo quello di salvare vite umane e poi proporre di esternalizzare qualunque forma di “selezione” dei profughi nella Libia contemporanea è semplicemente una contraddizione in termini che non può certo sfuggire al Presidente Renzi.

 

Sono altre le proposte che nel suo semestre di presidenza europea potrebbe portare a Bruxelles.


Proposte come quelle sostanziate dai principi della Carta di Lampedusa, reazione dal basso e di segno del tutto opposto a quella istituzionale dopo il naufragio del 3 Ottobre, o come quelle portate avanti dalla già citata marcia dei rifugiati su Bruxelles per contestare l’ultimo Consiglio europeo che, sulle migrazioni e sull’asilo, si è ancora una volta limitato a riproporre le ricette di rafforzamento militare dei confini, attraverso l’aumento delle risorse per Frontex, senza intaccare in nulla una logica che risulta evidentemente ancora troppo conveniente.

 

Proprio quest’ultimo vertice rivela definitivamente l’ipocrisia profonda degli inchini dinanzi alle bare e delle lacrime versate dopo la strage dell’isola dei Conigli, riaffermando la mancanza di volontà rispetto ad ogni cambiamento di rotta da parte dei governi europei, indisponibili a cedere sul terreno della gestione del confine.

 

Perché se le migrazioni sono un fenomeno epocale e non emergenziale, che origina da una gestione politica economica e militare a livello globale, che produce movimenti inarrestabili, con più di 50 milioni di rifugiati nel pianeta, la cui possibilità di vita è una responsabilità per tutti e per ciascuno, e non un gravoso carico da rimpallare, questa sfida segna indelebilmente il nostro tempo, la nostra vita ed il nostro futuro.

 

La crisi siriana, il conflitto tra Israele e Palestina, il nuovo “califfato” in Iraq, la dittatura eritrea, la guerra in Mali, il conflitto civile in Somalia, gli attentati in Kenia, si inseriscono all’interno di un lunghissimo elenco che rischia solo di allungarsi. Chi fugge da queste situazioni pratica nei fatti i propri diritti e le proprie libertà, e arriva coerentemente alle porte di un ‘Europa che su questi diritti e su queste libertà dice di fondare la propria identità.

È inevitabile, ad oggi, che l’approccio alle migrazioni diventi un emblematico terreno di conflitto e di lotte che abbiamo bisogno di portare avanti fino in fondo, riaffermando innanzitutto il diritto di restare anche nel proprio paese, quando è questo il desiderio delle persone, e quindi di non subire guerre e bombardamenti, delocalizzazioni che devastano le economie locali, cambiamenti climatici che portano l’esodo come unica forma di sopravvivenza; riaffermando la libertà di movimento non dei capitali economici e finanziari, ma degli esseri umani tutti, senza alcuna distinzione fondata sull’origine nazionale, anche e soprattutto perché questa sfida implica di ribaltare l’agenda di priorità nazionali e internazionali della politica contemporanea, e ciò significa cambiare il segno a questa Europa degli accordi solo economici, finanziari, industriali e militari che sempre includono clausole migratorie e usano i corpi dei migranti come pretesto o come moneta di scambio nel riassetto geopolitico delle influenze e dei poteri. Nessun commissario Ue su immigrazione e mobilità servirà mai a nulla, così come nessuna revisione delle politiche di austerity potrà bastare, se non si ricostruiscono del tutto le fondamenta della visione europea, tanto più oggi di fronte all’avanzare degli euroscetticismi costruiti sui nazionalismi, se non sui veri e propri nazismi, che trovano sempre più spazio in tutta Europa.

 

Non vi è altro modo di uscire da questo corto circuito dell’Europa costruito sui suoi confini se non l’apertura di percorsi di arrivo garantito per i profughi a partire dal luogo più vicino possibile alle zone di conflitto, senza presupporre alcuna esternalizzazione dell’asilo e limitando al massimo la pericolosità e la lunghezza delle fughe. Questi percorsi presuppongono, certamente, un sistema di asilo europeo e la sospensione immediata del Regolamento di Dublino, oltre che un adeguamento di tutti gli stati membri agli stessi standard di accoglienza e di rispetto dei diritti, quelli civili, politici e sociali.

 

E, insieme ai percorsi di arrivo garantito e a un sistema di asilo europeo che rispetti la libertà di scelta e di movimento delle persone e i loro diritti, è indispensabile esigere adesso l’apertura di canali di ingresso legale per tutti i migranti, che a milioni sono sfruttati all’interno di un’economia neoschiavistica in tutta Europa, favorendo anche in questo modo fenomeni di tratta degli esseri umani.

 

Queste proposte sono talmente razionali da non prevedere costi aggiuntivi, ma semplicemente la riconversione delle spese ad oggi destinate al controllo militare delle frontiere interne ed esterne, agli armamenti e agli addestramenti destinati a questo scopo, all’apparato detentivo dei Centri di identificazione ed espulsione europei, ovunque luoghi costosissimi, disumani, e comprovatamente inutili.

 

Nonostante questo, o forse proprio per questo, nessuna istituzione le porterà mai avanti.


Più che mai ora è allora necessario invertire i fattori: è dal basso, dalle stanze degli sportelli di supporto legale, dalle strade dove si incontrano vecchie e nuove generazioni di migranti e non, dalle sale d’attesa degli ambulatori popolari, dalle aule delle scuole di italiano, dalle associazioni che producono solidarietà, auto-difesa e mutuo soccorso, dalle pratiche collettive dei movimenti, lì dove nasce e cresce un’Europa diversa, che possiamo pensare di ribaltare l’Europa che oggi conosciamo e le sue politiche di confinamento e di guerra.

 

Bologna - Con la comunità eritrea

contro il Festival filo-regime

 

Iniziative venerdì 4 e sabato 5 luglio

per la libertà e la democrazia in Eritrea

 

 

Venerdì 4 e sabato 5 luglio saremo al fianco della comunità eritrea ùmobilitata contro il Festival Eritrea a Bologna

che al Parco Nord celebrerà i 40 anni di regime

 

 

meltingpot.org  -  1 luglio 2014

 

Come denuncia il Coordinamento Eritrea Democratica, il Festival che si terrà a Bologna il prossimo fine settimana è un evento- propaganda di una dittatura responsabile di detenzioni arbitrarie, torture e sistematica negazione della libertà di espressione e religione. Dall’oppressione del governo eritreo fuggono ogni mese almeno 3 mila persone, per la maggior parte giovani che tentano di sottrarsi alla schiavitù della leva militare a tempo interminato e ad un futuro già ipotecato nella sottomissione e nell’obbedienza.

La loro fuga, come quella di tanti altri che scappano da persecuzioni inenarrabili, incontra la violenza dei regimi di frontiera dell’Europa e non solo, molti sono imprigionati e rapiti in Egitto e in Israele, molti altri in Libia, mentre chi riesce ad attraversare il Mare Mediterraneo si trova a combattere contro l’accoglienza fallimentare del nostro governo e contro la trappola del regolamento di Dublino.

Contro tutto ciò ribadiamo la necessità che vengano subito attivati percorsi di ingresso regolari in Europa, per porre fine alle continui stragi di migranti alle frontiere vicine e lontane. Ma riteniamo urgente anche che le istituzioni sviluppino consapevolezza sulla situazione geo-politica dei paesi di provenienza di richiedenti asilo e migranti, rifiutando ogni collaborazione e complicità con governi responsabili dei peggiori crimini.

Per questo invitiamo tutte/i a partecipare e promuovere:

 

- Venerdì 4 luglio ore 10.30 Parco Nord, entrata laterale vicino all’autostrada - Presidio rumoroso durante la cerimonia di inaugurazione del Festival

- Sabato 5 luglio ore 17 Piazza Maggiore - Incontro pubblico e discussione aperta

#eritreademo

Centro sociale TPO

Associazione Ya basta! Bologna

 

 

L’appello del Coordinamento Eritrea Democratica


NO al Festival Eritreo a Bologna, NO a qualsiasi forma di appoggio istituzionale al governo eritreo

In occasione del 20 giugno, Giornata mondiale dei rifugiati, vogliamo porre l’attenzione sul tema della cause che spingono migliaia di persone a lasciare il loro paese in cerca di libertà e tutela dei diritti.

Per questo diciamo NO al "festival Eritreo" previsto a Bologna, al Parco Nord dal 4 al 6 luglio 2014, organizzato direttamente dal governo eritreo come strumento di propaganda e di avvallo internazionale. Il partito PFDJ al governo dal 1991, che non ha mai indetto elezioni ne’ applicato la Costituzione, è ritenuto responsabile dalle organizzazioni internazionali delle migliaia di prigionieri di coscienza detenuti in condizioni arbitrarie, arruolamento militare obbligatorio e a tempo indeterminato, casi documentati di tortura sui prigionieri, negazione della libertà di stampa, di opinione e di credo religioso.

Il governo Eritreo controlla anche i cittadini all’estero, in Italia e nel resto del mondo, tramite Ambasciate e consolati che non rinnovano il passaporto ne’ rilasciano i documenti a chi si esprime contro la dittatura e a chi non paga all’ambasciata una tassa del 2% sui propri redditi.

Per questo chiediamo

- di NON ospitare questa manifestazione a Bologna, città dei diritti
alle Istituzioni locali di ritirare qualsiasi forma di appoggio all’evento e ai rappresentanti del governo eritreo
- ai mass media di dare maggiore visibilità alle cause che generano migrazioni forzate e di massa, come nel caso eritreo ma non solo

 

Dalla Costituzione della Repubblica italiana - Articolo 10

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

 

Info: coord.eritreademocratica@gmail.com

 

Vedi anche:

da l’Espresso

da Popoli.info

da Repubblica Bologna

 Nelle ultime ore soccorsi cinquemila migranti

 

  Internazionale - 30 giugno 2014


Migranti su una nave della marina militare italiana ad Augusta, il 1 giugno 2014. (Antonio Parrinello, Reuters/Contrasto)

 

Trenta migranti sono morti per asfissia a bordo di un’imbarcazione che trasportava 600 persone. Nel fine settimana la marina militare italiana ha soccorso più di cinquemila migranti.

 

“Nel pomeriggio di ieri durante le operazioni di soccorso e d’ispezione a un barcone venivano rinvenute circa 30 salme stivate nella zona prodiera dell’imbarcazione”, è scritto in una nota della marina diffusa il 30 giugno.

 

“Il personale medico intervenuto sul posto ha dichiarato che le cause della morte sono da attribuire a probabile asfissia e annegamento e ne sconsigliavano il prelievo a causa degli spazi angusti. Una volta ultimate le operazioni di soccorso ai migranti, il barcone è stato rimorchiato dalla nave Grecale e attualmente si dirige verso il porto di Pozzallo dove arriverà in giornata”, dice il comunicato della marina.

 

L’operazione Mare Nostrum è cominciata a ottobre del 2013, in seguito a un naufragio nel quale sono morti 366 migranti a poche miglia dall’isola di Lampedusa.

 

Secondo le autorità italiane più di 60mila migranti sono sbarcati in Italia dall’inizio del 2014.

 

 

Rifugiati: non sono altro da noi

 

 

 unimondo.org  di Giacomo Zandonini  -  19 giugno 2014

 

Nessuno di voi, probabilmente, sa che cosa significhi essere un rifugiato. Meglio così. Chi vorrebbe sapere cosa significa dover lasciare casa propria una notte, senza prendere nulla, per aver parlato con la persona sbagliata? E non tornare più indietro. Non avere un numero di telefono su cui chiamare tuo figlio. Chi vorrebbe sapere quanto può far male una goccia d’acqua, che cade continuamente sulla tua schiena, per ore, giorni, mentre tu vieni tenuto sveglio con musiche assordanti, ripetute per uccidere il tuo desiderio di cambiare? O ancora cosa significa perdere tuo padre per una bomba lanciata a caso, lasciare tua sorella agonizzante nel mezzo di un deserto, perdere la salute in una prigione lontana da tutti, maledire l’acqua dopo un viaggio alla deriva nel mare? E il tutto in una sola vita, in pochi anni sparsi nel mezzo della giovinezza, di quando noi celebriamo le estati, passiamo i pomeriggi a studiare, a sognare di diventare grandi, di viaggiare.

 

Nessuno di noi vuole saperlo veramente, perché saperlo significa provare a sentirlo. Preferiamo difenderci dietro lo schermo della compassione, dietro alla paura o, perché no, dietro all’ammirazione. Emozioni e sentimenti che allontanano. Che, soprattutto, non cambiano le cose. O meglio che possono farlo solo mettendo in moto altro: creatività, determinazione, responsabilità. Per questo oggi dobbiamo parlare in modo diverso di rifugiati, di migrazioni in generale.

 

Lo faremo in tre modi

 

In primo luogo raccontando la creatività. Per ribadire che “noi stiamo con la sposa”, come avevamo già scritto su Unimondo lo scorso 24 maggio. Per chi se l’è perso, “Io sto con la sposa” è il progetto di tre registi e attivisti che hanno deciso di attraversare le frontiere europee, dall’Italia alla Svezia, organizzando un rocambolesco corteo nuziale, composto da siriani, palestinesi e italiani. L’obiettivo è mettere a nudo la violenza della frontiera. Il metodo è il gioco: giocare con le assurde limitazioni europee che impediscono a un rifugiato di scegliere in che paese vivere, secondo il così detto Regolamento di Dublino, per segnalare l’ennesima violenza che deve subire chi, come uno dei protagonisti, ha appena visto morire amici e parenti in acque europee. Un argomento terribilmente drammatico ma un trattamento pieno di ironia, che riporta alla memoria la fine della dittatura cilena, raccontata recentemente nel film “No – I giorni dell’arcobaleno”: nel referendum del 1988, la democrazia ha vinto grazie a una campagna televisiva improntata al buon umore piuttosto che alla denuncia dei crimini di Pinochet. “Io sto con la sposa” diventerà presto un film documentario, finanziato dal basso con un passaparola mediatico che ha colto nel segno. La comunicazione, però, rispecchia i tempi, raramente riesce a anticiparli: la campagna cilena ha funzionato perché la gente era stanca dell’immobilismo del regime. Siamo stanchi di costruire muri che dividono non solo europei da non europei, ma anche poveri da ricchi, vittime da carnefici? E ancora di più, di innalzare frontiere che dividono le nostre coscienze, aprono crepe nel nostro vivere democratico?

 

La seconda arma è quella della determinazione. Molti cambiamenti sociali sono partiti da un gruppo di persone determinate, che ne hanno coinvolte molte altre. Nasce dalla determinazione il progetto della Carta di Lampedusa, a cui Unimondo ha aderito dal dicembre 2013. Una determinazione nutrita di rabbia e tristezza ma che ha radici lontane, rimesse in moto il 4 ottobre 2013. 369 persone erano appena morte a pochi metri dalle coste di Lampedusa, quasi tutti eritrei in cerca di una vita degna, e le istituzioni italiane avevano risposto con lacrime e tentativi di deviare lo sguardo, verso un’Unione Europea inevitabilmente lontana e indifferente, verso scafisti senza scrupoli.

 

La morte insensata di queste persone è stata però la molla che ha riacceso la determinazione di chi si batte da anni per la libertà di movimento: organizzazioni e singoli cittadini, che hanno scritto la Carta di Lampedusa ai primi di febbraio. Più che un documento, la Carta ha cercato di essere un orizzonte comune per migliaia di persone che vogliono neutralizzare le frontiere come elemento di violenza, cambiare le politiche europee per far sì che non si muoia ai confini, che il diritto d’asilo sia veramente garantito, che smettiamo di chiedere a regimi autoritari di fare il lavoro sporco, cioè di arrestare i flussi di persone, per conto dell’Europa. Una rete di persone che crede nei sogni e fa qualcosa per realizzarli: venerdì 13 giugno è stata la volta di “Make space, not borders”, un’iniziativa di protesta sotto le ambasciate europee in diverse città dell’Unione. Sabato 21 potrete invece salire sul No Borders Train, un viaggio in treno da tutta Italia verso Milano e da Milano verso i confini europei, per superarli in nome delle migliaia di rifugiati che non possono farlo o che per farlo devono affidarsi ai trafficanti.   

 

La terza parola, forse la più importante, è responsabilità. Un atteggiamento trasversale, che deve coinvolgere cittadini e istituzioni. Centro Astalli, l’organizzazione di supporto ai rifugiati legata al Jesuit Refugee Service, per la Giornata Mondiale del Rifugiato ha coniato lo slogan “Chi chiede asilo lo chiede a te”. Un invito a sentirsi responsabili, perché quella dei rifugiati è una questione di dignità per ogni cittadino italiano. Creare dei canali umanitari non significa solo costringere i nostri governi a cambiare politica estera, a istituire forme di ingresso regolare in Europa, a rendere effettivo il re-insediamento dei rifugiati da paesi in cui sono a rischio. Significa anche incontrare i rifugiati nelle nostre città e costruire insieme a loro risposte dignitose e proposte di cambiamento. Oltre 50 mila persone sono arrivate via mare in Italia dall’inizio del 2014. Ma altre, non sappiamo quante, sono arrivate via terra da Croazia, Slovenia, Austria. Il governo ha preparato per le prime un nuovo piano emergenziale, se possibile peggiore di quello approntato tre anni fa per i “profughi” della guerra in Libia e rivelatosi per qualcuno un grande business. Le seconde invece non hanno spesso nessuna risposta abitativa, pur ottenendo un titolo di soggiorno che garantisce una protezione.

 

A fronte di 20 mila posti disponibili nel sistema SPRAR e di diverse migliaia in centri di accoglienza nell’Italia meridionale, migliaia di rifugiati vivono ancora ai margini delle nostre città. Pensate: essere scappati dall’esercito perché non si vuole uccidere, essere stati catturati e detenuti subendo violenze che non si possono dire, essere stati picchiati dalla polizia alle frontiere di Turchia, Egitto, Libia, Grecia e Italia. E trovarsi infine a vivere in una casa pericolante, senza nulla, in uno stato per cui il diritto d’asilo è un principio fondamentale, stampato nella Costituzione. In un continente che dice di voler creare una “area di libertà, sicurezza e giustizia”. Probabilmente vi sentireste presi in giro, delusi, arrabbiati o disperati. Attraversare la frontiera, con tutto il carico di sofferenza che ha portato, è servito a poco, quando continuate a sperimentarla ogni giorno sulla vostra pelle.

 

Vittima dell’assenza di responsabilità, chi cerca rifugio è spesso costretto a diventare creativo, a essere ostinatamente determinato. Attraversare frontiere, salvarsi la vita, pensare alle proprie famiglie, tutto richiede una presenza assoluta. Per festeggiare la Giornata Mondiale del Rifugiato, vi invitiamo quindi a usare le stesse qualità per costruire un futuro migliore, una casa degna per tutti. Unimondo nasce proprio da qui: dal sogno di un mondo senza barriere. Nel 1994, agli albori del world wide web, Anuradha Vittachi, una rifugiata sri lankese figlia di giornalisti perseguitati nel proprio paese, dà il via all’avventura del portale ONEWORLD con la pubblicazione online di un dossier sui rifugiati. “Date la parola ai rifugiati – ci ha detto l’anno scorso per i 15 anni di Unimondo – dategli la possibilità di essere protagonisti della nostra società”. Per questo domani vogliamo festeggiare con voi questa giornata. Ma non fermatevi qui, agite subito.

 

La strategia dei jihadisti iracheni sui social network

 

 

   Internazionale 18 giugno 2014


Miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante a Baiji, in Iraq. (YouTube/Afp)

 

I jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) usano Twitter e in generale i social network come strumento di propaganda. Sempre più spesso negli ultimi anni i gruppi estremisti hanno usato la rete per scavalcare i mezzi d’informazione tradizionali e controllare il loro messaggio, fare proseliti e raccogliere fondi. L’Isil è una delle organizzazioni terroristiche che riesce meglio a usare i social network e lo fa con una strategia ben precisa, spiega The Atlantic.

 

Uno dei prodotti di maggiore successo usati dall’Isil è un’app in arabo chiamata Alba. L’applicazione tiene aggiornati gli utenti sulle attività del gruppo.

 

Centinaia di persone hanno scaricato l’app per Android da Google Play. Al momento dell’istallazione l’app raccoglie informazioni personali degli utenti. Inoltre richiede l’autorizzazione a usare in automatico l’account su Twitter di chi la scarica. In questo modo l’Isil può postare i suoi contenuti su molti account personali. L’app è stata lanciata ad aprile del 2014 e durante l’ultima offensiva, lanciata all’inizio di giugno, l’attività si è molto intensificata. Il giorno della presa di Mosul, nel nord dell’Iraq, sono stati postati 40mila tweet.

 

Il 15 giugno centinaia di utenti dell’app dell’Isil hanno cominciato a postare dei tweet con la foto di un jihadista che mostrava una bandiera con scritto: “Baghdad, stiamo arrivando”. Il numero di tweet con questa immagine è stato talmente alto che qualsiasi ricerca della parola Baghdad su Twitter generava tra i primi risultati la foto del jihadista con la bandiera.

 

Ma l’app è solo uno degli elementi che contribuiscono al successo dello Stato islamico sulla rete. Un altro è l’uso costante ed efficace degli hashtag su Twitter.

 

Gli hashtag proposti dagli account di Twitter dell’Isil hanno più successo di quelli usati da un altro gruppo islamista attivo in Siria, il Fronte al nusra. L’Isil riesce spesso a imporre i suoi hashtag come trending topic su Twitter. Secondo l’Atlantic a febbraio un hashtag dell’Isil è stato usato anche diecimila volte al giorno, mentre gli hashtag del Fronte al nusra venivano usato tra le 2.500 e le 5.000 volte al giorno.

 

L’Atlantic sostiene che il successo della propaganda dell’Isil online dimostri chiaramente le competenze e le tecnologie all’avanguardia a disposizione dell’Isil, competenze tali “da far impallidire un guru dei social network di una grande azienda statunitense”.

 

Motonave salva 102 migranti, tre morti

 

Extracomunitari sbarcati a Pozzallo nel ragusano

 

Ansa - 8 giugno 2014

 

La motonave Anwar che ha soccorso 102 migranti è entrata nel porto di Pozzallo. Nel pomeriggio, sempre nel porto Ragusano, approderà un'altra motonave, la maltese Norient Star, con lo stesso numero di persone soccorse in mare.


A bordo di quest'ultima, conferma la marina militare italiana, ci sono anche i corpi di tre migranti morti durante il viaggio.

 

E proseguono senza sosta nel Canale di Sicilia i soccorsi ai barconi carichi di migranti partiti dalla Libia. Un mercantile battente bandiera panamense, il City of Sidan, che ha raccolto complessivamente 529 profughi, di cui 120 donne e 19 bambini, sta facendo rotta verso Palermo. L'arrivo in porto è previsto per le 6.30 di domattina. La Prefettura del capoluogo sta già predisponendo tutte le iniziative per l'accoglienza. L'ultimo intervento, coordinato dalla Capitaneria di Porto di Palermo, ha riguardato un barcone con 186 migranti, tra cui 83 donne e 58 bambini, soccorso a sei miglia da Lampedusa. Gli immigrati sono stati presi a bordo della nave Scirocco della Marina Militare, impegnata con altre unità nell'operazione Mare Nostrum. Una motovedetta della Capitaneria di porto di Lampedusa si sta infine dirigendo a 57 miglia a Sud est dell'isola, in seguito a una richiesta delle autorità maltese che stanno coordinando le operazioni di soccorso a un altro barcone con centinaia di persone. Tra i profughi, raccolti dal mercantile Marsk Rhode Island, vi sono infatti due donne in avanzato stato di gravidanza che saranno trasferite nel poliambulatorio di Lampedusa.

 

"Se i numeri continuano ad essere questi - dice il sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna - la situazione rischia di diventare ingestibile: già abbiamo le prime disdette di turisti e se continua così saremo veramente nei guai". Oggi a Pozzallo splende il sole e le spiagge di sabbia dorate sono prese d'assalto dai siciliani della zona. In giro si vedono pochi migranti, mischiati tra i bagnanti e a passeggio sul lungomare. "Tutti gli immigrati che arrivano - spiega il sindaco - vengono quasi subito trasferiti: gli oltre 400 sbarcati la notte scorsa sono già stati portati via. Attualmente abbiamo 320 persone nel nostro Centro di prima accoglienza e altre 180 sono nella struttura di Comiso". Il problema, osserva Ammatuna, sono i continui arrivi, con "cifre che generano paura". "La gente che non sa bene cosa accade veramente - osserva il sindaco di Pozzallo - ha timore di venire in una splendida località di mare perché la crede 'invasa' da migranti. Non è così, ma le disdette arrivano lo stesso".    

 

Fassino, situazione insostenibile - Un "incontro urgente" con il ministro Alfano, per "adottare le misure necessarie" a far fronte all'emergenza sbarchi. Lo chiede il presidente dell'Anci Piero Fassino. "Gli sbarchi stanno assumendo dimensioni drammatiche e insostenibili", dice Fassino, che chiede "un impegno straordinario" a Stato e Regioni. "I continui sbarchi di profughi sulle coste italiane stanno assumendo dimensioni drammatiche e insostenibili per i comuni siciliani le cui strutture sono insufficienti e, in ogni caso, già iper-sature", sottolinea Fassino. "Senza un impegno finanziario e operativo straordinario dello Stato e delle Regioni - sostiene il presidente dell'Anci e sindaco di Torino - anche gli altri comuni italiani non sono in grado di farsi carico da soli di una situazione così critica". 

 

La Domenica Economica.

Flessibilità e disoccupazione:

abbiamo davvero bisogno del jobs act    

 

 

    oltremedianews.com - 1 giugno 2014

 
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Da ormai molto tempo la maggioranza degli economisti ha sposato la teoria secondo cui solo intervenendo sul mercato del lavoro sarebbe possibile migliorare lo stato occupazionale dei cittadini. Nonostante sia appurato che non sussista una correlazione empirica tra flessibilità e disoccupazione il neo-premier Renzi si prepara ad inferire l’ennesimo colpo ad un settore già in ginocchio. Quali alternative?

 
La nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O meglio, quel che rimane della nostra Repubblica, almeno sulla Carta, dovrebbe essere imperniata su di esso. Benché infatti il lavoro sia posto come cardine fondante della nostra società, i dati sulla disoccupazione da un lato e l’operato degli ultimi governi dall’altro sembrano suggerire una situazione decisamente diversa. Come tutti sappiamo la Costituzione prevede anche altri diritti quali l’uguaglianza, la libertà e il diritto alla persona, ma il fatto che il lavoro sia menzionato sia all’art.1 che all’art.4 sembrerebbe porlo in una posizione decisamente centrale e nevralgica. Tuttavia le contingenze storiche e un pizzico di colpi d’ascia umani hanno fatto sì che si parli con totale disinvoltura del “mercato del lavoro”, fattore che tende a porlo al di fuori dell’alveo logico dei diritti, mentre per fortuna nessuno ha ancora mai avanzato un modello di domanda e offerta per la libertà di parola. Ad ogni modo ai fini di questa rassegna ci adegueremo ai mala tempora e offriremo alcuni spunti di dibattito a partire da autorevoli studi empirici sul mercato del lavoro.

Partiamo da uno dei leitmotiv più frequenti e con cui si tende ad approcciare ogni questione economica da oltre dieci anni: maggiore concorrenza fa beni ai mercati tout court e tale ricetta sarebbe valida dal mercato del cotone a quello del petrolio, da quello delle automobili a quello del lavoro. Per quanto concerne il settore lavorativo, la maggiore concorrenzialità e l’allocazione ottimale delle risorse (i lavoratori) si raggiunge tramite la ben nota flessibilità. Questa di fatto consiste in contratti di lavoro a scadenza medio-breve, azzeramento del conflitto di classe e degli ammortizzatori sociali. Un mercato di tal genere, nell’ottica economica dominante, dovrebbe assicurare un tasso di disoccupazione e un livello del Pil pari ai loro valori strutturali (n.d.r l’economia neoclassica individua un livello “strutturale” o “naturale” di disoccupazione e Pil diverso per ciascuno Stato), uno standard retributivo dignitoso e un’inflazione costante. La ratio della Legge Biagi, della cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e dei continui tentativi di decostruire la cultura operaia novecentesca si rifanno in ultima istanza proprio a questo principio economico. 

Ultimo provvedimento in ordine di tempo ispirato al vecchio mantra liberista è il Jobs Act renziano. La peculiarità del provvedimento, come sottolinea Marcello de Cecco su Repubblica.it [1], è quella di allontanarsi dalla prospettiva di un mercato del lavoro unico in favore di una estrema diversificazione delle situazioni. In linea del tutto teorica (leggasi pure “ingenua”), il Jobs Act mira a porsi come una cornice generale delle variegate situazioni lavorative diverse che, in quanto tali, meritano di essere considerate nella loro unicità. In sostanza si lascerà più libertà alla contrattazione microeconomica ed individuale abbandonando la prospettiva macroeconomica del mondo del lavoro: non più una regolamentazione unica tra istituzioni, lavoratori e privati, ma una “serie di congerie di interventi settoriali”. Un atto per tutti i lavori dunque, ma di fatto esso sortirà come unico effetto quello di sottrarre ulteriore potere alla classe lavoratrice e acuirà la deflazione salariale che sta martoriando le famiglie italiane. La sostituzione della Cig con un reddito di disoccupazione ed il congelamento triennale dell’art.18 per i neoassunti faranno da contorno al tripudio liberista. In questa sede tralasciamo oltretutto la penosa questione del reddito di disoccupazione accompagnato da corsi di formazione professionalizzanti per chi non ha lavoro: come mai non si dirottano le risorse necessarie per la realizzazione del piano verso la scuola superiore e liceale? [2].

La situazione si aggrava ulteriormente quando ci si rende conto che il binomio tra flessibilità e occupazione, noto anche con l’astruso neologismo “flessicurezza” [3], è stato cassato già da molto tempo dagli stessi pensatori liberisti. Emiliano Brancaccio, professore eterodosso di Economia Politica presso l’università del Sannio, riporta in una sua recente pubblicazione [4] un passo decisamente illuminante sulla questione. Il Prof. Brancaccio riporta i dati di tredici studi empirici sull’esistenza di una correlazione empirica tra flessibilità e tasso di disoccupazione, ma solo una di esse – a cura del bocconiano Tito Boeri – ha riscontrato un legame diretto tra le due variabili. Persino Olivier Blanchard, professore del Mit di Boston, chief economist del Fondo Monetario Internazionali nonché autore del libro di testo universitario di Macroeconomia più usato in Occidente, è arrivato ad ammettere che “le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi” [5]. Il lettore che avrà lo zelo di leggere la nota del punto 5, scoprirà che Blanchard ha ceduto a tale evidenza già nel 2006. Otto anni sono di certo insignificanti rispetto ai temi geologici, ma sono più che sufficienti per un policy maker per rendersi conto dell’arretratezza scientifica delle sue politiche. Oltretutto a rincarare la dose ci ha pensato il governatore della Bce Mario Draghi, che ha sostenuto pubblicamente la fallacia del binomio flessibilità-maggiore occupazione. 

Il dibattito su questo punto cruciale è vivo dunque già da molto tempo ed è persino arrivato a monopolizzare le prime serate dei principali canali in tv. Il problema è che si tratta di un dibattito per lo più approssimativo da un punto di vista scientifico e praticamente sempre monolaterale. L’economia non è un cristallo monolitico immobile e con un po’ di curiosità non è affatto difficile avvicinarsi a soluzioni totalmente diverse da quella del Jobs Act, ma non per questo meno accreditate. Pensiamo alla giornata lavorativa di quattro ore [6] avanzata da Serge Latouche, professore di Economia Politica a Parigi, o ai piani di Job Guarantee [7] suggeriti dalla Modern Money Theory.

Chissà che così facendo, posto che pare proprio non sussistere alcuna relazione tra flessibilità lavorativa e tasso di occupazione, non si scopra l’ovvia constatazione che c’è una correlazione immensamente stretta tra flessibilità mentale e soluzione dei problemi.

  

[1] https://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2014/02/24/news/non_basta_un_act_per_creare_jobs-79477013/

[2] https://www.oltremedianews.com/14/post/2013/12/il-job-act-che-fa-tremare-il-pd.html

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Flexicurity

[4] E. Brancaccio, “Anti-Blanchard”. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia, Franco Angeli, Milano 2012

[5] O. Blanchard, “European unemployment: the evolution of facts and ideas”, Economic policy 2006

[6] https://comune-info.net/2012/04/decrescita-e-diritto-del-lavoro/

[7] https://economiapericittadini.it/mmt-in-pillole/321-job-guarantee
 


 

 

Mentre in Italia fioccavano le notizie sulle elezioni "politiche/europee", in Ucraina un fotoreporter italiano veniva ucciso da un mortaio filo-russo. Ovviamente, per non smentire la loro proverbiale "ignoranza funzionale", i telegiornali italiani la davano come terza notizia...

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Ucraina. Reporter italiano ucciso con l’interprete

da un colpo di mortaio: è Andy Rocchelli

 

   notiziegeopolitiche.net  di Guido Keller - 25 maggio 2014

rocchelli grande

Un giornalista italiano ed il suo interprete sono rimasti uccisi perché trovatisi con la loro auto nel mezzo di un conflitto a fuoco con colpi di mortaio fra le milizie filo-russe di Slaviansk, nella regione di Donetsk, e i militari ucraini: da quanto si è appreso il fatto è avvenuto nel villaggio di Andreevka e il giornalista italiano, un reporter del collettivo fotografico del collettivo Cesura con sede in Pianello Val Tidone (Piacenza), era il 31enne Andy Rocchelli.
La ricostruzione dei fatti all’inizio appariva poco precisa, in quanto l’agenzia francese France Press riferiva che l’uomo era stato ferito, mentre le russe Ria Novosti ed Interfax parlano della morte si Rocchelli e del suo interprete. La notizia è stata poi confermata dalla Farnesina.
Oltre ai due in auto vi erano anche l’autista e un collega francese del reporter italiano, William Roguelon, il quale ha spiegato dal letto d’ospedale dove è ricoverato a causa delle ferite che i quattro hanno sentito i colpi di mortaio, quindi hanno abbandonato subito l’auto, ma di essere stati investiti dalla deflagrazione di una delle bombe, “almeno 40 – 60”: “Prima abbiamo sentito colpi di kalashnikov che fischiavano. Poi sono piovuti i colpi di mortaio tutt’intorno – ha detto ha Roguelon. – Quindi hanno aggiustato il tiro e un colpo è piombato in mezzo al fossato” dove erano al riparo. Le milizie filo-russe hanno accusato del fatto i militari ucraini.
Rocchelli viveva e lavorava tra Mosca e Milano e collaborava con numerose riviste e giornali quali Newsweek, Wall Street Journal, l’Espresso, Le Monde, Foreign Policy,Novaya Gazeta, Zurich Zeitung, Kommersant.
L’ambasciata italiana di Kiev è stata immediatamente allertata e ha verificando le varie informazioni; il ministro degli Esteri Federica Mogherini ha twittato che si trova “Al lavoro con tutti i canali e i contatti utili, in Ucraina e non solo, per seguire il caso del reporter italiano colpito a Slaviansk”. La diplomazia italiana sta tentando di intervenire anche tramite l’Osce.

 

 Gradisca - Di CIE si muore

 

Tenda della Pace denuncia la morte di Majid,

il migrante rinchiuso nel CIE,

caduto dal tetto mentre la Polizia

sparava lacrimogeni nel centro

 

meltingpot.org   -    9 maggio 2014

Se ne facciano una ragione i politicanti di verde vestiti, che continuano al di là di ogni logica a propagandarli come hotel a 5 stelle.
Se ne renda conto quella massa acritica che al muro di Gradisca e agli altri muri d’Italia si è rapidamente abituata, rigettando qualsiasi impulso a domandarsi cosa essi nascondono.Di CIE si muore, e il 30 aprile 2014 un ragazzo è morto.
Non si è mossa foglia attorno a lui per mesi.


Una parvenza di movimento suscitò la notizia della sua caduta dal tetto del mostro di Gradisca, ad agosto. Quell’agosto in cui una pioggia di lacrimogeni cadde sui migranti "colpevoli" di voler festeggiare la fine del Ramadan all’aperto.
Notti di agosto in cui i detenuti salirono sul tetto del CIE per vedere il cielo, sfuggire all’aria impestata dai CS e gridare ad una cittadina indifferente che non ne potevano più di quell’isolamento.


Per un attimo sembrava che le vite dei reclusi senza nome del CIE potessero avere un valore mediatico, perché una notte di agosto Majid è caduto dal tetto, ed ha battuto la testa.


Per un attimo solo i riflettori si sono accesi sul CIE di Gradisca mostrandolo per quello che è, un luogo di negazione, non solo di diritti ma della vita stessa.
Poi però il sipario è velocemente calato.


Calato su quei successivi giorni di caldo e ansia, in cui i compagni di sventura di Majid hanno cercato in ogni modo di rintracciare la sua famiglia in Marocco, perché sembrava che le autorità avessero altro a cui pensare, o forse non era così importante dire ad una madre che suo figlio giaceva in coma in un paese straniero.


Calato sull’ospedale di Cattinara, a Trieste, dove i finalmente rintracciati cugini di Majid, residenti in Italia, hanno cercato di fare visita al loro congiunto e si sono trovati di fronte un muro fatto di burocrazia e negligenza. Perché, disse loro una solerte dottoressa, “dall’ispettore del CIE” arrivava l’ordine di non fare entrare nessuno in quella stanza. Perché i cugini andavano identificati, non fosse mai che due finti cugini cercassero di vedere un ragazzo in coma per chissà quali loschi fini.
Nessuno si curò di renderlo noto, come se fosse normale che la longa manus del CIE arrivasse addirittura fin dentro ad un ospedale, come se Majid fosse un sorvegliato speciale, come se ci fosse un interesse superiore da tutelare nel tenerlo isolato.
Nessuno si curò neanche di facilitare la venuta del fratello di Majid dal Marocco. Perché si sa, quella frontiera che l’Europa difende a costo di migliaia di vite è invalicabile, se non si possiede un visto. E quel visto, ai familiari di Majid in Marocco, nessuno ha pensato di concederlo.
I mesi sono passati, e il silenzio è stato il fedele compagno della lotta di Majid in un letto d’ospedale. Luci spente, perché gli ultimi non saranno mai i primi, non in questa vita.


Sei giorni prima della sua morte, abbiamo chiesto al nuovo Prefetto di Gorizia se un’indagine fosse mai stata aperta su quanto accadde la sera della caduta dal tetto. “Non mi risulta”, detto con la stessa partecipazione emotiva che si potrebbe avere dicendo che no, stasera in centro non c’era traffico.
Chissà se al Prefetto risulta che questo ragazzo è morto, e se si rende conto che il CIE, diretta emanazione di uno stato segregazionista, lo ha ucciso.
Chissà se ora il Prefetto sa spiegare perché la famiglia di Majid è stata avvisata della sua morte con una settimana di ritardo.
Chissà se sa spiegare perché è stata disposta un’autopsia senza interpellare la famiglia.

 

Abbiamo visto Majid qualche giorno prima che morisse, i suoi occhi guardavano un punto intangibile di uno spazio a noi sconosciuto. Quel ragazzo descritto dai cugini come una forza della natura stava ancora lottando, e sicuramente non ha smesso di farlo fino all’ultimo.


Noi sommessamente abbiamo lottato per lui in questi mesi, ma non è servito a tenerlo in vita.

Ora lottare significa fare in modo che di Majid ci si ricordi.

 

 

La solitudine del cronista,

tra minacce e abusi del diritto

 

unimondo.org   di Anna Toro -  03 Maggio 2014

 

Reporter uccisi, minacciati, messi alla gogna, spesso precari e senza alcuna tutela da parte dei giornali e degli editori per cui hanno pubblicato scoop e rivelazioni. E ancora, articoli censurati, testate pignorate, o addirittura costrette a chiudere perché impossibilitate a difendersi di fronte ai prepotenti cui hanno pestato i piedi. Forse non molti ne sono al corrente, ma tutto questo succede nel nostro Paese, e la colpa non è solo della criminalità, i cui metodi di intimidazione nei confronti dei giornalisti “scomodi” sono ben conosciuti. Ci sono altre armi, meno violente ma altrettanto formidabili, che da un po’ di tempo a questa parte sono diventate le preferite dai politici, dai ricchi e dai potenti quando vengono pizzicati nei loro affari: le querele per diffamazione e le richieste di risarcimento milionarie, che da strumenti per la tutela del cittadino contro gli abusi della stampa si sono trasformate sempre più in un mezzo per troncare sul nascere il giornalismo d’inchiesta e la circolazione di notizie di fortissimo interesse pubblico.

 

La denuncia arriva da Ossigeno, lo speciale Osservatorio sull’Informazione Giornalistica e sulle Notizie Oscurate, promosso dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) e dall’Ordine dei Giornalisti (OdG). Che riporta una situazione allarmante, descrivendo un’atmosfera di costante tensione all’interno del giornalismo nostrano, che favorisce una sorta di “censura camuffata” che va a colpire l’informazione tutta. D’altronde, i dati riportati dall’osservatorio – in un anticipazione del report completo che uscirà a giugno – parlano da sé: sono ben 151 gli episodi di minacce, intimidazioni o aggressioni a giornalisti, nei soli primi 100 giorni del 2014. “Se il nostro contatore stava a zero nel 2006, anno in cui abbiamo cominciato a raccogliere le denunce, ad oggi le vittime sono 1837, di cui 1227 negli ultimi tre anni – afferma il direttore di Ossigeno Alberto Spampinato –. In pratica, una media di un episodio al giorno. E se nel 2013 c’è stato un aumento del 20% rispetto agli anni precedenti, dal primo gennaio 2014 siamo invece a un +50%”. L’analisi si concentra anche sulle caratteristiche di questi episodi, catalogati con tanto di nomi e cognomi: il 43 per cento di essi sono costituiti da avvertimenti, il 21 per cento da aggressioni e danneggiamenti, mentre ben il 36 per cento sono abusi di diritto e querele “pretestuose”, presentate solo con lo scopo di spaventare e censurare l’informazione.

 

Lo sanno bene i tre giornalisti invitati da Ossigeno a raccontare le loro esperienze durante la presentazione dei dati: come Andrea Cinquegrani, che ha parlato della lunga serie di intimidazioni che il mensile di cui è direttore, La Voce delle Voci, ha dovuto subire, fino al recente sequestro della testata, come risarcimento danni in seguito a una condanna in primo grado per diffamazione. Per questo, dopo oltre 40 anni di storia, il giornale è oggi a rischio chiusura. “Quello che la camorra non è riuscita a fare contro di noi – ha commentato amaro – lo sta facendo una sentenza del tribunale civile”. O Claudio Pappaianni, collaboratore dell’Espresso, che è stato recentemente minacciato di querela, e denuncia la mancanza di tutele e la poca solidarietà all’interno della stessa categoria dei giornalisti. Carlo Ceraso, infine, giornalista di Spoleto e direttore della testata web Tuttoggi.info, ha messo in luce i pericoli, poco noti, a cui va incontro ogni giorno il cronista locale, sottolineando anche lui la mancanza di tutele e la solitudine di chi va incontro a questo tipo di intimidazioni. Ceraso stesso ha subito minacce e l’oscuramento di tre articoli per disposizione giudiziaria a causa di un’inchiesta sul dissesto della Banca Popolare di Spoleto. “Siamo di fronte a un collasso della democrazia – ha detto il presidente della FNSI Giovanni Rossi – che apre la strada a una maggiore aggressività nei confronti del mondo dell’informazione, quella d’inchiesta, che non chiede un consenso preventivo da parte del potere”.

 

Antonio Spampinato spiega che buona parte della responsabilità è anche del sistema: “Molte di queste intimidazioni sono rese possibili da leggi e norme concepite in modo punitivo nei confronti dei giornalisti, che consentono facili abusi e non permettono di punire i prevaricatori”. E il disegno di legge in discussione al Senato, a quanto pare non cambierà di molto la situazione. “Per fare una buona legge – spiega il segretario di Ossigeno Giuseppe Mennella – dovremmo accogliere i richiami degli organismi europei ed internazionali, come l’OSCE, il Consiglio d’Europa e le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, fra l’altro, raccomandano di commisurare la pena pecuniaria alle possibilità economiche del giornalista o dell’editore, per evitare che una condanna causata da un errore porti alla cessazione delle pubblicazioni di una testata”.

 

Non che nel resto d’Europa non esistano situazioni simili, anzi. E qui entra in gioco l’altro annuncio fatto da Ossigeno e FNSI, ovvero la partenza del progetto “Safety Net for European Journalists“, sostenuto dalla Commissione Europea, per la difesa della libertà di informazione: in questo modo, il metodo di monitoraggio e tutela delle vittime promosso da Ossigeno si estende ad altri 11 Paesi. “È  necessario creare una rete in grado di rispondere a un allarme grave – termina Spampinato – Anche perché non è solo un problema del giornalismo, ma della stessa libertà in un sistema democratico”.

 

 

Radio Siani ed il Coordinamento Giornalisti

Precaridella Campania insieme

per dare voce alla città

 

Appuntamento per venerdì 7 marzo al bene confiscato alla camorra "Casa del Giornalista", sito in vico Caricatoio ai Cariati 7 e 8 (Napoli). Con Radio Siani per la diretta radiofonica di “La radio alza la voce”.


   fanpage.it  –  5 marzo 2014

Radio Siani ed il Coordinamento Giornalisti Precari della Campania insieme per dare voce alla città.

 

Ricevo e pubblico volentieri l’iniziativa organizzata dagli amici di Radio Siani ed il Coordinamento Giornalisti Precari della Campania. Continuano gli incontri culturali e pubblici promossi dal Coordinamento giornalisti precari della Campania presso la ‘Casa del Giornalista’. Venerdì 7 marzo, le porte del bene confiscato alla camorra, sito in vico Caricatoio ai Cariati 7 e 8 (Napoli), si aprono a Radio Siani. Per l’occasione, dal bene comune sarà condotta “La radio alza la voce”, una trasmissione radiofonica ‘fuori dal comune’. I microfoni saranno on air dalle ore 11.
Associazioni, movimenti, comitati, studenti e cittadini sono così invitati a impossessarsi dello spazio radiofonico. Un modo, questo, per vivere un luogo fisico restituito alla città e per esprimersi valicando i confini dei Quartieri Spagnoli.
“Come abbiamo spesso sottolineato noi ci poniamo come megafono di tutte le realtà che operano sul territorio e sui temi a noi cari”, dichiara Giuseppe Scognamiglio, presidente di Radio Siani. “Sono ormai tre anni che collaboriamo col Coordinamento giornalisti precari della Campania e siamo felici di poter entrare nel cuore della città di Napoli, come i Quartieri Spagnoli, dove c’è il bene confiscato a loro affidato, per dare ancora più voce alla città”. Con “La radio alza la voce” il Coordinamento giornalisti precari della Campania e Radio Siani danno il via ad una serie di esperienze per dimostrare che un altro modo di fare informazione e comunicazione è possibile. 

 

Se non conoscete Radio Siani, potere guardare questo reportage sulle attività di questi grandi ragazzi.

 

 

L’Italia recepisce finalmente la Direttiva sul rilascio

del pds CE ai titolari di protezione internazionale.

In vigore dall’11 marzo

 

Il testo del decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale

 

meltingpot.org - 5 marzo 2014

 

Con un ritardo ingiustificabile l’Italia ha recepito nel suo ordinamento la Direttiva 51/CE/2011. La data ultima per il suo recepimento era lo scorso 20 maggio 2013. Da quel momento però la direttiva ha comunque operato proprio per gli obblighi sottoscritti dall’Italia in base agli accordi europei che introducono il principio del self executive.


Moltissime domande sono arrivate alle Questure che però hanno risposto nelle maniere più disparate.

 

Ora, con l’entrata in vigore del D.lgs n. 12 del 13 febbraio 2014, operativo dall’11 marzo, viene fatto ordine all’interno del Testo Unico Immigrazione.

Le modifiche riguardano gli articoli 9 e 9 bis ed introducono appunto la possibilità, per i titolari di protezione internazionale, di chiedere il rilascio del permesso di lungo periodo di durata illimitata, che consente la circolazione ed il soggiorno in altri Stati europei a seconda delle condizioni previste da quest’ultimi.

 

Il tema della circolazione europea di migranti e rifugiati è al centro di un acceso dibattito da lungo tempo. Le regole imposte dai regolamenti di Schengen e Dublino (anche nella sua ultima versione), si configurano come ostacoli insormontabili, sia pe rla realizzazione dei progetti di vita dei migranti, che per le capacità di alcuni stati, Italia in primis, di rendere efficaci i loro percorsi di inserimento (senza dimenticare le colpe del sistema italiano).
Il recepimento della direttiva cerca di dare una risposta parziale a questo bisogno, ma al tempo stesso appare insufficiente a dar corpo ad una vera libera circolazione. In primo luogo per i requisiti richiesti.


Il decreto infatti, pur esonerando i richiedenti dalla disposizione che prevede il superamento di un test di lingua e dalla dimostrazione del possesso di un alloggio idoneo, mantiene le due principali condizioni previste dall’art. 9. Ferma restando la necessità di indicare un luogo di residenza, i titolari di protezione internazionale che vorranno accedere al titolo di lungo periodo avranno la necessità di dimostrare un reddito annuo almeno pari all’importo dell’assegno sociale e soprattutto un soggiorno in Italia quinquennale. In particolare quest’ultimo impone comunque un percorso di accoglienza in Italia.
Ma anche per chi potrà accedervi la vita non sarà comunque facile. Perchè il se è vero che il permesso CE permette di circolare, soggiornare e lavorare in altri paesi UE per tre mesi, chi vorrà assicurarsi un soggiorno in un altro stato dovrà comunque sottostare alle condizioni previste per il rilascio di un permesso in quel paese che, come nel caso dell’Italia, potrebbero imporre un "passaggio" attraverso le quote.

 

In ogni caso il decreto specifica che il computo dei cinque anni di soggiorno dovrà tener conto della data di presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Per alcune categorie, quelle vulnerabili, come minori, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, concorrerà alla dimostrazione di un reddito sufficiente, anche un alloggio concesso a fini assistenziali o caritatevoli, per la misura massima del 15%. Sui pds CE rilasciati dovrà comparire la dicitura "titolari di protezione internazionale".

 

 

Ostinati come asini,

per essere “nuovi italiani”

 

unimondo.org  di Anna Molinari  -  19 Febbraio 2014

 

Roma, via Ostiense, zona Garbatella. Ci arrivo a piedi da casa dopo una passeggiata nel sole freddo di una mattina d’inverno, tra sterpaglie secche, murales colorati e instabili tetti di latta che fanno da riparo per insolite fattorie Lungotevere, dove uomini e animali si dividono lo spazio rimasto. È il mio primo giorno di volontariato in una scuola di italiano per stranieri, una come tante, immagino, quando li contatto al telefono per chiedere di poterli frequentare mentre il servizio civile volge al termine. 

E invece, in quel giorno di sole di qualche anno fa, ho conosciuto Asinitas Onlus. Una scuola di italiano per stranieri come ce ne sono tante in effetti, ma forse non proprio. E l’ho capito fin da quando sono entrata in quella grande sala con tanti disegni appesi ai muri. I banchi e le sedie tutti su un lato, impilati in ordine, perché, dopo la colazione insieme nella piccola cucina in fondo a sinistra, la prima cosa da fare è un gioco. In cerchio, per rompere il ghiaccio, per conoscersi e ripetersi i propri nomi (perché non sempre gli studenti sono gli stessi, c’è sempre qualcuno di nuovo, e perché i nomi di così tante lingue vanno ripetuti, assaporati).

Si fa realtà qui l’idea che la scuola sia uno spazio creativo dove costruire relazioni di uguaglianza tra diversi, sulla base di un’ospitalità intrecciata a rituali di scambio reciproco, doni e contro doni. E un gioco sembra il modo giusto per cominciare a sciogliere nodi stretti in luoghi e tempi a volte troppo lontani tra loro e lontani da qui, nodi stretti troppo violentemente per essere liberati così in fretta, perché sono ancora troppo vicine le fughe, i maltrattamenti, le violenze, le nostalgie da cui scappare e che non possono essere dimenticate.

Nella stanzetta più piccola ci sono i volontari che seguono il corso base di lingua italiana, sillabe, suoni che si sormontano, accenti buffi e timidi sorrisi, e soddisfazione orgogliosa quando si capiscono le prime parole che mettono senso in una frase. Nella stanza grande invece si coltiva la lingua attraverso i laboratori per il dolore dell’anima. Ci si cala dentro parole nuove con un lavoro di auto-narrazione che spesso ha a che fare con i testi delle fiabe, così importanti in tante culture per unire la tradizione e la modernità, per stringere insieme le generazioni. E allora ci sediamo in cerchio, una narrazione che circola dentro quella geometria senza spigoli, affrontando un tema per volta, la famiglia, la casa, il viaggio, raccolte di delusioni e speranze, biografie e dolori. Il lavoro di Asinitas è quello di promuovere attraverso i principi dell’educazione attiva contesti di educazione che siano prima di tutto luogo di accoglienza e cura, ambienti di crescita individuale e comunitaria, che aiutino a socializzare, a imparare, a discutere di temi di cui spesso rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono loro malgrado protagonisti e testimoni. 

L’anno prima del mio arrivo, in questa scuola è nato ed è stato girato il documentario “Come un uomo sulla terra“ (2008). Non è l’unica produzione sostenuta da Asinitas, che ha supportato molti altri lavori realizzati anche grazie ai laboratori di formazione e alla collaborazione di alcuni degli studenti della scuola stessa, e resi con la sensibilità e la delicatezza che li contraddistingue anche quando gli argomenti tagliano come vetri infranti. Da C.A.R.A. Italia a Una scuola italiana, da Le parole che scrivo a Il viaggio inciso, la lista è lunga. Educazione, racconti, lavoro, sostegno psicologico e sociale: quattro aree di intervento che abbracciano la persona nei suoi bisogni fondamentali in un percorso che accompagna all’autonomia, orienta, invita all’espressione a tutto tondo della propria personalità. Uno sprofondare nelle radici ma anche nel territorio, che vede insegnanti, volontari e studenti partecipare a manifestazioni, comitati e attività, e impegnarsi nella diffusione di inchieste radiofoniche, giornalistiche e video fotografiche, nell’allestimento di spettacoli teatrali e musicali e di mostre. Azioni necessarie, se vogliamo promuovere una cultura della convivenza assieme allo sviluppo di un senso di consapevole critica. Perché li chiamiamo “nuovi italiani”, ma assieme alle battaglie sulla cittadinanza non possiamo dimenticare la principale sfida da cui (re)iniziare: una vita nuova che fiorisca su un passato che, se non è possibile dimenticare, possa almeno non far inciampare in questo continuo sforzo di incamminarsi al futuro.

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Padova - L’odissea dei rifugati trovati in

un container: picchiati in Grecia, denunciati

in Italia per il reato di clandestinità

 

Affidati al business dell’accoglienza rischiano

ora una riammissione in Grecia dove hanno

subito violenze dai militanti di Alba Dorata

 

 

meltingpot.org  di Nicola Grigion  -  19 febbraio 2014

 

 

Raggiungere l’Italia era molto più che un sogno: forse una necessità vitale, probabilmente l’unica scelta. Difficile pensare che, altrimenti, pur di attraversare la frontiera, i quindici ragazzi africani trovati senza fiato in un vagone merci carico di sementi, in provincia di Padova, avrebbero accettato di pagare per un viaggio di quattro giorni che avrebbe potuto farli arrivare senza vita.


Quaranta centimetri di spazio vitale, una coperta, qualche bottiglia d’acqua e una trattativa con un trafficante pakistano senza scrupoli che li ha "imbarcati" come un carico di merce umana per spedirli dalla Serbia all’Italia, passando per Villa Opicina, fino a S.Martino di Lupari, nel padovano, dove finalmente hanno potuto riempire ancora i polmoni d’aria, dopo che gli operai della ditta Agriservice hanno aperto le porte di quella che poteva trasformarsi in una tomba a rotaie.

La loro odissea è diventata una notiza solo quando hanno rivisto la luce, ma la fuga è iniziata ben prima, ben più lontano, e quel che è peggio, rischa di non essere ancora finita.


Questa invece non è una notiza. Perché l’Italia sa regalare a richiedenti asilo e rifugiati, anche quelli che non annegano in mare, le peggiori angherie. Solo poche ore prima un gruppo di famiglie siriane era stato intercettato mentre camminava lungo una statale nei pressi di Rovigo. Le mappe delle città di tutta la penisola sono costellate da una una geografia di luoghi, piccoli e grandi rifugi, dove chi è stato abbandonato dalle istituzioni trova riparo. A pochi passi da Padova, al Porto di Venezia, senza le luci dei riflettori che illuminano Lampedusa, si consumano quotidiane violazioni, con silenziosi respingimenti ai danni di centinaia di ragazzini afghani e curdi che rischiano ogni anno la morte per raggiungere l’Italia nascosti dentro i camion provenienti dalla Grecia. Poco più a nord, a Gradisca d’Isonzo, in un un luogo chiamato Centro di Accoglienza per richiedenti Asilo e Rifugiati (CARA), vengono confinati per mesi centinaia di migranti in fuga, in attesa di una risposta sulla loro domanda d’asilo. Sono solo alcuni esempi, fotografie di un sistema che non funziona, viziato dal "peccato originale" del contrasto all’immigrazione irregolare.


Per questo la storia di questi quindici ragazzi non è che una tra le tante, una delle migliaia di biografie che raccontano la crudeltà delle politiche europee del confine ed allo stesso tempo il fallimento di ogni strategia di accoglienza di questo Paese.

 

Nelle scorse ore la notiza del loro ritrovamento ha dominato la scena nei quotidiani e nei notiziari locali. In molti, giornalisti e non, hanno cercato informazioni sul loro destino, ma una coltre di fumo sembra avvolgere questa storia. Nessuno deve sapere. Perché?

 

Noi siamo riusciti ad incontrare i giovani africani meno di ventiquattrore dopo il loro arrivo per iniziare a fare un pò di luce su quella che rischia di trasformarsi nell’ennesima ombrosa vicenda di diritti violati e affari sporchi.

 

Ci sediamo al tavolo di un bar e ci mostrano un pezzo di carta. Il primo ed unico documento che hanno ricevuto dalle autorità italiane è un verbale redatto dai Carabinieri del Comando di Cittadella "in qualità di persone sottoposte ad indagine". E’ una denuncia ai sensi dell’art. 10 bis del D.lgs 286/98, il Testo Unico immigrazione: ingresso e soggirono irregolare. Sono accusati del reato di clandestinità quel fastidioso stigma che perfino l’attuale Govero ritiene dannoso e "abrogabile".

 

Il viaggio

 

A ritroso, ripercorriamo allora le loro storie che ci portano nel Nordest della Nigeria, una zona investita da un’impressionante escalation di violenze, distrutta da un conflitto armato senza fine, un territorio devastato che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugati, numerose organizzazioni internazionali ed la stessa Farnesina, ritengono ad alto rischio. E’ da lì che molti di loro sono partiti.


Qualcuno si è mosso in aereo, altri invece hanno camminato verso il Mali, oppure, sempre attraversato il Niger, hanno raggiunto la Libia, da dove si sono imbarcati per l’Europa finendo però in Turchia. Da qui hanno dovuto intraprendere un nuovo viaggio attraverso le frontiere. Ma prima di raggiungere la Serbia, passando per Albania e Montenegro, prima di conoscersi, prima di salire su quel vagone partito da Sid, che ha rischiato di essere il loro ultimo letto, ognuno di loro ha fatto tappa in Grecia: un nodo cruciale della loro avventura, di quella che li ha portati fin qui e, probabilmente, anche di quella che li aspetta.


Il primo e unico pezzo di carta dalle autorità italiane è la denuncia per il reato di clandestinità

Proprio in Grecia le loro storie si sono incrociate nuovamente: nei centri di detenzione dove ogni diritto è carta straccia, nel paese in cui le percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato rasentano lo zero, lì dove la crisi morde più che in altri luoghi, in uno stato dove la guerra ai blacks è diventata caccia all’uomo, nella periferia dell’Europa monetaria, verso cui anche il Consiglio di Stato italiano ha dichiarato la necessità di sospendere i trasferimenti, pena il rischio di danni irreparabili.

 

Per un anno e mezzo hanno vissuto da carcerati. Alcuni hanno attraversato tre o quattro campi di detenzione diversi in attesa di conoscere il loro destino e riprendere il cammino. Poi la Polizia greca li ha liberati con un mese di tempo per lasciare il paese. Hanno raggiunto Atene, hanno vissuto senza cibo e senza un luogo dove riposare ed è qui che hanno sperimentato sulla loro pelle tutta la violenza delle bande razziste di Alba Dorata, il partito che negli ultimi anni ha preso il largo in Grecia. Sono stai pestati violentemente e molti di loro portano ancora i segni di quelle notti passate all’ombra del Pantheon alla ricerca di un luogo dove ripararsi, prima ancora che dal freddo, dalle ronde dei neo-nazisti.

 

Ma molto probabilmente le cicatrici delle violenze non sono gli unici segni che si portano dietro. Perché quel passaggio in Grecia potrebbe riportarli indietro. Infatti, secondo il regolamento Dublino, che individua lo Stato competente ad esaminare una domanda d’asilo, non è possibile presentare una nuova richiesta di protezione internazionale in un Paese UE diverso da quello di ingresso. Una vera e propria gabbia imposta ai migranti.
Sulla richiesta, che nelle prossime ore, salvo imprevisti, presenteranno in Questura, dovrà quindi pronunciarsi l’Unità Dublino. Neppure è il caso di ricordare che un eventuale "respingimento" dei richiedenti sarebbe una gravissima violazione dei loro diritti vista anche la copiosa mole di giurisprudenza che evidenzia i rischi causati da eventuali rimpatri in Grecia.

Picchiati dalle ronde di Alba Dorata. Il Regolamento Dublino potrebbe riportarli indietro

Intanto i quindici ragazzi sono qui, ancora una volta a chiedersi che ne sarà di loro, mentre ancora nessuno ha voluto ascoltare la loro storia.

 

Eppure, dopo essere stati liberati da quei vagoni infernali ed essere stati portati in ospedale, ci sarebbe stato tutto il tempo, almeno lo stesso impiegato per scivere la denuncia, per raccogliere la loro domanda d’asilo.


Una volta usciti dall’opedale invece sono stati trasferiti a Padova dove hanno trascorso la notte.

 

Ed è qui che si apre un altro capito piuttosto buio ed inquietante di questa storia.


Perché sono stati alloggiati presso la tristemente famosa "Casa a Colori", un ostello che all’occorrenza, di emergenza in emergenza, diventa la soluzione utile per sfrattati e rifugiati, lo stesso che, tra il 2011 ed il 2012, aveva ospitato circa novanta "profughi" provenienti dal Nordafrica, con un compenso di circa 46 euro giornalieri ricevuto dall’ente per ognuno di loro. Un gruzzoletto di oltre un milione e mezzo di euro messo in cassa sulla pelle dei migranti.

 

Per tutta la giornata, sollecitati dalla stampa, i responsabili dell’ente gestore hanno negato la presenza dei quindici e negli uffici di via del Commissario sono regnati incertezza e timori che non hanno fatto altro che allungare ulteriori ombre su questa storia. Ninete cibo e niente vestiti, nessuna informazione. A che titolo Casa a Colori potrebbe infatti ospitare dei richiedenti asilo? Non si tratta certo di un ente con competenza in materia e neppure risulta essere inserito nei nuovi progetti del Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati recentemente approvati dal Ministero dell’Interno.

 

Una delle potenziali risposte sta nella circolare che lo stesso Viminale ha diramato negli scorsi mesi. Le indicazioni che contiene assomigliano ad un’edizione leggermente rivista della fallimentare esperienza dell’Emergenza Nordafrica. La nota del Ministero chiede infatti alle Prefetture, saltando ancora il sistema SPRAR e senza prevedere neppure lontanamente gli standard minimi da questo previsti, di individuare, nell’ambito del "privato sociale", strutture ed enti che possano ospitare i richiedenti asilo fuori dai circuiti ufficiali, dietro un compenso di 30 euro giornalieri che, è bene ricordarlo, non finirebbero in nessun caso nelle tasche dei migranti.


Facile immaginare che chi in passato, proprio grazie al business dell’accoglienza, è riuscito a risanare il proprio bilancio, veda in questo nuovo affare una grande occasione di speculazione.

Ancora a gonfiare il business sui migranti

Diversamente, ma non siamo certo noi a dover smentire queste ipotesi, c’è da pensare che quella della Casa a Colori sia stata solo una sistemazione temporanea per la scorsa notte, in attesa che le autorità decidano il da farsi, regalandoci il solito spettacolo di scaricabarile, rimpalli, diritti violati e scelte scellerate a cui in questi anni ci hanno abituato le vicende dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Italia.

 

Intanto l’Associazione Razzismo Stop, insieme all’ADL Cobas ed ai movimenti per il diritto alla casa hanno lanciato una mobilitazione con migranti e rifugati per il prossimo Primo Marzo, un occasione in più per ribadire "la necessità di mettere fine al sistema di accoglienza basato su campi e centri, per costruire un sistema basato sull’ accoglienza diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionaria e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi ed insieme per riaffermare "la necessità dell’immediata abrogazione del Regolamento di Dublino che impone ai migranti di fare richiesta d’asilo nel primo stato membro in cui fanno ingresso, impedendo in tal modo alle persone di portare a compimento il proprio progetto di vita", così, come sta scritto nella Carta di Lampedusa, la dichiarazione programmatica approvata dai movimenti lo scorso 1 febbraio sull’isola.

 

E proprio la storia di questi quindici migranti, costretti a percorrere la difficile rotta dei balcani, ci racconta quanto Lampedusa, anche nel lontano Nordest, non sia poi così distante.

 

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La Carta di Lampedusa

 

   unimondo.org  di Pasquale Mormile -  27 Gennaio 2014

 

Sveglia! Sono le 5 del mattino, devo fare il check-in, altrimenti perdo l’aereo e a Lampedusa non è che ci si può arrivare in treno. Lampedusa è lontana, ma una volta che ci sei stato ti rimane dentro con il suo mare, lo stesso mare che ha accolto gli ultimi attimi di vita delle migliaia di persone che annegandovi hanno cercato di raggiungerne le coste, ma invano perchè Lampedusa è lontana per me che prendo l’aereo da Malpensa, ma lo è ancor di più per le barche che partono dalla Tunisia o dalla Libia, per intraprendere un “viaggio” che può durare svariati giorni e che può concludersi, come è avvenuto spesso, in tragedia con centinaia di vittime.

 

Avvenne così il 3 ottobre 2013, quando una di queste barche si inabissò con al suo interno ancora centinaia di persone, proprio al largo di Lampedusa. Morirono quasi in 400.

 

Dopo quella strage, si è costituito un gruppo informale di persone, denominato Comitato 3 ottobre – Accoglienza che promuove l’istituzione di una “Giornata italiana ed europea dell’accoglienza e della memoria” da celebrare ogni anno, proprio nell’anniversario di quel triste avvenimento.

Non solo. Tra qualche giorno, infatti, dal 31 gennaio al 2 febbraio avrà luogo a Lampedusa un evento molto importante che segna, finalmente, un impegno serio e qualificato sulla questione dei diritti umani e civili violati a causa delle pessime politiche italiane e comunitarie che regolano i flussi migratori. A questo evento parteciperanno decine di associazioni, movimenti, sindacati, giuristi, gruppi laici e religiosi, provenienti da tante parti d’Italia e da diversi paesi europei e nordafricani per scrivere assieme la Carta di Lampedusa, un patto costituente tra tutti coloro che credono nella possibilità di fondare un’Europa nuova, dove le libertà e i diritti dei suoi cittadini si fondano sul principio che nessun essere umano può essere sottoposto a violenze e detenzioni arbitrarie, né tanto meno rischiare la propria vita, solo perché ha voluto o dovuto lasciare il proprio paese per raggiungerne un altro.

 

Unimondo seguirà da vicino questa iniziativa dedicando l’intera settimana ai temi delle migrazioni viste da molteplici punti di osservazione, forse in grado di far comprendere che questo fenomeno è globale, che riguarda da vicino il futuro dell’umanità. Lampedusa diventa quindi un simbolo.

 

Nei  tre giorni del forum  Lampedusa sarà la capitale del Mediterraneo per affermare la sua volontà di non essere più la frontiera fortificata di un’Europa incapace di conciliare diritti di persone e cittadini, ma porto accogliente che si prende cura dei naufraghi che raggiungono le sue coste ai quali viene negata la libertà perchè non in possesso di un documento. Dopotutto, che documentazione può possedere una donna incinta costretta a scappare dalla Somalia che prima di rischiare la traversata in mare, senza saper nemmeno nuotare in caso di necessità, ha già attraversato il deserto nel disperato tentativo di salvare se stessa e la vita che porta in grembo?

 

Sono felice di poter essere testimone di questo momento, ma sarò ancora più felice se non sarà un momento unico, è potrà ripetersi ancora negli anni a seguire perchè realisticamente ritengo che questa iniziativa potrà dare i suoi frutti solo se rappresenterà una prima sollecitazione, non occasionale, ma organizzata verso i governi europei affinchè questi, per davvero, decidano di cambiare le cose.

 

In Italia il Senato ha recentemente deciso, di mettere mano, finalmente, alla legge 189/2002, altrimenti nota come legge Bossi-Fini, attraverso un emendamento che depenalizza la prima entrata illegale nel paese di uno straniero senza documenti, rendendola un semplice reato amministrativo.

 

Si tratta di un primo passo verso una normalizzazione, anche se va detto che – come affermato in una bella intervista rilasciata a VITA da Andrea Segre – non può bastare, perchè tratta solo superficialmente la questione della regolazione dei flussi migratori che può essere affrontata soltanto con una legge quadro riguardante le politiche interne sull’immigrazione e sull’accoglienza dei richiedenti asilo che dovrà, ovviamente, considerare il fallimento della filosofia che ha finora guidato il legislatore, vale a dire la centralità assoluta del concetto di sicurezza quasi come se fosse un obiettivo raggiungibile in modo lineare, diretto, attraverso mere azioni di polizia.

 

La realtà di questi anni ci dice un’altra cosa e cioè che i respingimenti e la reclusione nei CIE dei naufraghi provenienti dalle coste dell’Africa, ma non solo, sono misure inutili e costose, ma che per motivi di consenso politico sono diventati argomenti taboo, intoccabili, perchè qualsiasi politica alternativa diventa automaticamente il pretesto di battaglie tra governo e opposizione in chiave elettorale. La verità è che sicurezza e accoglienza non sono obiettivi in opposizione l’uno all’altro. Anzi, possono essere complementari se decidiamo di raggiungere la sicurezza attraverso la gestione regolare degli arrivi dei migranti nel nostro paese, il che si tradurrebbe sia in un risparmio sull’amministrazione dei costosissimi CIE, sia nell’estirpazione dell’odioso traffico di esseri umani sui barconi della disperazione che giungono in Italia, specie sulle coste di Lampedusa.

 

La Carta di Lampedusa nasce proprio con l’intenzione di ripensare in modo radicale, ma sostenibile, le attuali politiche migratorie che non possono avere in un’isola 20 km² il loro core strategico e logistico. Lampedusa andrebbe restituita ai suoi cittadini e a tutti coloro che la amano e non essere degradata ad un campo di reclusione in mezzo al mare, perchè se crediamo che la soluzione sia quella di tenere segregati degli esseri umani che non hanno alcuna colpa, se non quella di fuggire da luoghi dove rischiavano seriamente la vita, allora non è passato nemmeno un giorno da quando i soldati russi e alleati entrarono nei campi di concentramento sorti nel cuore d’Europa per segregare persone la cui esistenza, per motivi razziali, politici e di orientamento sessuale, non era sopportata.

 

Oggi, sarà un caso, è il 27 gennaio, “Giorno della Memoria” nel quale si commemorano le vittime della Shoah. Ma questa data, rappresenta anche uno spartiacque sintetizzato da una scelta: Mai più. Il 27 gennaio, infatti, accettando di commemorare tutti coloro che morirono a causa del nazismo, accettammo anche di caricarci di una responsabilità che non può avere ripensamenti e cioè che non vogliamo più essere una società che accetta, seppure in silenzio, lo spegnersi di anche una sola vita umana nel nome di un’ideale, qualsiasi esso sia, perchè non esistono idee, filosofie, comunità che possono fondarsi sul sangue degli innocenti quando questo viene versato in modo deliberato.

 

Questa settimana tante persone proveranno a scrivere la Carta di Lampedusa, affermando quei principi di pace e giustizia che hanno portato l’Europa nell’era della democrazia. Oggi siamo un po’ in crisi, è vero, ma ho la speranza che sia solo un momento. Ho la speranza che prima o poi torneremo a lavorare per costruire un’Europa e un Mediterraneo che siano spazi di civiltà e pace.

 

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LIBRINO

 

Librino (o Lebrino, che dir di voglia) cosa è? Parliamo di un puntino nella geografia degradata delle periferie meridionali. E’ il quartiere dove il cittadino Luciano Bruno è stato aggredito, insultato, minacciato. Lebrino c’è ma non deve vedersi, come le foto che Luciano stava scattando, nel suo quartiere, nel luogo dove i suoi familiari vivono insieme ad altri centomila catanesi. Luogo della ingegneria asociale dove spesso i postini vanno a memoria perché non ci sono né i numeri civici e talvolta neanche i nomi delle strade e dove si abita occupando le case popolari. La cittadinanza è cosa “abusiva”, qui.

Siamo a sud ovest di Catania. Fino a 50 anni fa, campagna “leporina”, luogo di ripopolamento di lepri e conigli a fini venatori, come suggerisce il nome di origine latina. Zona di caccia, anche nel recente passato e nel presente storico: caccia alla speculazione edilizia e caccia all’uomo, caccia alla civiltà, zooponimo suburbano, di uomini ammassati come conigli. Pronti a subire o a prepotere. ‘U quatteri, tout court, come lo chiamano gli abitanti.

Negli anni 60 lo progettò l’architetto giapponese Kenzo Tange, doveva essere (come il Cep e lo Zen a Palermo, come Scampia a Napoli) la “città ideale”. Ma Lebrino è diventato subito, già prima di nascere, un aborto urbano. A chi lo disegnò, da Tokyo o da New York, non fu detto che quella zona era vicina all’aeroporto e gli aerei  volano raso, nel frastuono h24, sulle case. Quando il progetto fu approvato, per metà le case abusive avevano già invaso il territorio e le aree che dovevano essere verdi. Lo chiamano inquinamento acustico. E poi c’era la borghesia economica e fondiaria locale che, variante dopo variante urbanistica, ha ridotto questo luogo a contenitore di persone e di disperazioni. Uomini come conigli, come bestie. Strade al posto di case abusive, nuove case abusive al posto di strade e ponti.
Volavano rasi gli aerei low cost anche venerdì scorso, su Luciano Bruno e sul Palazzo di Cemento, il “muro di Lebrino”, il simbolo del degrado di questo luogo italiano. Qualche anno fa e poi sempre più spesso, intorno a quel cubo di cemento armato che è luogo di spaccio e di traffico al centro  di Lebrino, arrivò la polizia per una retata: i pusher scappavano inseguiti dagli sbirri. E la gente, dai balconi delle case, buttava pietre sugli sbirri. Per aiutare quegli altri a fuggire. La caccia continua ed è quotidiana a Lebrino.

Luciano, cittadino di Lebrino ma giornalista, performer, artista, poeta da strada, non poteva fotografare quel monumento. A Lebrino (ed essendo Luciano di Lebrino) non si può neanche fotografare, né dire.  Ecco, questo è il punto: le foto di Luciano Bruno, catanese di Lebrino, sono un gesto che appartiene a tutti, perché Lebrino ha il diritto di esistere. Nessuno tocchi Luciano e quel suo click, perché in quel “quatteri” non vivono più solo lepri o conigli.

 

Catania, aggredito giornalista Luciano Bruno.

E ora tutti al Palazzo di Cemento

per manifestare il nostro sdegno contro la mafia

 

articolo21.org di Massimo Malerba - 12 gennaio 2014

 

Due giorni fa a Librino, enorme periferia sud di Catania, Luciano Bruno (nella foto) è stato avvicinato, minacciato e barbaramente picchiato da un gruppo di sei uomini mentre scattava fotografie al cosiddetto “Palazzo di Cemento”, una struttura al centro del quartiere usata dalla mafia come centrale dello spaccio, la più importante e “produttiva” della città (e forse della Sicilia Orientale) attorno alla quale si sviluppa un business gigantesco di milioni di euro al mese. Un fortino inespugnabile, ben difeso da uomini armati e sorvegliato da “sentinelle”, in genere carusi (ragazzini) reclutati dai mafiosi per pochi euro al giorno che hanno il compito di avvertire i mafiosi dell’arrivo di forze dell’ordine o di altri soggetti considerati una minaccia per il regolare svolgimento delle attività illecite. “Ostili” come Luciano, appunto, cui i mafiosi hanno puntato contro una pistola, rotto un dente e infine nominato, a mò di avvertimento, i suoi familiari (Luciano è cresciuto a Librino).

 

Luciano è un attore teatrale e un giornalista, collabora con “I Siciliani Nuovi”, Era lì per raccontare quella periferia, come lui stesso spiega in una nota diffusa oggi sul suo profilo Facebook in cui ringrazia i tanti cittadini che in questi giorni gli hanno manifestato solidarietà. Scrive Luciano: “Le foto che ero andato a scattare ieri mattina servivano proprio a questo, a far vedere quello che io ho visto per una vita intera attraverso i miei occhi. Ed invece me lo hanno portato via con violenza, questo sguardo, insieme ad un dente. Ho letto tutte le vostre testimonianze e mi sento circondato dalla stima e dall’affetto che mi avete mostrato. Grazie ad ognuno di voi per la solidarieta’. Di cuore”.

 

Tanti, tantissimi sono stati i messaggi di solidarietà giunti a Luciano in questi due giorni ai quali aggiungo anche il mio. Ma non basta. Serve reagire. Serve far capire alla mafia di Librino che Luciano non è solo e che se toccano lui toccano tutti. Ed è per questo che mi permetto di lanciare una proposta: nei prossimi giorni (decidiamo assieme, ma presto!) rechiamoci tutti assieme al Palazzo di Cemento per manifestare il nostro sdegno proprio di fronte a loro, ai mafiosi che ci guardano dall’interno del fortino. Proviamo a restituire a Luciano le sue agibilità di giornalista e cittadino. Proviamo a restituirgli lo sguardo che la violenza mafiosa gli ha portato via.

 

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Razzismo, pallavolista italo-nigeriana

insultata come donna di colore

 

articolo21.org   di Pino Scaccia  - 13 gennaio 2014

 

Un episodio minore che certamente non sarà ripreso dai grandi quotidiani. Oltretutto perché proveniente da uno sport cosidetto “povero” non illuminato dai riflettori nazionali. Una partita del campionato di pallavolo, serie B2 femminile giocata su un campo di provincia, in Basilicata. La squadra locale, il Montescaglioso, batte meritatamente le pugliesi del Mesagne per 3-1. Una cittadina, Montescaglioso, vicino Matera, che proprio nei giorni scorsi è stata colpita da un evento grave, tanto che prima della gara è stato tributato un omaggio alla memoria di una donna morta nel crollo di una palazzina. E poi il palasport intitolato a Papa Wojtyla. Doveva essere insomma una giornata non dico di festa, ma sicuramente di sport. E invece tutto è stato rovinato dai cori continui, fortemente offensivi, contro il capitano della squadra avversaria, l’italo-nigeriana Nneka Arinze, insultata come donna e come donna di colore. Conditi oltretutto da altrettanti cori offensivi contro le ragazzine (sedicenni) delle giovanili del Mesagne che stavano a bordo campo. Con gli arbitri (donne) che hanno sorvolato sul gravissimo episodio e con il pubblico che ha assistito in silenzio perché “si trattava di un gruppo di ragazzini”. Il punto è proprio questo: non c’è neppure la speranza che le nuove generazioni possano interrompere questo malcostume. Episodi di razzismo sono da condannare senza tentennamenti nella grande ribalta sportiva, ma che avvengano anche in una partita di pallavolo, considerata ancora una disciplina pulita, è veramente preoccupante. A questo punto spetta alla federazione intervenire con decisione, salvaguardando l’ultimo patrimonio sportivo.        

 

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Lampedusa, dopo il video choc

Legacoop interviene: “Via i manager

della coop che opera nel Cie”

 

Il filmato choc trasmesso dal Tg2 avrà delle conseguenze anche sull'organizzazione delle cooperative sociali che operano nel centro d'accoglienza siciliano. Legacoop Sociali apre una inchiesta interna. E spiega: "Comportamenti inammissibili a prescindere, ma quel un centro è fatto per 200 persone e ne ospita 600".

 

fanpage.it - 18 dicembre 2013

 

Lampedusa, il video choc girato dal Tg2 all’interno del Centro d’accoglienza di Lampedusa avrà delle conseguenze anche nell’organizzazione delle cooperative che operano nel Cpsa (centro primo soccorso accoglienza). È Legacoop Sicilia ad annunciare l’istituzione di una commissione d’indagine conoscitiva, affidandone la responsabilità a LegacoopSociali. A darne notizia è la stessa associazione del mondo cooperativo. “La commissione – si legge nella nota diffusa dalla presidenza regionale – si avvarrà anche dell’apporto di professionisti esterni, per accertare al meglio disfunzioni e responsabilità. In ogni caso Legacoop Sicilia ha già dato indicazione alle cooperative socie di ‘Lampedusa Accoglienza’ di rimuovere e rinnovare il management attuale e di avviare immediatamente una migliore organizzazione con altre professionalità”.

 

La Legacoop sociali della Sicilia scrive: “Dopo l’indignazione generale davanti alle scene viste in tv di sindaci, prefetti, ministri, associazioni e cittadini, siamo i primi a chiedere che i riflettori sul delicato tema dell’accoglienza dei migranti restino accesi per affrontare alla radice la questione. Non c’è alcuna giustificazione per quanto è accaduto ma non sottolineare lo stato di assoluta precarietà in cui gli operatori del Centro di Lampedusa sono costretti a lavorare dal punto di vista logistico e strutturale, significherebbe non guardare in faccia la realtà e limitarsi a gridare allo scandalo. È bene ricordare che il centro di Lampedusa è stato bruciato, distrutto e mai ricostruito e dunque gli operatori lavorano in condizioni che non assicurano l’assolvimento al meglio dell’accoglienza delle persone. Ricordiamo infatti che la capienza del centro è appena sufficiente ad accogliere 250 persone, mentre ora gli ospiti sono oltre 600 e sono arrivati fino a 1.200. Ci sono tante responsabilità rispetto a questo stato di cose. Quella delle cooperative è stata di non avere alzato abbastanza la voce e di non avere preteso interventi immediati”.

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La “Carta di Lampedusa”,

tra memoria e azione concreta

unimondo.org - 06 Dicembre 2013

 

 

“Quello che è successo due mesi fa, il 3 ottobre, alle porte di Lampedusa, ci ha fatto capire che un cambiamento è necessario e non si può rinviare”. Nicola Grigion, fra gli animatori di Melting Pot Europe, “storico” progetto di comunicazione indipendente sui diritti dei migranti, ha avviato così l’assemblea on line di venerdì 29 novembre dedicata alla costruzione della “Carta di Lampedusa”. Dall’altra parte dello schermo di pc o tablet, 60 fra associazioni, avvocati, attivisti e comitati locali, dalla Sicilia al Trentino-Alto Adige.

 

L’assemblea è arrivata in un momento ricco di significati per l’agenda sociale e politica come per le condizioni di vita e ingresso di migliaia di migranti e delle loro famiglie. Sono passati due mesi dalla strage di Lampedusa, che ha visto 369 persone morire poco distanti dall’isola e nel momento in cui scrivo un’imbarcazione risulta in balia delle onde da oltre 20 ore, fra Malta e la costa ionica. Il 3 dicembre sotto Montecitorio attivisti e membri di organizzazioni nazionali e internazionali si sono dati appuntamento per chiedere l’istituzione del 3 ottobre come “Giorno della memoria e dell’accoglienza”, come proposto dalla sindaca lampedusana Giusy Niccolini. Appena due giorni prima sette persone, buona parte dei quali migranti non regolarizzati di cittadinanza cinese, sono morte per un incendio nella fabbrica di Prato in cui dormivano, mentre proprio il 29 novembre nei pressi di Rosarno moriva di freddo un rifugiato liberiano, arrivato nella zona per raccogliere arance. Storie individuali, o di piccoli gruppi smarrite in una storia collettiva poco raccontata e soprattutto poco ascoltata. Chi riesce a varcare da vivo le frontiere nazionali, diventa oggi facilmente un cittadino di seconda categoria, potenziale vittima di sfruttamento, di detenzione arbitraria, di leggi non applicate, applicate male o semplicemente ingiuste, di pratiche illegittime ma diffuse quando non istituzionalizzate. E’ dunque da qui, dalla constatazione, di un attacco ai diritti di cittadinanza e al diritto d’asilo, che è partito il percorso per costruire una “carta di Lampedusa”, documento che nasce dal basso per giungere a interrogare amministrazioni locali, nazionali e europee.

 

Giacomo Sferlazzo, dell’associazione lampedusana Askavusa, ha aperto l’assemblea con decisione, ricordando che “è da vent’anni che la nostra isola vive ciclicamente emergenze, seguite da tragedie, seguite a loro volta da interventi di tipo militare. Ma dal 2009 questo è cresciuto, da Lampedusa assistiamo alla militarizzazione del Mediterraneo, del mare come del cielo e della terra”. Una militarizzazione che, ribadiranno in molti, non si spiega con l’esigenza di tutela dei migranti, ma con la protezione di interessi geopolitici e con una politica securitaria che si nasconde dietro il dito dell’umanitarismo. Per Sferlazzo e per altri partecipanti “Lampedusa non deve diventare una passerella: se ci troveremo qui è per costruire qualcosa di concreto”. E’ proprio la preoccupazione della concretezza a attraversare tutto l’incontro, collegando idealmente città e esperienze geograficamente lontane. Grigion ha sottolineato come “il meeting di Lampedusa non dovrà essere in alcun modo celebrativo ma avere ben chiaro l’obiettivo di lavorare per uno spazio euromediterraneo dei diritti. Dopo il 3 ottobre le promesse di cambiamento sono rimaste parola vuota, le politiche sono le stesse di prima. Ma il cambiamento deve avere spazio”.

 

Due le domande, e molteplici le risposte. Cosa vuole essere la Carta di Lampedusa? E che contenuto vogliamo darle? La suggestione di Paolo Cognini, avvocato marchigiano da anni impegnato per i diritti dei migranti, trova diversi consensi. “La Carta può diventare una fonte di diritto altro, di diritto nato dal basso”. “Oggi nello spazio europeo – ha chiarito Cognini – ci sono dispositivi di potere e controllo che saltano la mediazione del diritti, vediamo il progetto Mare Nostrum, costruito in un contesto di assenza di regole, di regole auto assegnate. Abbiamo lasciato spazio per idee e pratiche come la schiavitù, la così detta detenzione amministrativa: dobbiamo pensare a un nuovo spazio basato sui diritti”. Una carta dunque come enunciato di diritti, ma anche come rete attiva, come manifesto che vincoli chi lo sottoscrive, come pungolo per le amministrazioni europee e di tutto il Mediterraneo. In cui convergano temi diversi, raccontati attraverso la lente di esperienze concrete. Alfonso di Stefano, voce della Rete antirazzista di Catania, è partito dalle battaglie contro la militarizzazione della Sicilia e la ghettizzazione dei rifugiati a Mineo, il maxi “residence” in provincia di Catania che ospita oggi 4000 persone, dall’invenzione di centri di identificazione aperti ad hoc per migranti, molti dei quali siriani, dalle fotoidentificazioni a bordo delle navi militari, senza reali garanzie. “Addirittura – ha spiegato – “diversi siriani hanno detto che i militari italiani della nave Chimera gli hanno sottratto soldi e gioielli”. Sergio Bontempelli dell’associazione Africa Insieme di Pisa ha insistito sulla “burocrazia del disprezzo” che investe le vite dei migranti, rendendoli maggiormente vulnerabili e al contempo criminalizzandoli agli occhi dell’opinione pubblica. Stefano Galieni, giornalista di Corriere delle Migrazioni e di altre testate, ha ricordato l’istituzione di una nuova agenzia di polizia per il monitoraggio delle frontiere fra Europa e Libia, EUBAM Libia, la cui costosa entrata in vigore dal 1° dicembre getta un’ombra inquietante sui destini dei migranti in transito per la Libia, paese insicuro, non aderente alle principali convezioni internazionali su asilo e migrazioni e noto per la persecuzione degli stranieri di pelle nera. Molteplici dunque le esperienze di denuncia e partecipazione sociale a livello locale, gran parte delle quali convergenti verso alcuni punti fermi: dire no a pratiche, idee e legislazioni sbagliate per amplificare ciò che di positivo esiste e lavorare a una sicurezza reale, che tuteli i migranti, che non discrimini, che non ceda a terzi l’onere di intercettare persone in arrivo via mare per salvarle e valutarne la situazione, che non si nasconda dietro l’alibi dell’Europa e dei trafficanti per giustificare tragedie annunciate. Inevitabilmente fra tanti temi è risultato difficile sintetizzare, ma sono senza dubbio centrali il diritto d’asilo, “illuminato” dal recente annuncio di un dibattito parlamentare sulla tanto rinviata - dal 1948 - legge italiana in materia, dunque l’accoglienza dei rifugiati e la presenza e l’integrazione dei migranti in generale e le norme che la regolano. Il tutto in un contesto di attacco al principio di cittadinanza, evidenziato da più parti, in cui la frontiera stessa diventa un discrimine, capace di segnare le vite delle persone, moltiplicando la sofferenza della migrazione e il suo perpetuarsi di generazione in generazione, che si riesca o meno a superarne la linea geografica.

 

Dal 31 gennaio al 2 febbraio a Lampedusa si raduneranno in silenzio attivisti, membri di organizzazioni, migranti per dare concretezza e respiro a parole viaggiate sul web o nelle nostre città. Fino a allora chi vorrà partecipare potrà registrarsi tramite Melting Pot e condividere on line contenuti e proposte. A Lampedusa si andrà per raccontare un Europa e un Mediterraneo fatti di creatività, diritti, partecipazione.. Perché “Lampedusa – ha detto Galieni – diventi il volano per fare vedere la ruggine che c’è anche nelle nostre città”. E non ultimo per provare a ridare dignità a un’isola affaticata.

 

Mia Lecomte, poetessa e ricercatrice, spiega così la frontiera, in “Lezioni Salentine”: 

“Se volessi a questo punto spiegare:
 si sta fra due mari, è già noto, ma non
 come scissi o appena lambiti nei margini, 
 si sta come stare davvero nel mezzo
 del senso più profondo di stare tra due mari
 consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
 della luce che finisce più presto più tarda
 del freddo dentro e fuori la grotta già caldo”

 

Un senso di separazione, di sospensione fra universi non comunicanti, che deve cessare, perché il nostro diventi un unico mare. Lampedusa potrà così tornare a occuparsi dei suoi problemi e ogni migrante potrà cercare più serenamente il difficile equilibrio di una vita lontana da casa.

 

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Prato, imprese cinesi:

le responsabilità che nessuno prende

 

Nelle fabbriche-galere i sindacati non hanno iscritti.

E 'denunciano' Confindustria.

Che accusa le forze dell'ordine

 

lettera43.it  di Antonietta Demurtas -  2 dicembre 2013

 

Non sono solo i pratesi a sapere che ogni giorno dalle fabbriche cinesi di confezioni escono abiti made in Italy prodotti da schiavi made in China. Che dentro quelle aziende dai nomi italiani come Teresa Moda (quella in cui è scoppiato l'incendio che ha ucciso sette persone domenica 1 dicembre) i cinesi lavorano, vivono e muoiono, lo sanno tutti.


LE BATTAGLIE MANCATE. Eppure nella scala delle responsabilità che davanti a ogni tragedia si percorre con il dito puntato, i sindacati occupano uno dei primi gradini. Perché se a essere violati sono i diritti umani tout court, quelli dei lavoratori dovrebbero essere loro a tutelarli.
Dove sono? Che fanno? Perché non scendono in piazza per difendere anche i diritti di quelle persone che non indossano le felpe della Fiom né sventolano le bandiere della Cisl, ma sono comunque operai di questo Paese?

 

Femca e Filctem, le associazioni di categoria del settore tessile della Cisl e della Cgil non si tirano indietro e fanno un mea culpa.


L'ORA DEL MEA CULPA. «Non vogliamo negare le nostre responsabilità, anche il sindacato ha commesso degli errori, ma il vero problema è che noi non abbiamo gli strumenti per fare rispettare la legge», dice a  Lettera43.it Sergio Gigli, segretario nazionale della Femca-Cisl. «Sappiamo esattamente quali sono le aziende dove non si rispettano le regole, ma dopo la nostra segnalazione sono la guardia di finanza e la polizia che devono agire: noi abbiamo le mani legate».
Le denuncia come una unica arma, quindi.

 

«L'illegalità ben nascosta ma nota a tutti»

 

Una linea rivendicata anche da Luca Barbetti, segretario generale della Filctem-Cgil Toscana. 
«Ma è un'arma spuntata. Sono anni che denunciamo, le istituzioni ci avrebbero dovuto ascoltare di più. Queste sono situazioni di illegalità ben nascosta ma nota a tutti», spiega a Lettera43.it.
Il gioco di parole rende l'idea di quanto il sistema cino-pratese sia ben radicato.


LA MALAVITA ORGANIZZATA CINO-PRATESE. A Macrolotto, nella zona industriale di Prato dove si trovano i capannoni delle confezioni cinesi, il segretario nazionale Gigli ha provato ad andarci.
«Volevo entrare a parlare con questi lavoratori ma i colleghi del posto mi hanno sconsigliato di scendere dalla macchina», ricorda, «perché lì il problema non è solo il mancato rispetto delle norme di lavoro, ma il racket, la malavita organizzata cinese».
Quella che costringe i lavoratori a non aver nessun contatto con i sindacati. «Questi operai vivono segregati, non parlano italiano e anche quando escono dai capannoni sono difficili da avvicinare», racconta. «Qualche collega ci ha provato, ed è stato messo in guardia: 'Fatti gli affari tuoi, altrimenti...', si è sentito dire».


IL CORAGGIO CHE NON C'È. Intimidazioni davanti alle quali anche il sindacato «deve reagire e avere più coraggio».
Ma riuscire ad allargare le tutele anche a questi lavoratori non è così facile. Perché «in quelle fabbriche non abbiamo iscritti e se non c'è un delegato sindacale non possiamo entrare, sarebbe violazione della proprietà privata», aggiunge Barbetti.


IL RUOLO DI CONFINDUSTRIA. «Molte di queste aziende invece sono associate a Confindustria, e che cosa fa l'associazione? Prende solo le quote?», critica Gigli, ricordando quando Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali della Sicilia disse: «Chi paga il pizzo fuori da Confindustria».
Ora forse sarebbe il caso di dire: «Chi non rispetta le regole e i diritti dei lavoratori lasci l'associazione».

 

Solo 2 aziende iscritte a Confindustria su 3 mila

 

Il presidente della Confindustria pratese, Andrea Cavicchi, non ha problemi ad accogliere l'invito: «Noi da tempo stiamo cercando di fare un'opera di sensibilizzazione», dice a Lettera43.it.
«Ma in realtà tra gli iscritti abbiamo solo due aziende cinesi con 15 dipendenti, e a Prato sono ben 3 mila».

Anche la Confederazione nazionale dell'artigianato (Cna) sta cercando di avvicinare questi imprenditori, «hanno già 80 iscritti, perché qui a Prato quelle cinesi sono realtà artigianali più che industriali».


I CONTROLLI MANCATI. E «l'associazione non è un organo di controllo: io devo sostenere le imprese. A sanzionarle se sbagliano devono invece essere le forze dell'ordine», ricorda.
Le quali però, con un certo «lassismo», «spesso sorvegliano più gli imprenditori italiani che quelli stranieri».
La riflessione su quanto è successo a Prato, tuttavia, deve essere più ampia ancora. «Qui c'è un problema di perdita della legalità che si è inserito in un distretto industriale che stava morendo», segnala il presidente degli industriali locali.


LA FILIERA CHE SERVE A TUTTI. C'è infatti un problema mai risolto, un compromesso che il Paese ha tacitamente accettato.
«Quel territorio ha sviluppato una ricchezza indotta e tutti hanno chiuso un occhio per far sì che il distretto industriale rimanesse lì, anche a costo di avere regole sommarie», ammette il sindacalista Gigli.
Per anni quel modus operandi «è stato utile alla stessa classe imprenditoriale pratese, che attraverso l'esternazione della manodopera ha costruito la propria fortuna», aggiunge Barbetti.


LE COLPE DISTRIBUITE. «Tutti hanno commesso degli errori», ricorda Cavicchi, che è anche presidente della Furpile Idea, azienda tessile fondata nel 1972 dal padre, «ma fare gli sceriffi ora e accusarsi a vicenda non risolve nulla, al massimo può portare dei voti».
A livello locale Confindustria e sindacati hanno più volte affrontato il tema insieme. «L'effetto dumping di questa situazione è sempre stato sotto gli occhi di tutti», dice Barbetti, «alla fine il trasferimento della lavorazione dalle aziende che rispettavano le regole a chi sfruttava i lavoratori ha danneggiato tutti».

Ma il confronto tra le parti sociali sulla ricomposizione della filiera del tessile, sulla tracciabilità dei prodotti non ha dato i risultati sperati: «Abbiamo scritto e sottoscritto degli impegni, che però sono rimasti sulla carta».


LA TRACCIABILITÀ NON BASTA. «Serve tempo», riflette Cavicchi. «A Buxelles abbiamo ottenuto il primo sì all'articolo 7 sulla tracciabilità dei prodotti, ma non dobbiamo dimenticare che le manifatture cinesi fatte a Prato sono comunque italiane, quindi non è con la tracciabilità che si risolve il problema. È il rispetto delle regole che bisogna pretendere».
Ma nemmeno questo è facile: perché «spesso gli imprenditori affittano i capannoni, superano tutti i controlli e operano secondo le regole, ma poi nel giro di pochi mesi li trasformano in posti di lavoro illegali», rileva.


UN PATTO TRA LE PARTI. Come si cambia? Con un monitoraggio più costante, «che le forze dell'ordine del territorio non riescono a garantire da sole: per questo chiediamo un intervento serio del governo», sintetizza il presidente di Confindustria.
Dopo l'ennesima tragedia, per risolvere il problema non bastano i mea culpa né i j'accuse: «Serve un patto per sradicare questa nuova schiavitù e per farlo Confindustria, governo, forze dell'ordine e sindacati devono lavorare insieme», conclude Gigli.

 

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Napoli, la piaga dei piccoli prostituti

 

Hanno 14 anni. E si vendono per un pasto.

O un letto. Sono stranieri e italiani.

Julius e gli altri baby-squillo di Napoli

 

lettera43.it  di Enzo Ciaccio  -  28 Novembre 2013

 

Julius parla una strana lingua, è basso di statura, smilzo come una acciuga e scuro di pelle. Avrà 12, forse 13 anni. Gli occhi sono neri. Socchiusi, ostili, forse spauriti.


Chi lo vuole, può averlo per due briciole. E incontrarlo ogni sera a due passi dall’ingresso del cimitero monumentale di Poggioreale a Napoli, lungo la strada dell’immondizia che va e si perde negli orti vesuviani.


PROSTITUIRSI A UN SOFFIO DALLE TOMBE. Lui è il più piccolo, nel crocchio dei bambini che battono i piedi infreddoliti prima di prostituirsi a un soffio dalle tombe, in attesa dei clienti e di quei pochi euro da consegnare a chi comanda. Piccoli rom. Ma anche ragazzi italiani, e stranieri finiti qui chissà come.
Il cimitero, il freddo, il proibito che si fa macabro a ridosso dei loculi, la strada che evapora, l’orco affamato che aspetta in auto: è Napoli, ma sembra una brutta favola. E l’epigrafe - affissa lungo il muro cimiteriale - riecheggia un verso mai così fuori luogo: «Eterno il riposo dona a loro, o Signore».

 

Sul marciapiede al freddo sotto gli occhi del padre padrone

 

Ai bambini come Julius non è concesso riposo. Anzi, a loro è severamente vietato avvicinarsi, è proibito perfino sostare sul lato opposto del marciapiede: sui bambini di vita veglia il padre-padrone, circondato da un nugolo di scagnozzi dai modi spicci e la cadenza slava.


UN FENOMENO IN FORTE CRESCITA. Rieccolo, l’orrore. Al cimitero di Poggioreale come al Centro direzionale e nelle oasi circostanti che all’imbrunire si trasformano in casbah peccatrice. Non sono solo le bambine a svendersi, nei tramonti maledetti di Napoli: il fenomeno dei maschietti a pagamento, assicurano gli operatori di strada, «è addirittura più rilevante». E «in forte crescita».
Ogni tanto, se ne riparla: spunta online qualche video cosiddetto choc, che racconta, filma, denuncia quell’obbrobrio che - ormai - «non fa più scandalo né indigna».


«UN PUGNO NELLO STOMACO». Vincenzo Spadafora, presidente italiano Unicef e napoletano, ha parlato di «un pugno nello stomaco» e di una realtà di fronte alla quale «non possiamo girare la testa dall’altra parte».
Spadafora ha invocato un piano nazionale contro la tratta dei bambini in vendita a Napoli come altrove. Altri hanno invocato l’intervento dell’Onu. Ma non se ne è mai fatto nulla.

PER STRADA ANCHE 14ENNI. La cooperativa Dedalus, che da 10 anni assiste i minori prostituti e aveva avviato con il Comune di Napoli un progetto di strada dedicato a loro, ha dovuto prendere atto che «bisogna fermarsi per mancanza di fondi». Dedalus ha fatto in tempo ad accertare che a prostituirsi in città sono i ragazzi (eterosessuali) tra i 14-16 anni e tra i 20-24 anni: i più numerosi sono i rumeni e i bulgari, poi i maghrebini, infine gli italiani.
«I maghrebini», hanno spiegato i responsabili di Dedalus, «si prostituiscono di sera, dopo aver fatto i lavavetri ai semafori, per accumulare i soldi per le scarpe griffate, il cellulare e i pullover firmati. I rumeni si vendono a tempi pieno, per procurarsi da vivere».

 

LA MAPPA DELL'ORRORE. Come per le bambine, anche per i ragazzini napoletani le strade in cui incrociare i clienti sono quelle intorno ai grattacieli del Centro direzionale. Oppure nelle sale compiacenti dei cinema a luci rosse disseminati a pioggia in zona Ferrovia e dintorni: molti dei cinema hard sono dotati di salette private, in cui è agevole appartarsi per dar vita agli incontri clandestini.
Il biglietto di ingresso costa otto euro, tre euro in più del costo di una prestazione sessuale. «Il prezzo è troppo salato», si lamenta sul sito Napoli.azgay.it Alessandro di Secondigliano, studente. E si scandalizza, ovviamente, per il costo del biglietto mica per la prestazione.

LA MANCANZA DI CONTROLLI. E i controlli? Secondo molti, «sono pari a zero, sia da parte delle forze dell’ordine che delle istituzioni». Del resto, chi vuol sapere di più della prostituzione minorile che dilaga nei cinema hard di Napoli non ha che da sbizzarrirsi connettendosi ai numerosi siti internet in cui prede e cacciatori si scambiano liberamente appuntamenti, apprezzamenti, numeri di telefono, informazioni sui prezzi, sugli orari, sul tipo di prestazioni più praticabili e in voga in strada o nel buio delle salette riservate.
C’è chi, polemico, denuncia tariffe e abitudini: «Far pagare un euro per entrare nei bagni del cinema è un furto», confida a Lettera43.it Gerardo all’uscita da una mattinata hard, «oltretutto, sono sporchi da far schifo».

SULL'ORLO DELLA DISPERAZIONE. È un mondo osceno e surreale, questo dei baby prostituti. Intriso di ricatti e paura, di menzogne e illusioni. Di immensa infelicità. E di tentati suicidi.
'A francese finì sotto il treno. La testa da un lato, il corpo maciullato sparso qua e là. Aveva 16 anni, era scuro di pelle ma con gli occhi celesti. Lo volevano tutti. Si dava da mesi, per pochi euro in via Taddeo da Sessa. Suicidio? «Ma no», borbottarono gli amici, ‘a francese teneva «‘a capa nelle nuvole». Non si è accorto del passaggio a livello. «Uffa, è stato un incidente». E amen.
Omertà, verità di comodo, cinismo ad alzo zero. «Riuscire a parlare con un giovane prostituto e fargli raccontare la sua storia non significa conoscere spicchi di verità», spiega un operatore. «Anzi, spesso dal colloquio si esce più disorientati di prima».

MAGNACCIA AFFITTUARI. Ibran è arrivato tre anni fa dalla Moldavia, con altri coetanei. Ora ha 18 anni. E a mezzanotte, in una breve pausa “di lavoro”, confessa: «Gli amici che già erano qui ci hanno affidato a un rumeno: per ora, ci prostituiamo per lui e riceviamo solo da mangiare e dormire. Ma presto, mi hanno assicurato, saremo liberi di tenere per noi i guadagni. E potremo aiutare le famiglie rimaste a casa».

 

Il collegamento tra lavoro nero nei cantieri e prostituzione

 

Antonello Ardituro, magistrato della direzione antimafia, ritiene che esista uno stretto collegamento fra lavoro nero nei cantieri edili protetto dai clan di camorra e prostituzione minorile maschile. Precarietà e sfruttamento: per un minore, è un po’ come arrendersi accoccolandosi fra le braccia di sconosciuti.

RAGAZZI IN SVENDITA. La storia di Claudio, raccontata in Ragazzi in saldo, un’inchiesta di RaiTre, sembra confermarlo: una madre sola e senza introiti, un lavoro precario in un cantiere edile che chiude i battenti, il licenziamento, la scelta di prostituirsi per sbarcare il lunario, la speranza di poter vivere - un giorno, forse - «in un modo migliore».
Verità, invenzioni, notizie e bufale, ricordi opachi o volutamente stravolti.
È l’una di notte, Julius è al suo quinto cliente. Sente dolore alle spalle, il naso gli sanguina («È per colpa del freddo», sussurra), sulle guance la memoria di carezze cattive.

GLI APPARTAMENTI-BORDELLI. C’è chi giura che in zona - nei condomini anonimi di piazza Ferrovia e fra i grattacieli del Centro direzionale - esistano appartamenti -stamberghe in cui i minorenni destinati alla prostituzione vengono ospitati a gruppi di cinque o sei e - si fa per dire - accuditi da mamme-guardiane prezzolate dai padroni: un pasto arrangiato, un letto sudicio, un tetto per ripararsi. Se ti ammali, conviene curarti. Se non guarisci, vai via. Verità? Esagerazioni? Di certo c’è che di controlli a tappeto per cercare i covi non si ha mai notizia. E che a Roma, in via del Vantaggio, una casa-famiglia di tale risma è stata di recente scoperta dai carabinieri.
Ospitava una decina di ragazzi, a gestirla era un malavitoso detto «la sdentata». Nella banda, c’era perfino un complice addetto al servizio navetta: prelevava i giovani ospiti a domicilio e li accompagnava, come un taxi, fino a casa del cliente di turno.

 

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Putin e Letta si incontrano a Trieste

per il vertice italo-russo:

firmati 28 fra accordi e trattati

 

    notiziegeopolitiche.net di Enrico Oliari -  27 novembre 2013

 

 Si è tenuto a Trieste l’incontro del vertice italo-russo al quale hanno preso parte il premier italiano Enrico Letta e il presidente russo Vladimir Putin, durante il quale sono stati sottoscritti dai ministri e dai dirigenti d’azienda interessati ben 28 fra accordi commerciali e trattati di cooperazione di carattere sociale ed economico.
La sintesi degli incontri è stata espressa da Letta e da Putin nei rispettivi interventi: il primo si è detto molto soddisfatto per il lavoro svolto nell’incontro presso la città giuliana, ma ha voluto puntualizzare che se molto si è fatto, ancora molto resta da fare.
Letta ha spiegato che il 2013 risulterà essere un anno di crescita della bilancia commerciale di quasi il 25 per cento, cosa che impegna ulteriormente i partner a stringere i legami bilaterali. “Si tratta di accordi molto concreti – ha indicato il premier italiano – come il miliardo investito per accrescere le joint ventures, l’impegno per lo sviluppo la crescita; importanti sono anche gli accordi doganali, che con le sottoscrizioni di oggi vengono sburocratizzati, come pure i propositi comuni nel campo della ricerca”. “In particolare nel settore energetico – ha continuato – abbiamo scambiato parole importanti per continuare questo lavoro. Infine abbiamo concordato di puntare molto in vista dell’Anno di incrocio turistico, sperando che l’Unione europea faccia la sua parte e renda più facile per i cittadini la possibilità di muoversi fra i due paesi”.
In materia di politica internazionale Letta ha fatto sapere di aver convenuto con il presidente russo sulla necessità di un impegno comune per il dramma umanitario che affligge la popolazione siriana e i rifugiati. “Abbiamo discusso anche di Libia – ha aggiunto – ed abbiamo messo in comune le nostre preoccupazioni per la situazione di instabilità che investe l’area a sud e a est del Mediterraneo”. “Ho anche espresso compiacimento – ha concluso il premier italiano – per l’accordo raggiunto sul nucleare iraniano, il cui effetto porterà stabilità nell’area. Infine abbiamo parlato di Afghanistan, per il quale abbiamo convenuto sulla necessità che vi sia un rientro dei nostri soldati graduale, che non lasci situazioni traumatiche”.
Vladimir Putin ha iniziato il suo intervento parlando dell’incontro di ieri con il Pontefice: “Sono stati siglati accordi con il Vaticano in materia di cultura, di scienza e di salute. Ma abbiamo anche parlato dell’importanza di difendere i valori cristiani e di incentivare il dialogo interconfessionale”. In materia di Siria e di Medio Oriente – ha continuato il presidente russo – abbiamo discusso della situazione difficile in cui si trovano i cristiani”.
Tornando al vertice italo-russo, Putin ha puntualizzato che “l’Italia è il quarto partner commerciale della Russia” e che “l’aumento degli scambi commerciali fra i due paesi, di cui ha parlato Letta, saranno per l’anno prossimo di 50 miliardi di dollari”. “A Trieste – ha poi concluso – si è discusso, fra le varie cose, di idrocarburi, di alta tecnologia come nel caso del superjet 100, di pneumatici per auto, come nel caso della Fiat, o per i macchinari agricoli, poi ancora di cantieristica navale, di spazio, di scienza, di ricerca, di termonucleare, di agricoltura e di turismo, cose per cui si è messo in campo il fondo di un miliardo di euro”.
La conferenza stampa di chiusura ha visto la cerimonia di firma delle intese dei ministri Beatrice Lorenzin e Veronika Skortsova per gli accordi nel campo sociale e della Salute, Enrico Giovannini e Maxim Topilin per lo sviluppo del Lavoro, Massimo Bray e Vladimir Medinsky per la tutela ed il recupero dei beni culturali e artistici e per favorire l’interscambio turistico fra l’Italia e la Russia nell’anno 2013 – 2014; un accordo per il controllo delle dogane è stato siglato dal Comandante generale della Guardia di Finanza Saverio Capolupo e capo del Fsb (ex Kgb) Alexander Bortnikov; il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e il direttore dell’Ermitage hanno sottoscritto un’intesa per promuovere l’interscambio culturale fra le città di Venezia e di San Pietroburgo, mentre l’amministratore delegato di Pirelli Marco Tronchetti Provera ha firmato un accordo di cooperazione relativo al campo dei pneumatici con il direttore generale della russa Rostec state corporation, Sergei Chemezov; l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni ha sottoscritto accordi con Igor Sechin , del colosso energetico russo Rosneft, e con Viktor Vekselberg, del Centro innovazione Skolkolov. Altri accordi sono stati firmati al di fuori della cerimonia di conclusione della giornata.
Alla domanda di un giornalista sul tema dell’Ucraina, paese che, dopo aver a lungo tergiversato, ha scelto di aderire all’Unione doganale con la Russia, Putin ha risposto che “è l’Ucraina stessa a dover prendere le proprie decisioni”, tuttavia “Un paese che ha aderito all’Unione doganale, che prevede lo scambio di merci senza dazi, può recedere dagli accordi quando vuole. Un articolo dell’accordo prevede però che se uno dei paesi aderenti intavola rapporti con paesi terzi, può esportare le merci nei paesi dell’Unione doganale con un ribasso sui dazi attualmente dell’85 per cento, ma che arriverà al 95. Potrebbero quindi transitare dall’Ucraina merci verso l’Unione doganale a prezzi ridotti, cosa che metterebbe in crisi la nostra economia. Per coinvolgere l’Unione europea in questo progetto serve gradualità, ovvero tempo e denaro”. E’ necessario quindi costruire un rapporto che coinvolga l’Europa, ma con gradualità, tempo e denaro”. “Oggi – ha spiegato Putin, in Europa la disoccupazione ha livelli elevati ed addirittura quella giovanile arriva in alcune nazioni anche al 45 per cento, mentre da noi ha livelli molto bassi, intorno a poco più del 2 per cento: per noi è necessario difendere la nostra occupazione”.
A chi ha fatto notare il cappio al collo di Kiev rappresentato dalle forniture di gas, Putin ha spiegato che il debito da saldare, con termine già scaduto, è di dieci miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti i crediti delle quattro principali banche russe, che porta a 30 miliardi di dlr il dovuto dall’Ucraina a Mosca.

 

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Un bilancio del populismo

 

articolo21.org  di Nicola Tranfaglia  - 27 novembre 2013

 

Siamo, dopo diciannove anni, all’opportunità di un bilancio storico del berlusconismo inteso come variante italica del populismo occidentale che ha occupato negli ultimi anni l’orizzonte internazionale e che si è affermato, con particolare forza, in paesi di democrazia meno salda e matura, come è stato purtroppo il caso della nostra penisola.
Al di là di ogni polemica contingente occorre dire con chiarezza che il populismo legato all’uomo di Arcore è arrivato in pochi mesi al potere nella primavera del 1994 grazie alla profonda crisi politica in cui è precipitata l’Italia negli anni 92-93 per l’esplosione legata ai gravi scandali scoppiati nei partiti politici e negli apparati dello Stato grazie a cinquant’anni di lotta politica senza alternative di governo nella guerra fredda Usa-Urss.
E’ stata l’idea, come era già accaduto più volte nella storia d’Italia (basta fare gli esempi, pur diversi tra loro, di Crispi a fine Ottocento e di Mussolini, dagli anni venti alla seconda guerra mondiale), l’idea – o meglio l’illusione – di un uomo forte al comando di una barca difficile da guidare appesantita da molta zavorra (forte corruzione, mafie, inefficienza dello Stato, indulgenza con gli amici e durezza con i nemici, come si diceva una volta) e quindi in grado di superare ogni ostacolo e creare una società moderna e tale da stare bene in Europa accanto a paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti per citare i paesi più vicini e più avanzati tra quelli con i quali abbiamo quasi sempre avuto rapporti intensi.
Un’illusione nettamente smentita dalla storia di fine Ottocento come da quella del fascismo ma riproposta da Silvio Berlusconi con l’abilità del grande venditore quale è stato ma anche di un uomo, noto per le bugie che ne hanno contraddistinto l’ascesa e, oggi, l’inevitabile tramonto con la decadenza da senatore della repubblica.
Facciamo un elenco, sia pure provvisorio, di quello che il Cavaliere ha trovato quando è sceso in campo, per usare il suo linguaggio immaginifico, e che ora lascia ai suoi eredi e ai suoi avversari.
I partiti storici tra il ’90 e il 93 si sono sciolti, o hanno continuato la loro vita con nomi e leader diversi, ma al loro posto si sono affermati durante il ventennio o partiti personali destinati a una vita non lunga come è avvenuto per l’IDV di Antonio Di Pietro o di piccole dimensioni come l’UDC di Pieferdinando Casini (appena ora staccatosi dalla Scelta Civica di Mario Monti) o ancora come Sel di Vendola o partiti nati dalla fusione di due formazioni precedenti come il Partito democratico dilaniato da forti contrasti interni. In compenso Berlusconi è riuscito a unificare le destre italiane incluse quella di chiara derivazione fascista ma negli anni numerosi di governo ha subito vicende tali da perdere peso ed oggi capeggia una nuova Forza Italia che vuole tornare al potere appena possibile ma che ha subito a sua volta una scissione che, a livello parlamentare, l’ha quasi dimezzata.
Effetti, bisogna dirlo, di una crisi politica che il berlusconismo non ha risolto e che da molti anni si lega a una crisi insieme morale culturale, sociale ed economica che dura ormai da sei anni e non accenna a finire.
Il fatto è che Berlusconi non ha risolto i problemi istituzionali né quelli attinenti alla struttura economica e sociale della penisola ma ha semmai peggiorato fortemente i costumi della classe politica e delle classi dirigenti. Di qui i ripetuti scandali che hanno contrassegnato i suoi governi e le difficoltà crescenti anche a livello parlamentare.
L’uomo del miracolo è oggi il senatore che è stato dichiarato interdetto dai pubblici uffici e non più senatore.
L’aspetto amaro dell’intera vicenda riguarda il destino degli italiani e in particolare delle nuove generazioni e della classe media, distrutta dalla crisi che non dispone di conti offshore.
Tutti avranno un destino futuro contrassegnato dalla povertà (come ha ricordato ieri sera il Codacons) e dall’assenza di pensioni in grado di assicurare loro una vecchiaia serena.
Il responsabile di un così amaro epilogo è senza dubbio del Cavaliere e dei suoi seguaci.

 

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 Come è nato il Social Street

 

ilfattoquotidiano.it di Federico Bastiani - 21 novembre 2013

 

Qualcuno potrà pensare che abbia scoperto l’acqua calda. A me piace pensare di aver scoperto un tè. Quando la scorsa estate passeggiavo sotto i portici di Via Fondazza a Bologna insieme a mia moglie ed a mio figlio Matteo di venti mesi, pensavo se nella mia strada abitassero altri bambini con cui farlo giocare. Vivo in una storica strada di Bologna, residenza del noto pittore Giorgio Morandi, da oltre tre anni eppure non conoscevo nessuno.

 

Sono nato e cresciuto in un piccolo paese della provincia di Lucca e nella mia strada conoscevo proprio tutti, se mancava il sale non era un problema scendere le scale e suonare al vicino. Poi, circa dieci anni fa, mi sono trasferito in città, a Bologna, e mi sono reso conto che il meccanismo di relazione umana era differente, c’era molto più diffidenza, sospetto, a volte indifferenza. Per conoscere qualcuno potevi usare il giro dei colleghi di lavoro, gli amici della palestra e, pensavo, perché non i vicini di casa?

 

Camminando per Via Fondazza ogni tanto sentivo le urla di qualche bambino quindi immaginavo che dietro quelle pareti, dietro quei portoni, si nascondessero tante storie. Il problema era come entrare in contatto con loro. Così mi sono consultato con mia moglie ed abbiamo optato per una scelta a costo zero, aprire un gruppo chiuso Facebook chiamandolo “Residenti in Via Fondazza – Bologna”. Il problema a quel punto stava nel farlo conoscere e così con la mia stampante mi sono messo a stampare cinquanta fogli A4 dove spiegavo la mia volontà di socializzare, condividere idee, progetti, necessità, come una sorta di bacheca stradale.

 

Ho iniziato così ad appendere queste locandine in luoghi visibili, vicino ai cassonetti dei rifiuti, sotto i portoni, nelle buche delle lettere, agli angoli della strada e qualche negoziante mi ha aiutato ad esporla nella sua vetrina. Onestamente pensavo che al mio gruppo non avrebbero aderito più di trenta persone, ma ritenevo questo già un successo. Volevo ricreare quel senso di comunità che avevo nel mio paese ma che in città non ero riuscito ad ottenere, anche perché, lavorando molto, il tempo per socializzare in strada era limitato veramente a poche ore.

 

Facebook poteva aiutarmi a risolvere il problema ed avevo ragione. La prima settimana di settembre ho creato il gruppo Facebook ed in due settimane gli iscritti erano già 93. In Via Fondazza in effetti c’erano altri bambini, mamme che condividevano i miei pensieri e le mie necessità e così abbiamo iniziato l’esperimento. Famiglie appena trasferite che chiedevano un pediatra nelle vicinanze. Qualcuno voleva sapere se c’erano bambini per organizzare playgroup magari in lingua. Un’altra famiglia appena trasferita in attesa del primo figlio chiedeva se qualcuno avesse un seggiolino auto da prestare. E per ogni richiesta c’era una risposta. Grazie a questi spunti di socialità, sono nate poi amicizie: per passare dal virtuale di Facebook al reale della strada è bastato poco, ovvero scendere le scale.

 

Il gruppo è cresciuto esponenzialmente, oggi siamo oltre cinquecento persone e scopro ogni giorno le potenzialità che la socialità può offrire in supporto alla comunità.  Ho ricevuto moltissime richieste per replicare l’esperienza “Social street” da tutta Italia ma anche dall’estero, dalla Spagna e dal Cile. Il 17 novembre in conferenza stampa, insieme a Loretta Napoleoni ho lanciato ufficialmente il “Social street” ed il portale www.socialstreet.it che racchiude le varie esperienze che stanno nascendo in Italia. Cosa vuol dire Social street? Molto semplice, socializzare con i propri vicini di casa per instaurare un rapporto di fiducia. E’ vero, si può pensare che abbia scoperto l’acqua calda ma credetemi, in questo momento, nella nostra società siamo in un deserto sociale dove anche l’acqua si trova con difficoltà. 

 

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Classe ghetto a Bologna: 22 stranieri insieme.

I genitori degli italiani dicono no

 

 

Il preside dell'istituto parla di soluzione ponte e temporanea in attesa che gli studenti imparino l'italiano. Poi i ragazzi saranno smistati in altre classi. Il Consiglio d'istituto: "Una scelta di questo tipo invece di andare verso una direzione inclusiva va verso una direzione segregante"

 

 

ilfattoquotidiano.it - di Davide Turrini - 4 novembre 2013

 

 

Una classe delle scuole medie con ventidue alunni tutti di origine straniera ed è subito polemica. Succede alle scuole Besta di Bologna, parte dell’Istituto Comprensivo 10 del quartiere San Donato, dove nell’agosto scorso è stata composta la 1°A “sperimentale” per ragazzi tra gli 11 e i 15 anni che sanno poco o per nulla l’italiano.

 

“Le famiglie di una quindicina di ragazzi, arrivati in Italia attraverso ricongiungimenti familiari e quindi con poca o nessuna padronanza della lingua italiana, si sono presentate in segreteria chiedendo l’iscrizione alle medie”, ha spiegato a Radio Città del Capo, il presidente dell’istituto Emilio Porcaro, “alcuni di loro, tra l’altro, erano già stati respinti in altre scuole dove non c’era posto. Inoltre da noi le classi erano già formate. Da qui l’idea di una soluzione ‘ponte’ ”. Infatti la classe di ragazzi stranieri lavorerà soprattutto sull’apprendimento della lingua italiana e appena gli alunni avranno raggiunto un buon livello di conoscenza saranno smistati nelle altre classi della scuola media, come è già avvenuto per due studentesse.

 

L’Ufficio Scolastico Provinciale era già stato avvisato in agosto e aveva successivamente dato formalmente il via libera all’esperimento. Il progetto aveva comunque preso le mosse nonostante la mancata certezza dei finanziamenti ministeriali per l’integrazione che permettono ai singoli istituti di avere personale d’appoggio per l’insegnamento d’italiano. Certezza arrivata in ritardo e ancora senza una data precisa su quando i fondi arriveranno.

 

Una scelta, inoltre, che ha ottenuto la conferma del Collegio dei Docenti della scuola Besta (solo 10 i contrati su 100 insegnanti) ma non l’ok del Consiglio d’Istituto. E’ solo del 29 ottobre l’incontro tra Porcaro e il Consiglio con inevitabile strascico polemico. “Educheremo i nostri figli in modo da far capire loro che la separazione insegna meglio rispetto alla coesione e all’integrazione?‘”, recita il testo critico che il Consiglio d’istituto della scuola ha inviato in una lettera al Coordinamento dei Consigli di istituto, “Siamo perplessi e preoccupati perché questa soluzione sembra l’anticamera della riproposizione delle classi differenziali e contrasta con i principi di inclusione e confronto ai quali la scuola si deve ispirare”.

 

Insomma sono i genitori dei bambini italiani che frequentano la scuola ad opporsi all’idea della classe “ghetto”, contrariamente a un caso simile scoppiato in Italia a fine settembre in una scuola di Costa Volpino (Bergamo) dove i genitori della “minoranza” italiana (7 alunni su 21) avevano ritirato i propri figli da scuola per lasciare gli stranieri unici alunni della classe. “Una scelta di questo tipo invece di andare verso una direzione inclusiva va verso una direzione segregante”, ha spiegato sempre alla radio bolognese, la professoressa universitaria di didattica e pedagogia speciale Federica Zanetti, “L’approccio inclusivo favorisce le differenze e lo scambio di tutti attraverso la lingua italiana ed ha una ricaduta diretta sugli apprendimenti. Cosa facciamo, classi separate per ogni tipologia di differenza che abbiamo?”.

 

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Regalo di Natale:

«La task force della giustizia per i migranti»

 

Dodicimila indagati.

E processi che spesso finiscono in nulla.

Il pm di Agrigento alle prese

con gli sbarchi di Lampedusa

 

 

lettera43.it. di Giuseppe Pipitone  -  16 ottobre 2013

 

Dodicimila posizioni pendenti. Generalità spesso incerte. E un procedimento che si conclude dopo almeno 18 mesi di iter giudiziario con un'ammenda di 5 mila euro. Una sanzione che non verrà mai pagata perché gli imputati sono nullatenenti e quasi mai si presentano al processo.
Sono i numeri della procura della Repubblica di Agrigento, la più impegnata d'Italia sul fronte dell'immigrazione. L'ufficio inquirente della città dei templi, infatti, è competente per Lampedusa e i territori vicini. Ed è qui che viene perseguito il reato di immigrazione clandestina, introdotto in Italia nell'agosto del 2009.


PROCESSI A VUOTO. In pratica i pm hanno l'obbligo di iscrivere nel registro degli indagati tutti i migranti arrivati senza un regolare visto. L'iscrizione dà avvio a una vera e propria inchiesta che si sviluppa in tutte le sue fasi, spesso senza che ci sia nemmeno la certezza sulle generalità dell'imputato. E anche quando viene assodata la sua identità, è difficile che questo si presenti al processo. O che, una volta condannato alla pena massima, sia in grado pagare la sanzione.
Un vero e proprio buco nero giudiziario che va inevitabilmente in cortocircuito quando i numeri dei procedimenti si moltiplicano all'infinito.


PROCURA DI CONFINE. Soprattutto nel caso di Agrigento che, con otto sostituti attivi nel suo organico, è un ufficio di confine visto che si tratta di una zona ad alta densità mafiosa.
Per riuscire a smaltire il lavoro, il procuratore capo Renato Di Natale è corso ai ripari. «Ho destinato ai procedimenti di immigrazione clandestina i 13 vice procuratori onorari di cui posso disporre», spiega a Lettera43.it.

  

DOMANDA. Come riesce il suo ufficio a lavorare su 12 mila fascicoli aperti contro migranti?
RISPOSTA. Intanto non possiamo parlare di fascicoli, ma di posizioni. Al contrario di altre procure, a ogni sbarco apriamo un solo fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati tutti i migranti: in questo modo riusciamo a snellire l'iter giudiziario.
D. La mole di lavoro resta comunque enorme.
R. Per quello ho destinato a questi procedimenti i 13 vice procuratori onorari di cui dispongo.
D. Ci riescono?
R. Sì. E infatti pochissimi casi vanno in prescrizione.
D. E a quale costo?
R. I procuratori onorari vengono pagati a gettoni. Circa 60 euro a udienza. C'è però tutto l'iter...
D. Cioè?
R. Appena sbarcati i migranti vengono identificati dall'autorità giudiziaria. Poi li iscriviamo nel registro degli indagati. E a questo punto ci sono due possibilità.
D. Quali?
R. Possono fare istanza di asilo, e a quel punto il procedimento si blocca. In caso contrario chiediamo l'archiviazione al Gip, che spesso la rifiuta.
D. Perché?
R. Perché spesso non reputa che il reato d'immigrazione clandestina sia un danno irrisorio per la collettività. A quel punto parte il processo.
D. Quanti imputati si presentano in aula?
R. Quasi nessuno, perché l'iter dura un anno, un anno e mezzo. Nel frattempo chissà dove sono finiti. Sempre che le generalità siano reali e non inventate.
D. Il processo però va avanti lo stesso?
R. Certo. Si nominano gli avvocati d'ufficio, si citano i testi, che sarebbero i poliziotti e i carabinieri che hanno identificato il migrante al momento dello sbarco. Ma anche questi nel frattempo potrebbero essere stati trasferiti.
D. E quindi?
R. Quindi dovranno chiedere un permesso per venire a testimoniare assentandosi dal lavoro.
D. Il processo come si conclude?
R. Con un'ammenda di 5 mila euro che non viene mai pagata perché ovviamente si tratta di imputati nullatenenti.
D. Nel frattempo però l'iter processuale costa alle casse della collettività...
R. Ovviamente sì.
D. E quanto?
R. Di preciso non lo so. Tra i 61 cancellieri, i procuratori onorari, gli avvocati d'ufficio, i giudici e i testimoni sarebbe interessante capirlo.

 

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Via il reato di clandestinità: l'ok del Senato

 

La commissione giustizia di Palazzo Madama

ha approvato un emendamento dei senatori M5s.

C'è l'ok del governo: è il primo passo

per la modifica della legge Bossi-Fini.

 

 

Globalist Sindycation - 10 ottobre 2013

 

La commissione Giustizia del Senato ha approvato un emendamento dei senatori del Movimento Cinque Stelle, Andrea Buccarella e Maurizio Cioffi, che elimina il reato di immigrazione clandestina. La proposta dei grillini aveva il via libera del governo. Lo rende noto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. L'emendamento riguarda la delega sulla messa alla prova.

"La sanzione penale appare sproporzionata e ingiustificata.- ha detto Ferri- E la sanzione penale pecuniaria è di fatto ineseguibile considerato che i migranti sono privi di qualsiasi bene". Oltretutto "il numero delle persone che potrebbero essere potenzialmente incriminate sarebbe tale da intasare completamente la macchina della giustizia penale, soprattutto nei luoghi di sbarco.

"Lo Stato deve regolare i flussi migratori in modo compatibile con le concrete possibilità di accogliere i migranti - ha proseguito il sottosegretario - e questo non solo per ragioni di ordine pubblico ma anche per motivi umanitari. A persone che cercano di sfuggire da situazioni di estrema indigenza e spesso disumane dobbiamo garantire un'ospitalità dignitosa. Occorre invece continuare a punire con severità chi sfrutta e favorisce questi fenomeni migratori incontrollati che possono causare tragedie come quella di Lampedusa".

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Milano, blitz contro latinos: 25 arresti

 

Accuse di associazione per delinquere, rapina e lesioni

 

lettera43.it - 08 ottobre 2013

 

È stata effettuata la mattina dell'8 ottobre un'operazione della squadra mobile di Milano nei confronti di una banda di latinos appartenenti alla gang Ms13.
La polizia ha eseguito 25 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti di età compresa tra i 17 ed i 36 anni, per lo più salvadoregni, accusati di associazione per delinquere, rapina, lesioni, detenzione e porto d'armi da taglio.


DUE ANNI DI INDAGINI. Gli episodi criminali per cui si procede vanno da ottobre 2010 a settembre 2012. Due anni di indagini durante i quali sono stati commessi pestaggi e aggressioni, tutti nell'ambito dello stretto controllo psicologico esercitato dal gruppo, dalla banda, che reclutava nuovi affiliati tra i giovani più intemperanti e 'difficili'.


DECALOGO E INNO. I gip di Milano che hanno emesso le ordinanze, Andrea Antonio Salemme e Rosanna Calzolari (quest'ultima del Tribunale per i minorenni) hanno fatto eseguire 25 provvedimenti restrittivi (sette dei quali a minori) alcuni dei quali domiciliari.


La squadra mobile ha anche sequestrato un opuscolo contenente il decalogo del gruppo, che aveva anche un suo inno postato sul web.

 

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Rifugiati accolti, Italia al sesto posto in Europa

 

Oltre 45 milioni di persone in fuga, donne per il 49 per cento e minori il 46 per cento. Le guerre restano la principale causa. In Italia al 2012 risultano 64.779 rifugiati. In Germania sono quasi 600 mila

 

Redattore Sociale - 08 Ottobre 2013

 

 Oltre 45 milioni di persone nel 2012 sono state costrette a mettersi in fuga dai loro paesi per guerre e persecuzioni. La migrazione forzata ha mosso 42,5 milioni di persone nel 2011 e 43,7 milioni nel 2010. Dal dato complessivo riferito al 2012, risulta che l’80 per cento delle persone in fuga si trova in “paesi in via di sviluppo”, il 49 per cento sono donne e il 46 per cento sono minori di 18 anni. Quasi 29 milioni gli sfollati interni (il numero più alto da oltre vent'anni): erano 26,4 milioni nel 2011 e 27,5 milioni nel 2010. Risultano 895 mila i richiedenti asilo a fine 2011 (erano 840 mila nel 2010). 

 

I titolari di protezione internazionale all’estero vengono principalmente dall’Afghanistan (2,7 milioni di persone) e dall’Iraq (1,4 milioni ). Seguono la Somalia (1,1 milioni), il Sudan (500 mila), Repubblica Democratica del Congo (491 mila). Nella graduatoria dei paesi che accolgono il più alto numero di rifugiati nel 2012 si conferma il Pakistan con 1,6 milioni, seguito da Iran e Germania. L'Afghanistan si è confermato in testa alla classifica dei paesi d'origine del maggior numero di rifugiati, un triste primato che detiene da ben 32 anni: in media nel mondo un rifugiato su 4 è afghano e il 95 per cento di loro si trova in Pakistan o in Iran. La Somalia è stata nel 2012 il secondo paese per numero di persone fuggite, sebbene il ritmo del flusso sia rallentato. I rifugiati iracheni erano il terzo gruppo nazionale (oltre 746 mila), seguiti dai siriani (471 mila). Il totale dei rifugiati presenti in Europa è di circa 1,6 milioni di persone.

 

In Italia al 2012 risultano 64.779 rifugiati (erano 58 mila nel 2011 e 56 mila nel 2010). Le domande d’asilo presentante sono state oltre 17 mila circa la metà del 2011 (37 mila). Un calo significativo, determinato prevalentemente dalla fine della fase più drammatica delle violenze in Nord Africa. Il numero di rifugiati, colloca l’Italia al 6° posto tra i paesi europei, dopo Germania (589.737), Francia (217.865), Regno Unito (149.765), Svezia (92.872), e Olanda (74.598). Rispetto al 2012 nel primo trimestre 2013 sono aumentate le persone che chiedono protezione nel nostro paese: quasi 5 mila le richieste d’asilo, il 31 per cento in più rispetto allo scorso anno. A dirlo sono i dati Eurostat riguardanti le richieste d’asilo nei 27 paesi dell’Ue (esclusa la Croazia). L’89 per cento dei richiedenti proviene dall’Eritrea, l’11 per cento dalla Nigeria, il 10 per cento dal Pakistan e dall’Afganistan e il 9 per cento dalla Somalia.

 

I richiedenti asilo sono mediamente molto giovani: hanno una età compresa tra i 18 e i 34 anni (76,4 per cento). I minori sono il 9,4 per cento e sono soprattutto di sesso maschile. L'Italia si colloca, inoltre, al nono posto tra i paesi con il maggior numero di richieste d'asilo pendenti, intorno a 12-13 mila. Se si guardano i dati europei, nel primo trimestre del 2013 sono state 86 mila le persone che hanno cercato asilo in uno degli Stati dell’Ue. La maggior parte provengono dalla Russia (8.435), dalla Siria (8.395) e dalla Afghanistan (5.880). Rispetto al 2012 si è registrato un  aumento del 20 per cento. Il 25,7 per cento dei richiedenti asilo in Europa è un minore. Ai primi posti della classifica europea per richieste d’asilo si collocano la Germania con 21 mila e la Francia con quasi 16 mila. (slup)

 

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Drame de Lampedusa :

"C'était comme une mer de têtes"

 

Le Monde.fr  Par Charlotte Bozonnet  - 07.ottobre.2013

 

(Lampedusa, envoyée spéciale). Les traits tirés, elles en parlent encore avec émotion. Sharani et Linda étaient sur le bateau qui, le premier, a dû porter secours, jeudi 3 octobre, aux migrants africains naufragés à 600 mètres de l'île italienne de Lampedusa. Les deux jeunes femmes, la trentaine, le teint hâlé, n'ont vraiment rien de sauveteurs en mer. La première travaille huit mois par an dans une boutique de la rue commerçante de Lampedusa ; la deuxième, originaire de Catane, en Sicile, était là pour des vacances. Mais comme beaucoup d'habitants de l'île, elles ont été rattrapées par l'histoire singulière de ce caillou d'à peine 20 km2, si proche de l'Afrique.

 

Cette soirée du 3 octobre, elles partent avec six autres amis sur le bateau à voiles de l'un d'entre eux, pour "se baigner, dîner et profiter du coucher de soleil" à Tabaccara, une petite baie à l'eau turquoise. "Dans la nuit, explique Sharani, on a commencé à entendre des bruits étranges, lointains. On a pensé à des oiseaux." Vers 6 heures du matin, alors que les bruits persistent, les occupants du bateau décident de lever l'ancre et d'aller voir ce qui se passe. Ils découvrent alors comme des points noirs sur l'eau. "On n'a pas saisi tout de suite qu'il s'agissait de personnes", avoue la jeune femme.

 

Lire notre reportage Lampedusa, "une île pleine de douleur", pleure le naufrage des migrants

 

Lorsqu'ils comprennent, les huit amis se mettent à hisser les naufragés un par un sur leur voilier. "Plus on en faisait monter et plus ils semblaient nombreux dans l'eau. C'était comme une mer de têtes", raconte Linda. Les jeunes préviennent par radio la capitainerie, lancent un appel aux autres bateaux de l'île. Une fois à bord, les rescapés, à bout de force, s'écroulent sur le sol, sans bruit. "Ils étaient trop épuisés pour parler", souligne Linda. Beaucoup sont nus, le corps enduit de gasoil.

 

Les huit sauveteurs improvisés sont rapidement rejoints par une barque de pêcheurs puis par les garde-côtes. En près deux heures, ils sortent 47 migrants de l'eau. "46 hommes et une femme", précisent Sharani et Linda. A la demande des garde-côtes, le voilier reprend alors le chemin du port.

 

"NOUS ÉTIONS 53 SUR UN BATEAU DE 10 MÈTRES"

 

Lorsqu'on les interroge sur le déroulement exact des événements, les deux jeunes femmes ont du mal à être précises. A 6 h 30 environ, les premiers rescapés sont hissés sur le bateau. Combien de temps les secours ont-ils mis à venir ? Environ 45 minutes, estiment-elles, sans pouvoir attester de l'heure exacte de leur arrivée. Leur véritable frustration, celle qui restera longtemps dans l'esprit des deux jeunes femmes, est plutôt de ne pas avoir pu en sauver plus. "On voulait continuer, revenir", souligne Sharani. "Mais nous étions 53 sur un bateau de 10 mètres, il fallait rentrer", reconnait-elle.

 

Mis en cause pour la lenteur de leur intervention, les secours ont expliqué avoir été appelés à 7 heures et être arrivés sur place 20 minutes plus tard. Quant aux refus de laisser les embarcations privées repartir en mer, le porte-parole des garde-côtes, Filippo Marini, a rappelé que leur rôle était de coordonner les secours, "sinon ce serait le chaos".

 

Arrivés au port, les 47 rescapés sont pris en charge par des médecins et du personnel du centre d'accueil qui attendent sur le quai. Les deux jeunes femmes, elles, sont rentrées chez elles. "On a pris une douche", dit simplement Sharani, le regard triste. " L'Europe, le monde oublieront peut-être, mais nous ici, on n'oubliera pas."

 

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IL GIORNO DELL’ECATOMBE

 

Naufragio a Lampedusa, almeno 93 morti

 

Ansa  -  03 ottobre 2013

 

"Appena possibile il Governo riferirà in Parlamento sulla tragedia di Lampedusa". E' quanto si legge in un tweet di Palazzo Chigi.

Sarebbero 93 i cadaveri recuperati fino ad ora e trasferiti sulla banchina del porto di Lampedusa, dopo il naufragio avvenuto stamani davanti alle coste dell'isola. Tra di loro anche i corpi di quattro bambini e di numerose donne.

 

I migranti soccorsi e salvati sono circa 150 ma diverse fonti sottolineano che il bilancio, sia dei vivi che dei morti, è ancora provvisorio in quanto diverse persone sono ancora in acqua. Uno dei presunti scafisti è stato fermato dalla polizia. E' un giovane tunisino che era stato raccolto tra i superstiti. Sarebbe stato riconosciuto da un gruppo di migranti.

 

L'allarme del naufragio è stato dato dall'equipaggio di due pescherecci che transitavano nella zona. Il barcone - ha detto all'ANSA il commissario straordinario dell'Asp di Palermo, Antonio Candela, che sta coordinando le operazioni di assistenza ai feriti - trasportava 450-500 migranti. Secondo i carabinieri i migranti per farsi notare dagli isolani hanno dato fuoco a una coperta e questa potrebbe essere stata la causa dell'incendio che si e' sviluppato a bordo.

 

"Preghiamo Dio per le vittime del tragico naufragio a largo di Lampedusa" scrive Papa Francesco su Twitter. "Viene la parola vergogna: è una vergogna!" esclama "a braccio" papa Francesco.

 

"Le istituzioni Ue esprimono la loro tristezza per quanto avvenuto a Lampedusa. E' una vera tragedia che ha coinvolto anche bambini. L'Ue deve vedere cosa fare per aiutare", cosi' il commissario Ue Johannes Hahn in apertura del midday briefing.

 

"Fatto punto su immane tragedia di Lampedusa con Alfano e vertici ministero che si recheranno subito sul luogo del disastro per i primi interventi" scrive su Twitter il premier Enrico Letta.

 

"Basta! Ma che cosa aspettiamo? Cosa aspettiamo oltre tutto questo? E' un orrore continuo" dice il sindaco Nicolini. "Le dimensioni non le conosciamo ancora - dice Nicolini -. Se è vero che erano 500 sul barcone e in salvo già sul molo ce ne sono soltanto 130, è davvero un orrore". 

 

Siamo tutti vittime "consapevoli o no, di quella 'globalizzazione dell'indifferenza' che proprio a Lampedusa Papa Francesco ha denunciato in modo sferzante" afferma la presidente della Camera, Laura Boldrini, sottolineando la perdurante mancanza di soluzioni a questi drammi e annunciando che si recherà nell'isola.

 

Il governo riferirà al più presto in Parlamento sul naufragio a Lampedusa appena avrà acquisito dati e informazioni. Lo ha detto il sottosegretario agli Interni, Filippo Bubbico, nell'aula del Senato informando i senatori che il ministro degli Interni Alfano sta andando a Lampedusa e che il premier Letta segue con attenzione la vicenda.

 

"La tragedia di Lampedusa è troppo grande per poterci dedicare oggi alle vicende interne al nostro Gruppo parlamentare e al nostro Partito" afferma in una nota Silvio Berlusconi, confermando il rinvio della assemblea Pdl. Berlusconi sottolinea che il naufragio "chiama in causa l'ignavia di un'Europa assente e perfino indifferente". 

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Immigrati, Consiglio d’Europa

boccia la politica ma invoca “solidarietà”

 

Il naufragio a Lampedusa arriva a solo un giorno dalla condanna da parte di Strasburgo sulle politiche immigratorie dell’Italia. Ieri, ancora una volta, l'organismo europeo aveva giudicato "sbagliate o controproducenti" le misure prese in questi ultimi anni per gestire i flussi migratori. Oggi una nota in cui si chiede maggiore partecipazione agli paesi europei

 

 

Ilfattoquotidiano.it03 ottobre 2013

 

 “I Paesi del Consiglio d’Europa e dell’Ue devono mostrare maggiore solidarietà all’Italia e gli altri” in prima linea sul fronte degli arrivi degli immigrati irregolari. Lo sottolinea il Consiglio d’Europa in una nota sull’approvazione del rapporto che boccia la politica migratoria dell’Italia. Il naufragio a Lampedusa arriva a solo un giorno dalla condanna del Consiglio d’Europa sulle politiche immigratorie dell’Italia. Ieri Strasburgo, ancora una volta, aveva giudicato “sbagliate o controproducenti” le misure prese in questi ultimi anni per gestire i flussi migratori.

 

In un rapporto approvato all’unanimità dalla commissione migrazioni dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa si sottolinea che quanto fatto sinora non ha messo “l’Italia in grado di gestire un flusso che è e resterà continuo”. Il rapporto critica in particolare i ritorni forzati di immigrati in paesi, come la Libia, dove rischiano la tortura, se non la vita, la gestione dei Cpt, la decisione di dichiarare continuamente lo stato d’emergenza per “adottare misure straordinarie al di la dei limiti fissati dalle leggi nazionali e internazionali”.

 

Nel testo si afferma poi che “a causa di sistemi di intercettazione e di dissuasione inadeguati“, l’Italia si è di fatto trasformata in una calamita per l’immigrazione, in particolare per gli immigrati che cercano una vita migliore all’interno dell’area Schengen. E come se non bastasse nel documento si afferma che alcune delle scelte fatte dalle autorità italiane “rischiano di minare la fiducia nell’ordine legale europeo e nella Convenzione di Dublino”.

 

Infine, nel testo viene evidenziato che la strada sinora seguita dall’Italia “non ha aiutato a convincere gli altri paesi membri della Ue a condividere la responsabilità” per i flussi in arrivo sulle coste italiane. Nel testo, che l’assemblea dovrà discutere e votare in plenaria nei prossimi mesi, si chiede all’Italia di adottare una politica corrente che permetta al Paese di gestire in modo efficiente immigrati, richiedenti asilo e rifugiati. Secondo l’autore del rapporto, il britannico Christopher Chope, “l’Italia ha le risorse per farlo e solo facendolo potrà assicurarsi il sostegno e la solidarietà dei paesi europei”.

 

Il Consiglio d’Europa oggi chiede all’Italia di “chiarire con urgenza” le responsabilità che hanno le navi rispetto al salvataggio di immigrati irregolari, richiedenti asilo e rifugiati nelle acque del Mediterraneo. Certi incidenti in cui sono coinvolti i migranti salvati dai mercantili dimostrano che “c’è confusione e caos” sulle responsabilità che hanno le navi commerciali nel condurre queste operazioni.

 

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Naufragio Scicli, fermati 7 scafisti

 

Contestato anche morte per crimine,

rilasciati due bloccati ieri

 

Ansa - 01 ottobre 2013

 

Polizia,carabinieri e guardia di finanza hanno fermato 7 siriani, ritenuti i componenti dell'equipaggio del peschereccio con 160 migranti a bordo, tutti eritrei, 13 dei quali sono morti annegati a Scicli. Contestato anche il reato di morte a seguito dell'evento criminoso, ma non l'omicidio perché allo stato non ci sono prove che siano stati loro a costringere le vittime a gettarsi in mare. Rilasciati i due bloccati ieri: non sono stati riconosciuti dai compagni di viaggio.

 

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Siani: vita e morte

di un cronista in terra di camorra

 

Ansa - di Enzo La Penna - 23 settembre 2013

 

 

La notizia arrivo' in redazione verso le dieci di sera durante il ''giro di nera'' che precedeva la chiusura della prima edizione. Invertendo i ruoli fu il poliziotto di turno al centro operativo della questura a rivolgere la domanda al reporter: ''Conoscete Siani?''. Era la sera del 23 settembre 1985, il corpo senza vita di Giancarlo Siani giaceva nella sua auto nel viale di casa, in piazza Leonardo al Vomero, e la polizia ancora era alla ricerca di informazioni precise sulla figura della giovane vittima.

Fino a pochi minuti prima Giancarlo era seduto proprio alla scrivania di fronte, nello stanzone della cronaca del Mattino, dove lavorava da un paio di mesi dopo aver concluso la sua esperienza di corrispondente del quotidiano da Torre Annunziata, comune tra i piu' turbolenti dell'area vesuviana che appena un anno prima era stato teatro della piu' cruenta strage della storia della camorra (8 morti e 20 feriti).

Due killer lo avevano atteso per ore sotto casa uccidendolo con numerosi colpi di pistola. Un pentito raccontera' molti anni piu' tardi che, portata a termine la missione, gli assassini tornarono nel loro covo dove, insieme con i boss che avevano impartito l'ordine, stapparono lo spumante per festeggiare il successo dell'impresa, consistita nel colpire nascosti nell'ombra un giovane inerme.

E bisogna ammettere che dal punto di vista dei camorristi davvero rappresentava un successo l'eliminazione di quel giornalista di 26 anni che raccontava con passione e impegno civile gli affari e i regolamenti di conti tra le cosche, che faceva troppe domande in giro sul sistema di collusioni, sugli appetiti di boss e colletti bianchi che miravano agli appalti pubblici, e che pochi giorni prima di essere ucciso confidava di aver raccolto materiale esplosivo da pubblicare in un libro.

Giancarlo nel giornalismo ci era entrato attraverso la strada piu' complicata e impegnativa, consumando le suole per raccogliere notizie presso commissariati, caserme dei carabinieri, uffici giudiziari, sindacati, amministrazioni pubbliche, associazioni di volontariato.

Aveva cominciato a collaborare con il periodico ''Osservatorio sulla camorra'', poi gli si era offerta l'opportunita' della corrispondenza del Mattino da Torre Annunziata e lui, che abitava nel quartiere collinare del Vomero e quella citta' conosceva solo di nome, da quel momento si reco' ogni giorno nel comune vesuviano consapevole che le notizie te le devi cercare senza aspettare che si materializzino per incanto sulla scrivania. Quando i sicari dei clan Nuvoletta e Gionta misero fine ai suoi giorni, la carriera di Siani era a una svolta decisiva: dopo anni di gavetta stava lavorando nella sede centrale per sostituire colleghi in ferie, il che significava l'imminente assunzione in qualita' di redattore. La storia del delitto Siani si intreccia con una tormentata vicenda giudiziarie, tra inchieste sballate e piste sfociate nel nulla, che vanno dall'arresto di un pregiudicato di Castellammare assai somigliante a uno dei sicari, alla cattura di alcuni esponenti del clan di Forcella e di un rampollo della Napoli bene dalle amicizie pericolose, in un complesso scenario di camorra, ex detenuti e frequentatori eccellenti di una casa squillo su cui avrebbe indagato il giovane cronista. Con il fallimento delle inchieste cominciarono a circolare voci secondo le quali il cronista sarebbe stato eliminato per qualche oscura faccenda di carattere personale.

A dimostrazione che la mafia uccide sempre due volte. Per fortuna ad evitare che il caso venisse archiviato tra i misteri irrisolti, il pubblico ministero Armando D'Alterio decise di riaprire il fascicolo sulla base di alcuni esili indizi emersi dalle dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia, Salvatore Migliorino, cassiere del clan Gionta di Torre Annunziata. Gli inquirenti lasciarono intendere di avere molto di piu' tra le mani e il bluff funziono': i camorristi preoccupati entrarono in fibrillazione, si confidarono i loro timori e le intercettazioni li incastrarono.

Fu una reazione a catena: messi alle strette alcuni tra gli organizzatori e esecutori del delitto si pentirono. Le sentenze, confermate della Cassazione, hanno stabilito che l'omicidio fu compiuto dalle cosche dei Gionta, di Torre Annunziata, e dei Nuvoletta, di Marano. Condanne definitive per i mandanti, Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante, e i sicari Ciro Cappuccio e Armando Del Core. La condanna a morte di Siani fu decisa dopo un suo articolo, pubblicato il 10 giugno 1986, in cui rivelava che l'arresto del boss Valentino Gionta era stato possibile grazie a una soffiata dei suoi alleati, i Nuvoletta.

La notizia era vera, ma i Nuvoletta per dimostrarne agli ''amici'' l'infondatezza, dissero che quel giornalista andava ucciso. Quell'articolo fu solo la causa scatenate, era da tempo che i camorristi erano inferociti per tutto quello che Siani raccontava. Il ricordo di Giancarlo resta vivo: per quanti hanno a cuore la legalita' e' un simbolo della lotta alle mafie, per i giovani affascinati dal giornalismo e che si battono per farsi strada in questo mestiere, un esempio da seguire.

 

Articolo pubblicato da "Il Mattino" del 10 giugno 1985

che decretò la sua condanna a morte


Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l'arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse «scaricato», ucciso o arrestato.

Il boss della Nuova famiglia che era riuscito a creare un vero e proprio impero della camorra nell'area vesuviana, è stato trasferito al carcere di Poggioreale subito dopo la cattura a Marano l'altro pomeriggio. Verrà interrogato da più magistrati in relazione ai diversi ordini e mandati di cattura che ha accumulato in questi anni. I maggiori interrogativi dovranno essere chiariti, però, dal giudice Guglielmo Palmeri, che si sta occupando dei retroscena della strage di Sant’Alessandro.

Dopo il 26 agosto dell'anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di «Nuova famiglia», i Bardellino. I carabinieri erano da tempo sulle tracce del super latitante che proprio nella zona di Marano, area d’influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare rifugio. Ma il boss di Torre Annunziata, negli ultimi anni, aveva voluto «strafare».

La sua ascesa tra il 1981 e il 1982: gli anni della lotta con la «Nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo. L’11 settembre 1981 a Torre Annunziata vengono eliminati gli ultimi due capizona di Cutolo nell'area vesuviana, Salvatore Montella e Carlo Umberto Cirillo. Da boss indiscusso del contrabbando di sigarette (un affare di miliardi e con la possibilità di avere a disposizione un elevato numero di gregari) Gionta riesce a conquistare il controllo del mercato ittico.

Con una cooperativa, la Do. Gi. pesca (figura la moglie Gemma Donnarumma), mette le mani su interessi di miliardi. È la prima pietra della vera e propria holding che riuscirà a ingrandire negli anni successivi. Come «ambulante ittico», con questa qualifica è iscritto alla Camera di Commercio dal ‘68, fa diversi viaggi in Sicilia dove stabilisce contatti con la mafia. Per chi può disporre di alcune navi per il contrabbando di sigarette (una viene sequestrata a giugno al largo della Grecia, un'altra nelle acque di Capri) non è difficile controllare anche il mercato della droga.

È proprio il traffico dell'eroina uno degli elementi di conflitto con gli altri clan in particolare con gli uomini di Bardellino che a Torre Annunziata avevano conquistato una fetta del mercato. I due ultimatum lanciati da Gionta (il secondo scadeva proprio il 26 agosto) sono alcuni dei motivi che hanno scatenato la strage. Ma il clan dei Valentini tenta di allargarsi anche in altre zone. Il 20 maggio a Torre Annunziata viene ucciso Leopoldo Del Gaudio, boss di Ponte Persica, controllava il mercato dei fiori di Pompei. A luglio Gionta acquista camion e attrezzature per rimettere in piedi anche il mercato della carne. Un settore controllato dal clan degli Alfieri di Boscoreale, legato a Bardellino.

Troppi elementi di contrasto con i rivali che decidono di coalizzarsi per stroncare definitivamente il boss di Torre Annunziata. E tra i 54 mandati di cattura emessi dal Tribunale di Napoli il 3 novembre dell'anno scorso ci sono anche i nomi di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino. Con la strage l'attacco è decisivo e mirato a distruggere l’intero clan. Torre Annunziata diventa una zona che scotta. Gionta Valentino un personaggio scomodo anche per gli stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno indagando gli inquirenti e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della «Nuova famiglia». Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana. Con la cattura di Valentino Gionta salgono a ventotto i presunti camorristi del clan arrestati da carabinieri e polizia dopo la strage.

Ancora latitanti il fratello del boss, Ernesto Gionta, e il suocero, Pasquale Donnarumma.

 

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Immigrazione, 150 siriani sbarcano a Catania.

In Sicilia è emergenza

 

ilfattoquotidiano.it -  18 settembre 2013

 

Prosegue l’emergenza sbarchi in Sicilia, con le nuove rotte che dal medio oriente puntano a Catania e Siracusa. Nella scorsa notte, intorno alle 2 sono stati 150 i migranti soccorsi in prossimità proprio della costa di Catania. Uomini ma anche numerose donne, di cui tre in stato di gravidanza oltre a 43 minori, tutti provenienti dalla Siria sono stati intercettati da un mercantile battente bandiera maltese, il “N. Loire” dopo una segnalazione arrivata tramite un telefono satellitare. Concluse le operazioni di carico la nave ha trasportato i migranti in prossimità del porto di Catania dove sono stati presi in consegna da un’altra imbarcazione, la motovedetta “Città di Siracusa” che ha provveduto al trasporto finale fino alla banchina del molo 8. Possibile tra l’altro la presenza degli scafisti all’interno del nutrito gruppo. Numerose le donne trasferite negli ospedali della città per le precarie condizioni di salute. Soltanto la sera prima erano stati quasi mille gli uomini soccorsi nel Canale di Sicilia dalla Guardia costiera e dalla Marina militare dirottati tra Porto Palo (Agrigento) e l’isola di Lampedusa. Gli sbarchi, favoriti dal clima mite, pare potrebbero proseguire anche nei prossimi giorni.  

 

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Soldati Israele ballano con palestinesi

 

Video in rete, esercito avvia indagine

e sospende militari

 

Ansa - 29 agosto 2013

 

 Alcuni soldati israeliani di pattuglia a Hebron, in Cisgiordania, hanno deciso di unirsi a un party cominciando a ballare, in completa tenuta militare, insieme agli altri invitati palestinesi al ritmo scatenato di 'Gangnam style'. Lo mostra un video riprodotto dai media israeliani che sottolineano ''il comportamento non convenzionale'' dei soldati. L'esercito israeliano non sembra aver gradito sia per ragioni di regole sia per motivi di sicurezza dei soldati che sono stati sospesi.

 

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Sbarchi immigrati: in 350 salvati in Sicilia,

donna partorisce a bordo

 

Nelle prime ore del mattino la Marina militare ha avvistato un peschereccio a circa 55 chilometri a est di Siracusa: a bordo c’erano circa 200 immigrati tra cui donne e bambini. Probabilmente sono di origine siriana. Un altro barcone segnalato a 15 miglia da Capo Murro di Porco.

 

fanpage.it  -  28 agosto 2013

 

Ore 10.45 – Sono in totale circa 350 gli immigrati arrivati nelle ultime ore in Sicilia: due i barconi carichi di profughi che sono stati avvistati e messi in salvo in mattinata. Poche ore dopo l’imbarcazione con 199 profughi siriani salvata a Siracusa, un secondo barcone è stato segnalato da un motopesca a 15 miglia da Capo Murro di Porco. A bordo c’erano 155 persone che sono state poi raggiunte e imbarcate su due motovedette della Capitaneria di porto per essere portate nel porto di Siracusa. Anche in questo caso ci sono molte donne e bambini. Intanto si è appreso che tra i 199 migranti soccorsi all’alba c’era anche una bambina di appena 4 giorni: la piccola sarebbe nata durante la navigazione. Sia lei che sua madre sono in buone condizioni fisiche e sono state immediatamente assistite dal personale della Croce Rossa, sulla banchina del Porto Grande.

Nuovo sbarco di immigrati sulle coste siciliane: un barcone con a bordo circa 200 profughi è stato soccorso all’alba di questa mattina al largo di Siracusa in un’operazione cui hanno preso parte la nave “Foscari” della Marina Militare e alcune motovedette della Guardia costiera e della Guardia di Finanza. Tra i 200 profughi, di probabile origine siriana, ci sono diverse donne e bambini. Sono stati condotti nel Porto Grande di Siracusa. L’imbarcazione alla deriva era stata individuata da un velivolo della Marina Militare partito da Sigonella nel pomeriggio di ieri.

Precarie condizioni di galleggiabilità dovute al sovraffollamento - “Il pattugliatore Foscari giunto in prossimità del peschereccio e accertate le precarie condizioni di galleggiabilità dovute al sovraffollamento iniziava le operazioni di soccorso”, si legge nel comunicato della Marina. Agli immigrati sono stati somministrati generi di conforto e assistenza medica, poi sono stati imbarcati a bordo del pattugliatore della Marina Militare e sulle motovedette intervenute in concorso alle operazioni di trasbordo. “I mezzi della Marina Militare e della guardia di Finanza – si legge ancora nel comunicato – hanno poi ripreso la navigazione verso il porto di Siracusa”.

 

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Decadenza, Berlusconi verso la vittoria.

Per assenza degli avversari

 

 

ilfattoquotidiano.it di Peter Gomez  27 agosto 2013

 

“Chi è veramente esperto nell’arte della guerra sa vincere l’esercito nemico senza dare battaglia, prendere le sue città senza assediarle e rovesciarne lo Stato senza operazioni prolungate”. Bisogna leggere la plurimillenaria opera del grande generale e filosofo cinese Sun Tzu, autore de L’Arte della Guerra, per avere la fotografia esatta della piega presa dal dibattito sulla decadenza da senatore del pregiudicato Silvio Berlusconi. Senza aver sparato un solo colpo il Cavaliere è a un passo dalla vittoria. Intimoriti dal volteggiare dei falchi, blanditi dal tubare delle colombe, ammaliati dal sibili ricattatorii della Pitonessa, i sempre più teorici avversari dell’ex premier paiono prepararsi alla ritirata.

 

L’annuncio è stato significativamente dato da due dei supposti dieci saggi di Giorgio Napolitano. Secondo Valerio Onida (saggio in quota Sel) e Luciano Violante (saggio in quota Pd) la legge Severino sulla decadenza dei condannati va sottoposta all’esame della Corte Costituzionale. Entrambi sono certi che la norma, approvata pochi mesi fa dal parlamento quasi al completo, sia perfettamente legittima. Tutti e due spiegano che non è una legge penale e che quindi ha valore retroattivo. Ma con salto carpiato aggiungono che sollevare un’eccezione davanti alla Consulta non sarebbe una “dilazione”, ma l’applicazione della Costituzione. Anzi, spiega Violante, Berlusconi tanto che c’è potrebbe pure rivolgersi pure alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

 

Lasciamo ad altri il dibattito sulla questione giuridica. I pareri in proposito si sprecano e sono nel 99 per cento dei casi concordi nell’affermare che la giunta per le immunità del Senato non può sollevare la questione davanti alla Corte. Anche perché un parlamento che impugna una legge chiarissima appena fatta entrare in vigore è materia da esperti in malattie mentali, non da tecnici del diritto.

 

Più interessante è invece capire la strategia seguita dal Cavaliere frodatore del fisco per tentare di uscire dai guai. Un piano che, se realizzato, potrebbe permettergli di restare a Palazzo Madama, non per mesi, ma per anni.

 

La manovra ideata prevede più tappe. Il ricorso alla Consulta, che tanto piace agli uomini più vicini al Colle, se otterrà il via libera parlamentare partirà infatti solo a metà autunno. Tenuto conto dei tempi della Corte difficilmente verrà esaminato prima della tarda primavera o dell’estate del 2014. E anche se verrà respinto ci vorranno poi altri mesi per votare la decadenza.

 

Ipotizzare che il Cavaliere arrivi al 2015 ancora indossando il laticlavio non è insomma troppo sbagliato.

 

Contemporaneamente, come fatto balenare dallo stesso Berlusconi durante il vertice di Arcore di sabato 24 agosto, l’ex premier chiederà l’affidamento in prova ai servizi sociali. In questo modo la Corte di Appello di Milano e poi la Cassazione che dovranno stabilire la durata della sua interdizione dai pubblici uffici saranno costrette a venirgli incontro. Visto il suo buon comportamento l’interdizione non sarà più di tre anni (il massimo consentito), ma molto inferiore. Forse un anno o un anno e mezzo.

Anche qui poi ci vorrà un voto dell’assemblea per arrivare alla decadenza. Ma già in passato - è accaduto nel caso del forzista Gianstefano Frigerio condannato per corruzione, concussione, finanziamento illecito e ricettazione – i parlamentari hanno finito per ritenere estinta l’interdizione dai pubblici uffici dei propri colleghi pregiudicati “in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali”. Non c’è quindi ragione per ritenere che Berlusconi subisca un trattamento diverso da quello di Frigerio.

 

A quel punto si entra in nuovi affascinanti scenari: è divertente (o agghiacciante, a seconda dei punti di vista) immaginare cosa accadrà se il Senato dovesse calendarizzare il voto sul Berlusconi interdetto dai pubblici uffici prima di quello sul Berlusconi decaduto a causa della legge Severino.

 

Da una parte i colleghi gli diranno che può restare con loro perché ormai riabilitato, dall’altra dovranno (o dovrebbero) espellerlo in virtù di norme ideate per tutelare la reputazione delle istituzioni infangate dalla presenza di condannati al loro interno. Lo faranno con facilità? Dubitare è lecito. Più semplice è credere che assisteremo a nuove settimane di snervanti discussioni, magari in attesa della Corte europea dei diritti dell’Uomo, i cui tempi sono ancora più lunghi rispetto a quelli della Consulta.

 

Certo, Berlusconi ha anche altri processi in corso. Nel 2014 si dovrebbe, per esempio, celebrare l’appello per il caso Ruby. Ma questo, per il momento, non è un problema. Anche in caso di conferma della condanna in secondo grado la Cassazione non si esprimerà prima del 2015 o forse anche più in là, visto che i reati contestati non si prescrivono.

 

Il tempo che voleva, insomma, l’ex premier sente di averlo ormai quasi in tasca. Per questo adesso ha ordinato ai suoi di tacere. Dal Colle il segnale che chiedeva, tramite Violante e Onida, è arrivato. Ora spera in quello del Pd. Ma non ha fretta. Bisogna lasciar lavorare la Giunta. I generali impazienti, insegna Sun Tzu, perdono le guerre. E lui almeno quelle politiche da vent’anni a questa parte è abituato a vincerle. Di solito per la momentanea assenza del nemico.

 

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Napoli, pallottole contro i migranti.

Una vittima: “Perché l’hanno fatto?”

 

 

ilfattoquotidiano.it  di Andrea Postiglione  27 agosto 2013

 

“Perché, perché mi hanno fatto questo?”. È il mantra che B.C., giovane senegalese che vive in Italia da sette anni con regolare permesso di soggiorno, si ripete dalla notte di lunedì scorso, quando due balordi in sella a uno scooter gli hanno esploso un colpo da arma da fuoco, mancandolo di poco. La vicenda è stata denunciata dall’Associazione 3 febbraio, pochi giorni il ferimento a colpi di pistola di un altro extracomunitario, questa volta nigeriano. “Stavo andando a dormire a casa di un amico – dice B. alle telecamere del fattoquotidiano.it – e ho sentito delle urla dietro di me, non so se è perché volevano che mi girassi per colpirmi o se qualcuno volesse avvisarmi del pericolo. Poi ho sentito un colpo, ma non pensavo fosse di pistola. Quando ho alzato la testa ho visto due ragazzi sullo scooter e quello seduto dietro stava ricaricando l’arma. Mi sono girato e ho corso”. “Mi è venuta una rabbia enorme – racconta – e mi sono detto che sarebbe stato troppo facile lasciar correre la cosa. Quindi ho fatto denuncia dai carabinieri”. Poi, B. si lascia andare a uno sfogo di rabbia: “Io non ho fatto niente. Non ho amici napoletani, né rapporti con loro, ma non ho mai avuto problemi. Non vendo droga, non ho mai fatto niente di male. Per questo mi chiedo perché: se cercavano qualcuno non sono la persona giusta; se l’hanno fatto perché sono nero, beh non è colpa nostra se siamo neri o bianchi; e se l’hanno fatto per divertimento, lo facessero tra loro, non con noi africani”  

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Kyenge a Cantù, ancora insulti e razzismo.

“Lancio banane? Meglio che noci cocco”

 

Il ministro era stato invitato dal sindaco della città brianzola.

Due esponenti del Carroccio e un ex se ne vanno "per protesta".

A Verona denunciato a piede libero un sessantunenne

che su Facebook aveva scritto di voler "accogliere con le armi la ministra negra"

 

ilfattoquotidiano.it  29 luglio 2013

  

Non si fermano in Veneto gli attacchi della Lega al ministro per l’integrazione Cecile Kyenge. Dopo le esternazioni dell’assessore veneto Daniele Stival, criticato dal presidente Luca Zaia, e della consigliera di quartiere padovana Dolores Valandro, condannata per le sue frasi choc a un anno e un mese con la sospensione della pena, tocca ora all’assessore alla sicurezza di Montagnana e consigliere provinciale, Andrea Draghi. Lo denuncia una deputata del Pd, Giulia Narduolo, diffondendo la foto del post di qualche giorno fa sulla pagina Facebook, in cui l’esponente del Carroccio paragona l’esponente del governo ad un gorilla, copiando lo slogan di una pubblicità televisiva (“Dino dammi un crodino”).

 

Offese che si aggiungono alla denuncia per diffamazione da parte della Digos di Verona di un uomo di 61 anni che sul medesimo social network ha insultato la “ministra negra”, domenica nel veronese, aggiungendo la minaccia di far uso delle armi contro di lei. Agli investigatori si è giustificato dicendo di essersi sfogato scompostamente per un furto subito nella sua abitazione ad opera di extracomunitari.

 

L’assessore Draghi per ora tace. Il suo cellulare risulta staccato: “E’ all’estero” spiega laconicamente il sindaco e collega di partito, Loredana Borghesan, a cui è stato chiesto di ritirare le deleghe. “E’ partito ieri – aggiunge – . Appena riuscirò a sentirlo chiarirò la questione con lui”. A prendere immediatamente le distanze da Draghi e il governatore Zaia. “Un atto che, se confermato – taglia corto -, è da condannare senza se e senza nella maniera più assoluta. Questo signore si scusi e tolga la foto dal suo profilo. Il partito prenda immediatamente le distanze e i provvedimenti del caso”. Dello stesso avviso il segretario padovano del Carroccio, Roberto Marcato. “Sono davvero stanco di questi leghisti da Facebook che stanno vanificando il lavoro che sta facendo il nostro segretario Roberto Maroni e le nostre battaglie. La condanna – sentenzia – è senza attenuanti”.

 

Sono insulti razzisti inaccettabili, espressioni di inciviltà lontani anni luce dallo spirito di accoglienza della nostra regione – bolla la questione il deputato Udc Antonio De Poli -. Queste affermazioni lasciano esterrefatti. La Lega continua a danneggiare l’immagine del Veneto”.

 

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Crisi, debito pubblico al 130,3% del Pil.

Nuovo record, peggio solo la Grecia

 

Allarme dell'Eurostat dopo che anche la Banca d'Italia ha segnalato un nuovo massimo, a quota 2.074,7 miliardi. Nell'intera Eurozona è invece salito al 92,2% rispetto al 90,6% dell’ultimo trimestre del 2012

 

Il Fatto Quotidiano -  22 luglio 2013

 

Il debito pubblico italiano segna un nuovo record. Nel primo trimestre del 2013 ha sfondato quota 130%, assestandosi al 130,3% del Pil, dal 127% del trimestre precedente. E solo la Grecia, sottolinea l’Eurostat, ha un debito più elevato dell’Italia, al 160,5%.

Nell’Eurozona, invece, il rapporto debito/Pil è salito nel primo trimestre dell’anno al 92,2% rispetto al 90,6% dell’ultimo trimestre del 2012, mentre nell’Ue a 27 dall’85,2% all’85,9%. Nel primo trimestre dello scorso anno il rapporto debito/Pil era rispettivamente dell’88,2% e dell’83,3%. Fra i Paesi membri, il debito più alto è stato registrato in Grecia (160,5%), Italia (130,3%), Portogallo (127,2%) e Irlanda (125,1%), mentre quello più basso in Estonia (10%), Bulgaria (18%) e Lussemburgo (22,4%).

Nei giorni scorsi anche la Banca d’Italia ha fatto sapere che il debito italiano ha raggiunto un massimo storico, salendo a maggio 2013 di 33,4 miliardi, a quota 2.074,7 miliardi. L’aumento, ha spiegato via Nazionale, “riflette principalmente l’incremento di 20,4 miliardi delle disponibilità liquide del Tesoro (che hanno raggiunto 62,4 miliardi, contro 35,8 nel mese di maggio del 2012) e il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche del mese (11,5 miliardi)”.

Torna quindi il dibattito su come risolvere il problema del debito, che pesa sempre più sulle spalle dell’Italia. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha parlato nei giorni scorsi della possibilità di privatizzare per fare cassa e alleggerirsi dall’indebitamento. “Non è escluso che il Tesoro decida di cedere quote di società pubbliche – incluse Eni, Enel e Finmeccanica – per ridurre il debito”, ha affermato il ministro a margine dei lavori del G20 di Mosca, sottolineando che bisogna considerare anche la possibilità di “usarle come collaterali per la riduzione del debito”.

 

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Alfano e Calderoli, si salvi chi può?

 

ilfattoquotidiano.it   di Peter Gomez  -  17 luglio 2013

 

A ribadire che ormai la nave Italia segue testarda solo la rotta per il naufragio, arrivano le ultime notizie dalla tolda di comando: il Parlamento. Come era prevedibile e previsto nessuno si è dimesso: Roberto Calderoli, il vicepresidente razzista del Senato, e Angelino Alfano, l’ennesimo ministro dell’Interno a sua insaputa, restano ancora ai loro posti. E, va detto subito, è bene che resistano.

Per chi si informa e s’interessa di politica la coppia rappresenta la plastica incarnazione di un Paese passato dal declino al degrado. Se il duo scomparisse qualche elettore correrebbe anzi il rischio di credere che le cose sono davvero destinate a migliorare. Ma certe illusioni, dopo anni di promesse, è più igienico non darle. Meglio invece urlare: calate le scialuppe, si salvi chi può!

 

Per questo, davanti alle carriere di Alfano e Calderoli, vale solo la pena di citare Petrolini e il suo memorabile: “Io non ce l’ho con te, ma con chi non ti butta di sotto”. Prendersela coi due non è sbagliato. È inutile. Loro fanno quel che possono, quel che sanno (in effetti niente, ci ha spiegato Alfano parlando dello scandalo kazako) e soprattutto quello che hanno sempre fatto.

 

Guardate Calderoli, oggi nel mirino per aver paragonato il ministro Kyenge ad un orango. Negli ultimi anni ha definito gli immigrati “bingo bongo”; si è presentato in tv con una maglietta contro Maometto, scatenando manifestazioni violente davanti alle sedi diplomatiche italiane e le chiese cristiane in vari paesi arabi; ha pascolato un maiale (il suo) a Lodi sui terreni dove doveva essere costruita una moschea e poi, tanto per rasserenare gli animi di eventuali aspiranti kamikaze, ha indetto il Maiale day in ottica anti-Islam.

 

Autore della peggior legge elettorale della Repubblica italiana, da lui stesso ribattezzata porcata (e non a causa dell’ossessione per i suini di cui sopra), nel 2012 è pure stato salvato dalla maggioranza dei colleghi del Senato da un processo per truffa aggravata. A spese dei contribuenti aveva preso un volo di Stato per motivi personali facendo però risultare “con artifici e raggiri”, secondo il tribunale dei ministri, di avere impegni istituzionali in Piemonte.

Un miracolato insomma: “Su me stesso non avrei scommesso una lira”, ha confessato un giorno in preda a un chiaro eccesso di autostima. Un leader da osteria che però il 21 marzo del 2013, invece che ritrovarsi in un’aula di giustizia, vede un’altra aula, quella di Palazzo Madama, eleggerlo vice presidente.

 

Poche settimane dopo la scena si ripete col governo: Pd e Pdl votano tra poche defezioni la fiducia all’esecutivo Letta junior. Vice-premier è Alfano, abituato a fare da spalla al nipote di Gianni Letta fin dai tempi di Vedrò, la fondazione cofondata nel 2005.

 

A quell’epoca Angelino aveva già donato il proprio cognome al Lodo Alfano, la legge anticostituzionale ideata per tentare di salvare il Capo (suo e dello zio di Enrico). Ma ovviamente non si era accorto che la norma non stava in piedi. Esattamente come non si era reso conto di aver partecipato, nel 1996, al matrimonio della figlia del boss di Palma di Montichiaro, Croce Napoli, e di aver pure baciato il padre della sposa (“non ho nessuna memoria o ricordo di questo matrimonio, attenti a pubblicare una notizia del genere”, dirà nel 2002).

 

Distratto infatti il ministro dell’Interno lo è da sempre. Impreciso pure. Nel 2009, da Guardasigilli, arriva persino a dimostrarlo con candore davanti ai colleghi della Camera. Parlando di intercettazioni Angelino dice: “Secondo un mio calcolo empirico e non scientifico (sic), è probabilmente intercettata una grandissima parte del Paese: nel 2007, ben 124.845 persone. Ma poi ciascuna fa o riceve in media 30 telefonate al giorno. Così si arriva a 3 milioni di intercettazioni”.

I dati veri però raccontavano altro. Le persone intercettate non erano più di 10mila. Perché il responsabile della Giustizia confondeva il numero di bersagli, ovvero i soggetti effettivamente ascoltati, con quelli delle loro utenze (anche più di cinque a bersaglio), e sommava tra loro le proroghe dello stesso decreto d’ascolto (che dura 20 giorni ed è reiterabile fino a 2 anni).

 

Ma che ci si può fare? Alfano è fatto così. In Parlamento, nel Pd e nel suo partito lo sanno tutti. Infatti lo hanno nominato vice-premier e ministro dell’Interno. E checché ne dica il M5S, Sel o Matteo Renzi, è giusto che continui ad esserlo. Alla faccia di una bambina di sei anni e di una madre rispedite in Kazakistan nelle grinfie di un dittatore, di un Viminale fatto traballare nei vertici come mai era successo prima, di un governo di ora in ora più impotente. Se perde la poltrona, la perdono anche gli altri. Il problema qui non è lui che vuole restare. Sono loro che non se ne vogliono andare.

 

Agguantate un salvagente: buon naufragio a tutti. 

 

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Caso Ablyazov: Alfano: 'Io non sapevo'.

L'Ue chiede informazioni

 

Terremoto al Viminale, via Procaccini e Valeri.

Venerdì al Senato mozione di sfiducia al ministro

 

Ansa di Fabrizio Finzi  -  17 luglio 2013

 

I vertici del Governo non sono stati informati della delicata vicenda dell'espulsione di Alma Shalabayev, moglie del dissidente kazako Ablyazov, e questo rappresenta un fatto gravissimo che non si deve mai più ripetere. Per questo sono state accettate le dimissioni del capo di Gabinetto, Procaccini, e quelle del capo della segreteria del dipartimento, Valeri. E' questa la linea del Governo che Angelino Alfano ha oggi spiegato al Parlamento - prima al Senato e poi in serata alla Camera - mentre il Pd resta silenzioso e in attesa non nascondendo il forte disagio nel quale sta vivendo le ripercussioni interne di quello che ogni giorno che passa sta diventando sempre più un pasticcio di livello internazionale.

 

"In queste ore ci preoccupano le molte reazioni a livello europeo di una vicenda che non può essere derubricata ad esclusivo fatto interno", spiega una fonte governativa dando voce ad alcune perplessità che si stanno materializzando anche a Bruxelles intorno ad una 'spy story' che ha ramificazioni in diversi Paesi.

 

A partire dalla Gran Bretagna dove si trova proprio oggi in visita il premier Enrico Letta. Il quale continua a mostrare nervi saldi anche da Londra: "non ho dubbi che il governo andrà avanti e supererà questi ostacoli", ha replicato a un giornalista inglese che gli chiedeva se il governo avrebbe retto all'urto progressivo della vicenda kazaka e della eventuale condanna di Silvio Berlusconi. Se il premier fa sfoggio di ottimismo, nel Pd non si nasconde che si profilano giornate ad altissimo rischio per la maggioranza: il ministro dell'Interno passerà infatti dalle forche caudine della mozione di sfiducia individuale - chiesta sia da Sel che da M5S - solo venerdì prossimo. Quasi tre giorni di fuoco che il Colle osserva dall'alto - per ora silenzioso - ma con grandissima preoccupazione.

 

Anche perchè, mentre il caso Kyenge sembra lentamente riassorbirsi, il Governo è alle prese con la quadratura del cerchio di due provvedimenti decisivi per la vita dell'esecutivo, Imu ed Iva. In questo terreno friabile si inserisce ancora una volta Matteo Renzi che punge la maggioranza chiedendo che sia proprio il premier a metterci la faccia e a riferire in aula. Il sindaco di Firenze cerca di dare corpo all'irritazione di molti parlamentari del Pd che vacillano di fronte ai continui colpi di scena di questo giallo a puntate. Per fortuna dell'esecutivo il voto di venerdì sulla sfiducia ad Alfano sarà a scrutinio palese altrimenti - come si scherza a Montecitorio - "lo spettro dei 101" che impallinarono Prodi avrebbe potuto rimaterializzarsi beffardo.

 

"La relazione del ministro Alfano è poco convincente e lascia spazio a numerosi ed inquietanti dubbi. Serve l'intervento in aula del Premier Enrico Letta", motivano i renziani. Mentre il Pdl è compatto a difendere il proprio vicepremier, la compagine governative cerca di serrare i ranghi per resistere a nuovi scoop giornalistici che potrebbero rivelarsi letali: "il Governo deve fare quadrato ed esprimere solidarietà al ministro dell'Interno Alfano perché il lavoro di un ministero si basa sul principio della leale collaborazione", ricorda il ministro della Difesa, Mario Mauro.

 

E poi tutti sanno che con le dimissioni di Alfano, o la sua improbabile sfiducia in aula, "sarebbe la crisi", ha spiegato senza mezzi termini il segretario del Pd Guglielmo Epifani. Nel frattempo, dopo la prima 'purga' che ha colpito Procaccini e Valeri, il governo si muove anche all'esterno e ha annunciato che presto sarà convocato l'ambasciatore kazako a Roma. Appuntamento che vedrà però il ministro Bonino potersi interfacciare probabilmente solo con l'incaricato d'affari in quanto l'ambasciatore al momento si troverebbe fuori Roma.

 

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Caso Kazakistan, ombre su Alfano.

Gli uomini del ministro sapevano del blitz

 

 

Il capo di Gabinetto del Viminale Procaccini contattato dall'ambasciatore Yemessov e coinvolto nelle riunioni prima del blitz del 28 maggio. Bonino: "Informai il ministro dell'Interno il 2 giugno". Le prime relazioni interne il 3 giugno. Ma per 45 giorni tutto appare "perfettamente rispettoso delle norme". Il vicepremier: "Cadranno delle teste"

 

Il fatto quotidiano.it - 14 luglio 2013

 

Davvero il ministro Alfano non sapeva della ‘rendition’ che ha riportato in Kazakistan Alma Shalabayeva e sua figlia Alua? Le ricostruzioni di queste ore sembrano mettere in dubbio la tesi di un Alfano all’oscuro di tutto. Che fosse immediatamente prima, o immediatamente dopo il “rapimento”, il ministro dell’Interno qualcosa deve avere saputo, ma non ha agito fino allo scorso venerdì, quando insieme ai colleghi Cancellieri e Bonino e al premier Letta è stato deciso di revocare il decreto di espulsione. Troppo tardi, come è noto, visto che la moglie del dissidente kazako si trova oggi in patria, sottoposta ad obbligo di dimora. 

 

La ricostruzione del ruolo del Viminale
Di certo, ricostruiscono tanto il Corriere della Sera che Repubblica, il ministro non sapeva ma il suo staff sì. Sapeva il capo di Gabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini, che viene contattato il 27 maggio dall’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov dopo che questi ha inutilmente tentato di contattare Alfano in persona. Il dissidente Ablyazov sarebbe a Casal Palocco e i kazaki chiedono che sia arrestato in quanto pericoloso criminale. Il giorno dopo, secondo la ricostruzione, Procaccini incontra lo stesso Yelemessov e il suo primo consigliere. All’incontro partecipa anche il prefetto Alessandro Valeri, capo della segreteria del dipartimento della Pubblica Sicurezza – l’ufficio del capo della Polizia, in quei giorni vacante prima dell’insediamento di Pansa che sarà nominato il 31 maggio e si insedierà il giorno dopo. Valeri mette in moto il vice capo della Polizia Francesco Cirillo e il capo della squadra mobile Renato Cortese. Da lì in poi, secondo le risposte rese a Repubblica dall’entourage del ministro e secondo la versione ufficiale, Alfano non saprà più nulla, non verrà più contattato né interpellato sulla materia. E’ davvero così? Di certo, l’efficienza comunicativa non corrisponde alla celerità con cui quella stessa sera scatta il blitz nella villa di Casal Palocco: Ablyazov non c’è. Sua moglie e sua figlia sì, e si avvia la rapidissima procedura di espulsione più volte raccontata che porta al rimpatrio della donna e della bambina il 31 maggio con il jet privato noleggiato dalle autorità kazake. 

 

La Farnesina e l’ufficio cerimoniale


Solo allora, a cose fatte, nella versione ufficiale entra in scena anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, che viene informata dell’accaduto dallo studio Olivo-Vassalli che difende la donna il giorno 31 e a sua volta informa Letta e Alfano. E’ la stessa Bonino a spiegare a Repubblica di avere raccontato della vicenda il 2 giugno alla parata per la festa della Repubblica: il ministro degli Esteri prende da parte il collega dell’Interno e il premier Letta che sembrano cadere dalle nuvole. Bonino descrive un Alfano ‘furibondo’: “Gli dissi di seguire il caso Kazakistan di persona”. 

“Sono ben consapevole della gravità di questa vicenda – continua Emma Bonino – e della pessima figura fatta dall’Italia, e non a caso dalla notte del 31 maggio, da quando ne sono venuta a conoscenza, quasi non mi sono occupata d’altro. Tutto quello che posso fare io lo farò. Qualcuno dovrà pagare, dovrà dire davanti all’opinione pubblica: si sono stato io”. Bonino dice di non aver pensato alle dimissioni: “Quando ho saputo di questa storia quella poveretta era già in Kazakistan, non sarebbe servito a nulla un gesto politico di quel tipo”. Il ministro si dice “convinta che, a livello politico, i ministri non fossero informati, il che è ancora peggio per certi aspetti. Non c’è traccia di un coinvolgimento del livello ‘politico’ in questa storia. Evidentemente – osserva – la pressione da parte del Kazakhstan è stata fortissima, ma si è scaricata ai livelli più bassi. Può darsi che abbiano approfittato del vuoto di potere al vertice degli apparati prima del 31 maggio”.

 

Non tutti i dettagli sono chiariti, tuttavia. L’ufficio cerimoniale della Farnesina è informato dell’esistenza della donna già dal 29 maggio, quando risponde con un fax alla richiesta di informazioni della Questura che vuole conoscere eventuali coperture diplomatiche della donna. Per il ministero era impossibile collegare Alma al marito, in quella occasione, perché il cognome usato era quello da nubile. Una posizione ribadita ancora oggi in via ufficiale dal ministero con una nota.

 

“Con riferimento ad alcune interpretazioni apparse su organi di stampa odierni sul provvedimento di espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua – si legge – la Farnesina ribadisce che: il Ministero degli Esteri non ha alcuna competenza in materia di espulsione di cittadini stranieri dall’Italia né, in base alla normativa, ha accesso ai dati relativi a cittadini stranieri ai quali sia riconosciuto da Paesi terzi lo status di rifugiato politico”. La Farnesina poi precisa che “la sola prerogativa del ministero degli Esteri è di verificare l’eventuale presenza nella lista di agenti diplomatici accreditati in Italia di nominativi che possano essere di volta in volta segnalati dalle autorità di sicurezza italiane”. Infine, conclude la nota, “nel caso di specie, in conformità con la prassi vigente, nessuna indicazione è stata fornita alla Farnesina circa i motivi della richiesta di informazioni sull’eventuale status diplomatico della signora Shalabayeva”.

 

Quaranta giorni persi


Insomma, il ministero degli Esteri ha risposto a domanda specifica con risposta specifica. E in questo modo si tira fuori dai giochi. Restano molti altri dubbi. E’ possibile che il ministro dell’Interno sia all’oscuro di ciò che sta succedendo nei giorni tra il 28 e il 31 di maggio quando i suoi funzionari sono coinvolti? E’ possibile che il ministro dell’Interno non sia informato di una operazione che coinvolge 40/50 uomini della polizia per arrestare un “pericoloso criminale” e si risolve con l’espulsione di sua moglie? La prima relazione sull’accaduto richiesta da Pansa alla Questura e all’Ufficio Immigrazione arriva al Viminale il 3 giugno. E allora perché quando la questione appare per la prima volta sui giornali – è il 5 di giugno – Alfano si affretta a dire che tutto si è svolto correttamente se poi – quaranta giorni dopo – Palazzo Chigi decide di revocare l’espulsione? 

 

“Cadranno delle teste”


Di certo qualcuno pagherà. E con ogni probabilità non sarà Alfano. Anzi, il ministro dell’Interno è pronto a “far cadere diverse teste”. Entro mercoledì prossimo, Alfano vuole sul suo tavolo la relazione dell’inchiesta interna commissionata al capo della Polizia Pansa. Il vice di Letta continua a sostenere di non avere saputo nulla. Lui ci fa una figuraccia, ma la carriera ce la rimetterà qualcun altro.

 

Questura di Roma: “Alma non è stata maltrattata”
Intanto la questura di Roma, facendo riferimento alle dichiarazioni di Alma Shalabayeva, ha smentito che la donna abbia subito maltrattamenti durante il blitz del 29 maggio nella villa di Casalpalocco. ”In relazione alle dichiarazioni rese agli organi di informazione da Alma Shalabayeva – si legge in una nota – si smentisce che la stessa abbia subito alcun tipo di maltrattamento nel corso dell’operazione di polizia giudiziaria, effettuata all’alba del 29 maggio e di cui è stato dato puntuale riferimento all’autorità giudiziaria competente”.

 

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Lampedusa, Papa:

“Cultura del benessere porta a

globalizzazione dell’indifferenza”

 

Durante l'omelia della messa al campo sportivo dell'isola, Papa Bergoglio ha attaccato duramente l'atteggiamento disinteressato della gente di fronte alla tragedia dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane

 

ilfattoquotidiano.it  di Francesco Antonio Grana -  8 luglio 2013

 

“Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno. Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io”. La condanna di Papa Francesco all’indifferenza davanti alla tragedia degli immigrati morti in mare è arrivata puntuale e durissima, stamane, nell’omelia della messa celebrata a Lampedusa, nel suo primo viaggio apostolico. “Oggi – ha affermato il Papa – nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del buon samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ‘poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, – ha aggiunto Francesco – ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”. 

Francesco ha incalzato tutti i presenti con un esame di coscienza collettivo. “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società – ha spiegato il Papa – che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza”. Un vero e proprio mea culpa quello pronunciato a Lampedusa da Francesco. “Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito”. “Domandiamo al Signore – è la preghiera del Papa – la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”.

Francesco ha voluto esprimere anche “gratitudine” e “incoraggiamento” agli abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza che hanno mostrato attenzione agli immigranti. “Voi – ha detto loro il Papa – siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà“. Un altro pensiero di gratitudine Bergoglio lo ha rivolto ai “cari immigrati musulmani che stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa – ha detto loro – vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie”.

Per un giorno un’anonima Fiat Campagnola targata 081268 MI, offerta da un milanese che da vent’anni è di casa a Lampedusa, è diventata la celebra papamobile SCV1. Nelle mani di Papa Francesco, del Pontefice argentino che vuole “una Chiesa povera e per i poveri” e che da arcivescovo di Buenos Aires celebrava spesso messe in strada con gli ultimi della sua grande diocesi, un calice e una croce astile realizzati con il legno dei barconi che trasportano a Lampedusa migliaia di immigrati. Ma molto spesso trovano la morte durante il lungo viaggio della speranza prima di arrivare alla “Porta d’Europa“. Dal 1999 al 2012 nell’isola siciliana sono sbarcate 200mila persone. Dall’inizio del 2013 a oggi gli arrivi sono stati 4mila.

“Il Papa è andato a Lampedusa per piangere i morti”, ha spiegato ai giornalisti il suo segretario particolare, il maltese monsignor Alfred Xuereb. Francesco, infatti, profondamente toccato dal recente naufragio di un’imbarcazione che trasportava migranti provenienti dall’Africa, ultimo di una serie di analoghe tragedie, ha voluto pregare per coloro che hanno perso la vita in mare, visitare i superstiti e i profughi presenti, incoraggiare gli abitanti dell’isola e fare appello alla responsabilità di tutti affinché ci si prenda cura di questi fratelli e sorelle in estremo bisogno. “Quando alcune settimane fa – ha confidato ai presenti Bergoglio – ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”.

Una visita discreta senza i vescovi della Sicilia e i rappresentati del Governo italiano: è lo stile di Francesco che vuole davvero abbracciare gli ultimi. Nella sua vita Bergoglio non aveva mai messo piede in Sicilia. “Conosco la vostra isola – aveva confidato qualche settimana fa ai vescovi della Regione – solo attraverso il film Kaos dei fratelli Taviani“. Non è un caso, dunque, se Francesco ha voluto che fosse Lampedusa il suo primo viaggio da Papa. Un segno che nel suo pontificato gli ultimi saranno davvero primi.

 

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Bologna, rifugiati africani sgomberati

dall’ex caserma Prati di Caprara

 

Sono diciassette richiedenti asilo che lo scorso 28 febbraio, allo scadere del Piano di accoglienza, avevano ricevuto 500 euro per abbandonare l’Italia. Non sapendo dove andare, però, erano tornati a vivere nella struttura in condizioni fatiscenti. Ora sono di nuovo in mezzo a una strada

 

di Erika Crispo | Bologna | 8 maggio 2013

 

“No place to go”. Nessun posto dove andare. E’ questa la frase che, come un mantra, una ventina di migranti africani continuavano a ripetere dopo lo sgombero da parte delle forze dell’ordine dell’ex caserma di Prati di Caprara a Bologna.

 

Polizia e carabinieri hanno costretto i 17 migranti, quasi tutti originari della Nigeria, ma in fuga dalla Libia, a uscire dall’edificio abbandonando i loro effetti personali all’interno. Solo in seguito potranno riprenderli, anche se ad alcuni di loro è stato concesso di recuperare alcuni beni di prima necessità come cibo e medicine.

Si tratta di alcuni dei rifugiati che lo scorso 28 febbraio 2013, allo scadere del Piano di accoglienza dell’emergenza Nord Africa, avevano ricevuto 500 euro per abbandonare l’Italia. Ma, una volta esaurito quel denaro, non sapendo dove andare, erano tornati negli stabili dove erano stati inizialmente ospitati, come l’ex caserma Prati di Caprara e la struttura di Villa Aldini.

Alcuni di questi richiedenti asilo, durante l’accoglienza, avevano lavorato in Tribunale per una paga simbolica di 1 euro al giorno sperando in un’assunzione mai arrivata. Anzi, la Croce rossa, che gestisce l’ex caserma, il 4 marzo aveva staccato la corrente elettrica e fatto in modo di rendere inagibile la struttura per obbligare i migranti ad abbandonarla.

“Non è la prima volta che provano a sgomberarli – spiega Giorgio Simbola del sindacato As.i.a-Usb, Associazione inquilini e assegnatari – ma finora eravamo riusciti a impedirlo avviando una trattativa con il Comune di Bologna e con la Croce rossa”. Grazie a quest’accordo, dunque, i rifugiati avevano il permesso “informale” di rimanere nell’ex caserma fino a che non si fosse trovata una soluzione adeguata. Ora, però, a trattativa non ancora conclusa, sono stati cacciati. Militanti e attivisti stanno cercando di riaprire il dialogo con il Comune, ma molti dei rifugiati hanno perso le speranze e la loro unica preoccupazione, per ora, è dove dormiranno e cosa mangeranno nei prossimi giorni.

 

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Sbarco a Siracusa, circa 100 migranti

 

Altre 300 persone soccorse al largo di Malta

 

Ansa - 04 luglio 2013

 

Un barcone con a bordo circa 100 migranti di presunta nazionalità siriana - fra cui diversi minorenni e 10 donne, una delle quali in stato di gravidanza avanzata - è giunto stamane intorno alle 3.30 nel porto di Siracusa scortato da una motovedetta della Guardia di Finanza di Messina, dopo essere stato intercettato a circa 60 miglia ad est dalla costa. L'intervento è stato disposto dal gruppo aeronavale della Guardia di Finanza di Messina dopo una segnalazione riguardante un'imbarcazione partita dall'Egitto carica di migranti diretti verso le coste della Sicilia orientale. Per controllare la situazione, è stato inviato un aereo ATR42 in dotazione al Gruppo Esplorazione Aeromarittima di Pratica di Mare e in supporto sono stati inviati un guardacoste della Guardia di Finanza di Messina ed un velivolo della Sezione aerea di manovra di Catania. I migranti, che appaiono tutti in buona salute, sono stati accolti da militari della Guardia di finanza ed altre forze di e sono stati affidati alle cure del personale medico. Per tutta la giornata continueranno le operazioni di polizia giudiziaria per individuare gli scafisti sotto la direzione della Procura della Repubblica di Siracusa, che ha inoltre disposto il sequestro dell'imbarcazione.

 

SOCCORSI IN 300 AL LARGO DI MALTA - Guardia Costiera italiana e quella maltese insieme per salvare 300 migranti, individuati ieri al largo di Malta. Lo

riferisce il comando della Guardia costiera italiana, precisando che nelle prime ore di questa mattina l'imbarcazione che ha raccolto i migranti è giunta a La Valletta. Era sta la Centrale Operativa di Roma della Guardia Costiera, alle 14 di ieri, a ricevere una segnalazione telefonica dal sacerdote eritreo don Mosè Zerai relativa a un barcone in difficoltà con a bordo circa 300 migranti. L'unità è stata localizzata a 38 miglia a sud ovest di Malta, in acque SAR maltesi. Sul posto sono intervenuti un pattugliatore d'altura della Guardia Costiera italiana e uno della Guardia Costiera maltese. Quest'ultima, che ha coordinato le operazioni, ha disposto anche il sorvolo di un aereo che, alle 16.20 circa, ha individuato il barcone alla deriva. Tra i migranti presenti a bordo, alcuni feriti sono stati trasbordati sul pattugliatore italiano e successivamente trasferiti a bordo di un elicottero maltese per essere trasportati d'urgenza in un centro ospedaliero di Malta. I restanti migranti, in totale 265, tra cui donne e bambini, sono stati trasbordati su due motovedette della Guardia Costiera maltese e sono giunti nel porto di La Valletta alle prime luci dell'alba.

 

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Il Papa e' a Lampedusa. Fiori per i morti in mare

 

Vi saluto tutti e ringrazio per l'accoglienza,

tutti siamo qui oggi nella preghiera',

ha detto il Papa

 

 

Ansa - 08 luglio 2013

 

L'aereo con a bordo Papa Francesco, un Falcon della Repubblica Italiana, è atterrato all'aeroporto di Lampedusa. Secondo il programma, Papa Francesco è salito a bordo di una motovedetta della Guardia costiera, accompagnato da un corteo di barche di pescatori.

 

Papa Francesco, dalla motovedetta della Guardia Costiera, ha gettato nel mare di Lampedusa una corona di fiori in ricordo dei migranti morti durante le traversate. Prima di lanciare i fiori il Papa si è raccolto in preghiera. Per alcuni minuti, il Pontefice è stato poi in preghiera, in memoria dei migranti morti in mare. Il lancio della corona è avvenuto davanti al porto di Lampedusa. La motovedetta della Guardia costiera  è stata accompagnata da un corteo di barche di pescatori. Il lancio della corona in mare da parte di papa Francesco è stato salutato dal suono delle sirene delle barche dei pescatori.

Poi papa Francesco è arrivato al porto di Lampedusa, a Punta Favarolo. Sul molo lo attendevano gruppi di migranti, che il Pontefice ha salutato al suo passaggio. Ha salutato e ha stretto la mano a numerosi migranti africani, quasi tutti giovanissimi, che lo attendevano. Il Papa ha sorriso e scambiato con loro parole di saluto.

 

"Vi saluto tutti e ringrazio per l'accoglienza, tutti siamo qui oggi nella preghiera e anche per questo non ho parlato. E' per questo che oggi sono qui. Grazie, grazie". Così il Papa si è rivolto al Molo Favarolo al gruppo di immigrati. I profughi sono per metà cristiani e per metà musulmani, molti eritrei, tra loro anche tre donne e per la maggioranza sono minorenni.

Il Papa è arrivato al Molo Favarolo con la motovedetta della Capitaneria di porto che in otto anni ha tratto in salvo dal mare 30 mila persone. Prima di giungere al molo il Pontefice aveva sostato per un breve momento di raccoglimento prima di lanciare una corona di crisantemi bianchi e gialli presso la "porta d'Europa" di Punta Maluk, in ricordo delle tante persone che hanno perso la vita in questo braccio di mare nel tentativo di raggiungere l'Italia e una vita migliore. Al Molo Favarolo Papa Bergoglio ha stretto la mano ad uno ad uno a tutti gli immigrati presenti, in maggioranza ragazzi, scambiando anche alcune battute con qualcuno di loro. Come ha spiegato nel suo breve intervento prima che il giovane profugo gli consegnasse la lettera, Papa Francesco vuole dare a questa giornata a Lampedusa un senso di preghiera e, nel ricordo di quanti sono morti, un senso di vicinanza alle loro famiglie e alla popolazione di questa piccola isola che generosamente si fa carico del difficile compito di accoglierli.

 

"Noi siamo fuggiti dal nostro Paese per due motivi, politico e economico, per arrivare in questo luogo tranquillo abbiamo superato vari ostacoli, siamo stati rapiti da vari trafficanti. Per arrivare qui in Italia abbiamo sofferto tantissimo". Così un giovane immigrato si è rivolto a Papa Francesco al quale ha anche consegnato una lettera sul Molo Favarolo di Lampedusa. Nell'intervento il ragazzo, che si è anche interrotto per la commozione, ha chiesto aiuto per la situazione particolare: "Siamo qui - ha detto - costretti a rimanere in Italia perché abbiamo lasciato le impronte digitali e per questo non possiamo andare via. Quindi - ha aggiunto - chiediamo agli altri Paesi europei di aiutarci".

 

A bordo della "campagnola" scoperta, poi, il Pontefice ha percorso le strade di Lampedusa, salutato e acclamato dalla folla, per dirigersi al campo sportivo "Arena", in località Salina, per la messa. Il Pontefice è circondato dalla folla che lo acclama: stringe al petto e bacia bambini, li accarezza, stringe le mani che i fedeli gli tendono, sorride a tutti e li saluta con la mano. L'ingresso al campo sportivo è stato accolto da grida dei presenti e dallo sventoli dei cappellini bianchi e gialli.

 

E' il primo viaggio apostolico dall'inizio del suo Pontificato. L'aereo, un Falcon 900 dell'Aeronautica militare, con a bordo il Pontefice è decollato poco prima delle 8.00 dall' aeroporto militare di Ciampino.

 

Intanto un barcone carico di migranti a Lampedusa. L'imbarcazione, con 166 stranieri a bordo, e' stata intercettata dalle motovedette della Guardia di Finanza e della Capitaneria di Porto. Sull'isola, intanto è tutto pronto per accogliere il Pontefice e il campo sportivo, dove celebrerà la Messa, è già affollato di gente.