Baghdad, gli sciiti sono pronti a difendersi

 

 

  unimondo.org   di Andrea Bernardi  -  10 Luglio 2014

 

 

Sadr City (Baghdad) – Il potente religioso sciita, uno degli uomini più temuti dell’Iraq è tornato. Niente toni concilianti per trovare una soluzione politica alla crisi irachena ma minacce. Moqtada al-Sadr alza il livello del conflitto settario e in una conferenza, circondato da fedelissimi, minaccia: “scuoteremo la terra” sotto ai piedi dell’avanzata sunnita sulla capitale. Da tre settimane giovani e vecchi della milizia Mahdi army sono tornati attivi. Nuove reclute, per la maggior parte adolescenti, ai quali i miliziani insegnano come marciare e pulire le armi. I veterani dell’insorgenza contro i militari statunitensi sono tornati ad arruolarsi e ad arruolare. Questa volta il nemico da combattere non è un esercito straniero ma interno.

 

Moqtada al-Sadr è uno dei nomi più temuti in Iraq e oggi è tornato a guidare la potente milizia. I suoi fedelissimi, richiamati alle armi anche dalla massima autorità sciita dell’Iraq, l’Ayatollah al- Sistani, sono migliaia di giovani pronti a morire. Oggi, anche un po’ per scrollarsi di dosso l’infamia del passato, le brigate del Mahdi si sono trasformate nelle “Brigate di pace”. Nome che suona ironico quando si vedono decine di giovani sfilare con cinture esplosive avvolte attorno al corpo. Del resto cambia il nome ma non l’ideologia e la regia di chi li guida. Un “brand” che vede alla regia lo stesso clero sciita iracheno che inflisse agli americani migliaia di morti e fu a sua volta accusato di migliaia di esecuzioni contro i sunniti del paese. Il cuore pulsante dei miliziani è a Sadr City, un desolato e povero quartiere a Nord-Est della Capitale. Un quartiere che gli americani avevano occupato nel 2008 per cercare di frenare le violenze, senza riuscirci. Negli anni è stato lentamente ricostruito ma rimane comunque una fogna a cielo aperto, contenitore di oltre 2 milioni di persone, tutti sciiti. Si stima che solo qui siano circa 20mila i sadristi pronti ad impugnare le armi.

 

Sadr City è solo uno dei quartieri che il governo ha dato “in appalto” alle milizie. Mentre la macchina su cui viaggiamo approccia un check point poco dopo il monumento che ricorda la guerra tra Iraq e Iran, un SUV della Polizia viene fatto tornare indietro. A controllare il check point sono fedelissimi del Mahdi, le brigate della pace. Ci sono anche giovani soldati dell’Esercito iracheno ma non fanno altro che sedere su uno sgabello a guardare le auto sfilargli davanti. La situazione rimane pericolosa. Il rischio oggi, oltre che di un Iraq fuori controllo, è che si riaccendano i rancori della guerra civile che ha insanguinato il Paese tra il 2006 e il 2008, e che le vendette con esecuzioni di rivali torni ad essere una normalità.

 

Abu Ali è un miliziano che ha accettato di portarci a casa sua per una intervista. Ha combattuto gli americani e mostra fiero le foto di quegli anni. Nel 2010 era diventato un “riservista” della milizia. Oggi ha chiuso il suo negozio di alimentari ed è tornato alle armi. Sul cancello di casa sua c’è un murales che raffigura i due Imam più importanti per gli sciiti, Hussein e Ali. “Non ho smesso di lavorare”, dice fiero della sua appartenenza alle “brigate di pace” Abu Ali, “il mio negozio è aperto. Ma se qualcosa succede, se i nostri comandanti ci chiamano, sono pronto a sacrificarmi per il mio Paese”. Secondo Abu Ali in Iraq non c’è nessun conflitto settario in atto “i problemi – secondo lui – non sono con i sunniti del Paese ma con i terroristi venuti da fuori a distruggere l’Iraq”. La teoria del complotto prende forma nuovamente. Non ammette che i sunniti siano in rivolta neppure quando gli faccio presente che se ci fossero solo 3-4 mila stranieri a combattere, i 50mila soldati di stanza nella provincia di Anbar sarebbero oggi in controllo del territorio.

 

Oggi lo scenario è più complesso che mai. Tutti sono coinvolti in Iraq. Gli americani hanno mandato super advisor, gli iraniani lo stesso, che allo stesso tempo addestrano e fornisco armi e soldi alle milizie, molte delle quali coinvolte in Siria e che negli ultimi tempi hanno fatto rientrare i propri combattenti. Una di queste milizie è Asaib Ahl al-Haq, finanziata e armata direttamente dall’Iran, in guerra con i colleghi del Mahdi army o brigata di pace e oggi, insieme alla Katiba Hezbollah, una delle più attive nei combattimenti.

 

A differenza dell’Esercito del Mahdi, i cui leader giurano che impugneranno le armi solo se l’ISIL attaccherà Baghdad o città sacre come Najaf, Kerbela o Samarra, la milizia Asaib Ahl al-Haq, una delle milizie sciite più spietate, è al fronte a combattere fianco a fianco con l’esercito. Jawad, il portavoce ci riceve nel suo ufficio di Karrada, nel centro di Baghdad, in un fortino sorvegliato da miliziani e videocamere. L’incontro avviene in una stanza del compound, decorata con divani verdi e quadri dell’Imam Hussein ed Ali. Come pensa che i sunniti possano appoggiare il governo di Maliki ed il suo esercito se le milizie sciite guidano le operazioni militari sui maggiori fronti (Tikrit, Fallujah, Ramadi, etc)? “Siamo soltanto una seconda linea” dice quasi seccato. “Non siamo al fronte per sostituire l’Esercito o in competizione con esso. Diamo soltanto il nostro supporto quando ce lo chiedono”. Faccio notare che sono appena tornato da un pattugliamento nella zona di Abu Ghraib e prima del fronte ci sono almeno sei check point gestiti dalla sua milizia, senza la minima presenza dell’Esercito. Jawad cerca di correggere il tiro e parla di back up dell’Esercito. “Stiamo li perché l’Esercito iracheno non ha sufficienti mezzi e munizioni per affrontare il nemico. Ma – assicura – il giorno che l’Esercito sarà sufficientemente armato e preparato per gestire la situazione noi ci ritireremo alla nostra vita civile”. Chiedo quale sia il ruolo dell’Iran nella milizia Asaib Ahl al-Haq e la risposta è breve e scocciata: “ci forniscono armi e consigli”, di più non posso dire. Ci salutiamo. Provo a chiedere una analisi off-record sul coinvolgimento iraniano nel conflitto ma Jawal volta le spalle e se ne va, mentre i suoi miliziani ci accompagnano fuori ai 50 gradi di Baghdad.

 

Per capire la matassa in cui si trova l’Iraq oggi basta pensare che gli americani, nemici degli iraniani, hanno inviato advisors al governo per riorganizzare l’Esercito. Che però, sul campo, combatte con i miliziani addestrati, armati e finanziati dall’Iran, che a sua volta ha personale a Baghdad. Ma parlare di milizie non fa piacere al governo e quindi ha deciso di vietare ai media, almeno quelli iracheni, di parlarne. Si può soltanto esaltare le gesta eroiche e le imprese militari dell’Esercito. Che per adesso devono ancora arrivare. (2 – continua)

 

Il Califfato Islamico

e la nuova Guerra del Golfo

 

 

 oltremedianews.com  di Daniele Cardetta - 30 giugno 2014

 

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Oggi l'Isis ha dichiarato al mondo la nascita del Califfato Islamico nelle aree sotto il suo controllo. L'esercito iracheno intanto va riorganizzandosi ed è già partita la controffensiva in quella che può essere definita già una guerra regionale. Turchia, Arabia, Iran e Siria sono alla finestra, mentre Usa e Russia risultano ancora divisi su tutto.
 
 
 
L'Isis comincia a fare sul serio. Nei giorni scorsi abbiamo approfondito le origini dell'organizzazione e le basi sociali ed economiche che hanno permesso al movimento islamista sunnita di avanzare la propria sfera d'influenza sino al cuore dell'Iraq. Di oggi è però un'ulteriore notizia destinata a segnare una tappa essenziale nell'evoluzione dello scacchiere mediorientale: è stata dichiarata la formazione del Califfato Islamico nei territori occupati dall’Isis a cavallo tra Iraq e Siria. Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis, è il Califfo dello Stato Islamico così costituito, la cui formazione, peraltro, è stata comunicata mediante la diffusione di un filmato su internet, proprio il giorno dell’inizio del Ramadan. 
 
Nasce così il Califfato delle aree occupate dall'Isis: una zona estesa che va dai confini con l'Iran alle aree siriane ancora sotto l'influenza dei miliziani jihadisti anti-Assad, passando per ricchi giacimenti di gas e di petrolio nel cuore del territorio iracheno. Una consolidazione territoriale, questa, che non può che rafforzare economicamente e agli occhi del mondo il ruolo di questo nuovo soggetto politico-militare e al tempo stesso che rende ancor più delineate le linee di demarcazione del conflitto radicale in corso nel mondo islamico tra sciiti e sunniti. La situazione non è facile per le popolazioni locali, ma non lo è nemmeno per le diplomazie occidentali.
 
Da anni infatti l'avanzata dell'Isis e dei suoi adepti in terra siriana sta mettendo a ferro e fuoco l'area a maggioranza sciita, e tutto sotto gli occhi del mondo, impegnato più a fare i conti con i propri interessi geopolitici che con le effettive emergenze umanitarie. Così mentre gli Stati Uniti la scorsa estate erano in procinto di bombardare Damasco (dove le donne possono girare in minigonna e studiare), ora non sembrano così smaniosi di intervenire a difesa della popolazione irachena, lasciata così alla mercè di bande di fanatici che crocifiggono e giustiziano tutti quelli che non la pensano come loro. Dall'altra parte si assiste ad un rinnovato attivismo siriano, iraniano e soprattutto russo nella lotta ai fondamentalisti iracheni: Teheran starebbe continuando ad inviare consiglieri militari e droni a Baghdad, la Russia ha messo alcuni propri caccia a disposizione del governo di Al-Maliki, mentre è notizia dei giorni scorsi che Bashar al-Assad, ormai quasi vittorioso sul fronte interno, abbia cominciato a bombardare posizioni dell'Isis in territorio iracheno. Che l'evoluzione delle cose non stia affatto bene a Turchia e paesi del Golfo, nemmeno troppo velatamente legati alla causa sunnita portata avanti dai jihadisti siriani ed iracheni, era cosa prevedibile; ciò che sorprende, invece, è che agli americani faccia più paura l'asse Damasco-Baghdad-Teheran degli estremisti musulmani alleati con al-qaeda. 

Ad esprimere la preoccupazione americana ci ha pensato Kerry che proprio nel week-end è arrivato come un condor nella capitale irachena a dare disposizioni al premier Al-Maliki. Prima una critica all'interventismo esterno di Siria ed Iran che, secondo il segretario di stato USA, potrebbe esacerbare il conflitto, poi il ricatto al governo iracheno con la richiesta di un nuovo esecutivo di coalizione con esponenti Isis. Inutile dire che Al-Maliki, forte dell’appoggio di Siria e Iran, ha rifiutato, ben sapendo che anche Mosca sarebbe molto interessata ad aiutarlo a contenere l’invasione jihadista. Il dubbio allora sorge spontaneo: possibile che gli USA non sapessero nulla sino a pochi mesi fa dell'avanzata dell'Isis e delle sue rivendicazioni jihadiste? Francamente è più facile credere che l’invasione dell’Iraq da parte dell’Isis faccia in qualche modo gli interessi americani, creando destabilizzazione nell'area e rendendo nuovamente significativo il loro ruolo di mediatori. Si perché il sodalizio politico ed economico del mondo sciita che stava andando delineandosi negli ultimi anni avrebbe potuto creare un asse tra Damasco, Baghdad e Teheran con buoni rapporti persino con Mosca. Un'alleanza che l’Occidente e i paesi del Golfo vorrebbero invece spazzare via per fare affari d’oro. I paesi sciiti infatti hanno il “vizio” di tenere alla propria sovranità, un vizio imperdonabile per gli Stati Uniti che hanno bisogno di fare affari dove e come vogliono. Del resto migliaia di miliziani sciiti iracheni hanno combattuto in Siria contro i sunniti jihadisti, e oggi Damasco vuole semplicemente fare altrettanto ora che ha quasi vinto la guerra civile. Sarà un caso che proprio Al-Maliki nei mesi scorsi aveva parlato di stringere legami con la Russia acquistando velivoli e mezzi militari?
 
Ad ogni modo, mentre nelle stanze segrete dei governi si intessono relazioni diplomatiche e si gioca una guerra di nervi destinata a produrre solo il perdurare dell'immobilismo occidentale, nelle strade la guerra civile si fa sempre più cruenta e la gente continua a morire.  I miliziani del Califfato, inspiegabilmente lasciati prosperare dall’Occidente nei mesi scorsi, nelle scorse settimane hanno continuato la loro avanzata verso Baghdad e si sono attestati a Mansuriya, nella regione orientale di Diyala nel nord-est del Paese, conquistando anche Tikrit, vecchio feudo di Saddam Hussein e luogo che aveva dato i natali all'ex dittatore. Si troverebbero ora a meno di un’ora da Baghdad e hanno lasciato dietro di sé una lunga scia di cadaveri. Testimonianze parlano di combattimenti casa per casa migliaia di sfollati. Civili in fuga anche a Mosul nella provincia di Ninive dove, secondo l’Agenzia Onu per i Rifugiati sarebbero scappate oltre 10.000 persone, quasi tutte cristiane, per cercare la salvezza nel Kurdistan iracheno, a Erbil, dove i miliziani curdi difendono la popolazione dai jihadisti, che sparano con i mortai sulle abitazioni e hanno già giustiziato centinaia di innocenti. 

Dopo un iniziale sbandamento l’esercito iracheno, rinforzato da paramilitari sciiti e dagli aiuti di Iran e Russia, ha lanciato una grande controffensiva di terra proprio sulla direttrice di Tikrit  la cui periferia è stata riconquistata da colonne di blindati dell’esercito regolare. Secondo un comunicato del Ministero della Difesa iracheno le forze armate avrebbero liberato dalle forze ribelli la strada che da Samarra porta a Tikrit e i villaggi circostanti. Tutto questo mentre da Mosca sono in arrivo diversi caccia Sukhoi per permettere a Baghdad di bombardare le postazioni dell’Isis.

Insomma, a guardare il numero di morti che cresce ogni giorno e le convergenze delle alleanze, il conflitto è lontano da una soluzione. Non è esagerato dire, infatti, che la guerra è in propagazione in tutto il Medio Oriente, tanto che in molti iniziano a parlare di conflitto regionale. Molto dipenderà dal ruolo giocato dalle forze esterne all'Iraq: Siria ed Iran da una parte, Turchia e paesi del Golfo dall'altra. Sullo sfondo ancora divisi su tutto Russia e Stati Uniti.

Iraq: attivisti, l'Isis ha ucciso

decine di sciiti nel nord-est

"Massacro compiuto tra il 12 e il 13 giugno"

 

  Ansa - 26 giugno 2014

 

Decine di civili, tra cui donne e anziani, sono stati uccisi in un villaggio nel nord-est dell'Iraq da miliziani qaedisti. Lo riferisce l'Alta commissione irachena per i diritti umani, a conferma di quanto già affermato da fonti locali e riportato nei giorni scorsi dalla stampa filo-governativa. Secondo le fonti, tra il 12 e l3 giugno scorso, miliziani dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis) sono penetrati nel villaggio di Bashir, nella provincia di Kuz Khurmatu, tra Baghdad e Kirkuk, e hanno ucciso sul posto un numero ancora imprecisato di civili. Le fonti non hanno ancora prodotto una lista delle vittime né mostrato foto dei cadaveri. 

 

Il premier iracheno Nuri al Maliki non esclude di farsi da parte come capo del prossimo governo e di lasciare spazio a uomini comunque vicini a lui e al suo principale sponsor, l'Iran. Lo riferiscono all'ANSA fonti politiche a Baghdad vicine ai negoziati in corso tra i maggiori leader sciiti locali per la formazione del nuovo esecutivo dopo le elezioni legislative del 30 aprile scorso.  

 

Le fonti del Consiglio islamico iracheno, guidato da Ammar al Hakim, hanno precisato che il blocco politico di Maliki "sta mostrando maggiore flessibilità nell'ipotizzare di non occupare il posto di premier". Questo atteggiamento più morbido, affermano le fonti, è frutto delle pressioni americane su Maliki, in particolare dopo la recente visita del segretario di Stato Usa John Kerry a Baghdad.  

 

Maliki, che ha già governato per due mandati, avrebbe pensato come futuro premier a Falih Fayyad, attuale consigliere per la Sicurezza nazionale e uno degli uomini più vicini all'attuale capo del governo. Il prossimo 1 luglio è prevista la prima seduta del nuovo parlamento iracheno ma i leader politici sciiti intendono concludere i negoziati per il governo prima di quella data. In caso contrario, affermano le fonti, la seduta sarà posticipata.   

 

Proprio ieri Maliki aveva espressamente respinto l'ipotesi di creare un governo di emergenza nazionale affermando che questo costituirebbe "una spallata alla costituzione".    

 

In un'intervista alla Bbc Maliki ha riferito che i raid siriani al confine con l'Iraq sono stati condotti in territorio siriano, e non iracheno. In una prima versione del colloquio aveva attribuito a Damasco gli attacchi dei giorni scorsi in territorio iracheno. Maliki ha precisato di avere accolto favorevolmente i raid dell'aviazione di Damasco, condotti dopo che gli insorti dell'Isis avevano preso il controllo della città irachena di Al-Qaim, al confine siriano.

 

 Iraq: Bbc, jihadisti prendono il controllo di Rutba

 

 

Sette persone sono state uccise. Da 2 settimane le forze

di sicurezza irachene stanno cercando di riconquistare la città

 

   Ansa - 23 giugno 2014

 

Militanti sunniti hanno preso il controllo di un'altra città della provincia occidentale di Anbar: secondo quanto riporta la Bbc online, i miliziani dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis) hanno conquistato Rutba, una città a 150 km a est del confine con la Giordania. Gli insorti, ha detto un loro portavoce alla Bbc, intendono prendere il controllo dell'intera regione di Anbar a maggioranza sunnita. Rutba ha una posizione strategica poiché si trova sulla strada principale tra Baghadad e la Giordania. Le forze irachene si sono ritirate intanto da tre città dell'ovest del Paese oggetto di un'offensiva degli insorti sunniti: Al-Qaim, Rawa e Aana.

 

Le forze irachene si sono ritirate, con una manovra definita "tattica", da tre città dell'ovest del Paese oggetto di un'offensiva degli insorti sunniti. "Le unità militari si sono ritirate (da Al-Qaim, Rawa e Aana) per essere ridistribuite", ha detto il generale Qassem Atta, mentre sette persone sono state uccise in un raid aereo su Tikrit, città del nord caduta nelle mani dei jihadisti che da due settimane le forze di sicurezza irachene stanno cercando di riconquistare. Intanto militanti sunniti hanno preso il controllo di un'altra città della provincia occidentale di Anbar: secondo quanto riporta la Bbc online, i miliziani dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis) hanno conquistato Rutba, una città a 150 km a est del confine con la Giordania. Gli insorti, ha detto un loro portavoce alla Bbc, intendono prendere il controllo dell'intera regione di Anbar a maggioranza sunnita. Rutba ha una posizione strategica poichè si trova sulla strada principale tra Baghadad e la Giordania.

 

Iraq. Continuano gli scontri con l’Isil:

Baghdad chiede aiuto agli Usa. Che tentennano

 

   notiziegeopolitiche.net  di Guido Keller - 19 giugno 2014

isil iraq grande

 

Continuano gli scontri in Iraq fra i militari e i miliziani dell’Isil, il gruppo legato ad al-Qaeda dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che nei giorni scorsi ha preso il controllo di diverse città irachene, fra le quali Mosul e Tikrit, mentre Fallujah è stata conquistata in gennaio: dopo che i peshmerga della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sono riusciti a cacciare gli jihadisti da Tirkuk, oggi i militari di Baghdad hanno ripreso il “pieno controllo” del complesso di raffinerie di Baiji, 210 chilometri a nord di Baghdad, attaccato nei giorni scorsi dai miliziani dell’Isil, i quali hanno in parte distrutto le riserve petrolifere e si sono aperti la strada con colpi di mortaio e l’impiego di mitragliatrici per penetrare nell’enorme struttura.


Diverse compagnie come Bp, e Exxon Mobil hanno predisposto l’evacuazione dei propri staff, mentre Eni ha comunicato che “la sicurezza del nostro personale è la prima priorità e continuiamo a monitorare da vicino la situazione in Iraq. Al momento, la regione di Bassora, dove è situato il giacimento di Zubair, non è toccata dalle rivolte e stiamo mantenendo sul posto il personale essenziale”.


L’Isil ha comunque ancora il controllo di tre villaggi conquistati nella provincia di Salaheddin, dove si trova Baiji, ovvero Albu Hassan, Birwajli e Bastaml.
L’annuncio della vittoria della battaglia è stato dato dal generale Qassim Atta, portavoce per la sicurezza del primo ministro Nuri al-Maliki, ma a Baghdad si è consci della necessità di un intervento esterno per sconfiggere i miliziani. Per questo motivo il ministro degli Esteri Hoshyar Zebari ha reso noto che “Abbiamo chiesto ufficialmente a Washington di aiutarci, nel quadro dell’accordo per la sicurezza tra i due Paesi, e di effettuare raid aerei contro i gruppi terroristici”.
L’amministrazione Obama non ha ancora risposto alla richiesta di soccorso delle autorità di Baghdad, ed ancora non si hanno notizie certe dei droni che, si era detto, stanno sorvolando il paese, come pure di un intervento iraniano in qualche modo “benedetto” dagli americani. Per ora, come ha comunicato lo stesso presidente, invieranno ”un piccolo numero di consiglieri militari, fino a trecento”, ovvero  ”non manderemo i nostri soldati a combattere, ma aiuteremo”.
Certo è che il senatore repubblicano Mitch McConnell, che si è incontrato con Obama, ha detto ai media che il presidente non ha bisogno del nulla osta del Congresso per ordinare un’azione militare in Iraq, ed il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha spiegato che sono in fase di valutazione diverse ipotesi: “Al momento – ha osservato Carney – non vediamo grossi danni alle strutture petrolifere”; il capo di Stato maggiore Usa, Martin Dempsey, ha addossato al premier iracheno la “colpa” della rivolta sunnita che sta insanguinando il Paese e ha osservato che gli Usa possono “fare poco per colmare il vuoto in cui il governo ha fatto precipitare il suo popolo”, ha confermato che l’Iraq ha chiesto agli Usa di bombardare le posizioni dell’Isil. Si è mostrato cauto a causa delle difficoltà che ci sarebbero nell’individuare chiaramente gli obiettivi di eventuali raid.


Parlando al telefono con il premier Nouri al-Maliki, il vicepresidente Usa, Joe Biden, ha sottolineato la necessità che le autorità di Baghdad governino in maniera inclusiva, promuovendo la stabilità e l’unità nazionale contro la minaccia dell’estremismo.


Una titubanza, insomma che nel 2001, quando si è trattato di invadere l’Iraq con la scusa di inesistenti armi di distruzioni di massa, non c’era.
Com’è sempre in questi casi, la situazione si presenta drammatica specialmente sotto il profilo umanitario: sarebbero infatti un milione e mezzo i profughi in fuga, diretti a Baghdad o nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, che già con impegno accoglie i profughi siriani; a Tikrit, occupata dall’Isil, nei bombardamenti governativi è stato colpito un ospedale di Medici senza frontiere, come ha denunciato la stessa Ong, informando che 40mila sfollati non potranno ricevere assistenza.

 

La strategia dei jihadisti iracheni sui social network

 

 

   Internazionale 18 giugno 2014


Miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante a Baiji, in Iraq. (YouTube/Afp)

 

I jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) usano Twitter e in generale i social network come strumento di propaganda. Sempre più spesso negli ultimi anni i gruppi estremisti hanno usato la rete per scavalcare i mezzi d’informazione tradizionali e controllare il loro messaggio, fare proseliti e raccogliere fondi. L’Isil è una delle organizzazioni terroristiche che riesce meglio a usare i social network e lo fa con una strategia ben precisa, spiega The Atlantic.

 

Uno dei prodotti di maggiore successo usati dall’Isil è un’app in arabo chiamata Alba. L’applicazione tiene aggiornati gli utenti sulle attività del gruppo.

 

Centinaia di persone hanno scaricato l’app per Android da Google Play. Al momento dell’istallazione l’app raccoglie informazioni personali degli utenti. Inoltre richiede l’autorizzazione a usare in automatico l’account su Twitter di chi la scarica. In questo modo l’Isil può postare i suoi contenuti su molti account personali. L’app è stata lanciata ad aprile del 2014 e durante l’ultima offensiva, lanciata all’inizio di giugno, l’attività si è molto intensificata. Il giorno della presa di Mosul, nel nord dell’Iraq, sono stati postati 40mila tweet.

 

Il 15 giugno centinaia di utenti dell’app dell’Isil hanno cominciato a postare dei tweet con la foto di un jihadista che mostrava una bandiera con scritto: “Baghdad, stiamo arrivando”. Il numero di tweet con questa immagine è stato talmente alto che qualsiasi ricerca della parola Baghdad su Twitter generava tra i primi risultati la foto del jihadista con la bandiera.

 

Ma l’app è solo uno degli elementi che contribuiscono al successo dello Stato islamico sulla rete. Un altro è l’uso costante ed efficace degli hashtag su Twitter.

 

Gli hashtag proposti dagli account di Twitter dell’Isil hanno più successo di quelli usati da un altro gruppo islamista attivo in Siria, il Fronte al nusra. L’Isil riesce spesso a imporre i suoi hashtag come trending topic su Twitter. Secondo l’Atlantic a febbraio un hashtag dell’Isil è stato usato anche diecimila volte al giorno, mentre gli hashtag del Fronte al nusra venivano usato tra le 2.500 e le 5.000 volte al giorno.

 

L’Atlantic sostiene che il successo della propaganda dell’Isil online dimostri chiaramente le competenze e le tecnologie all’avanguardia a disposizione dell’Isil, competenze tali “da far impallidire un guru dei social network di una grande azienda statunitense”.

 

In fuga da Mosul

 

    Internazionale 10 giugno 2014


Auto in fila al posto di blocco di Aski Kalak per fuggire dalle violenze nella provincia di Ninive, in Iraq. (Safin Hamed, Afp)

 

Secondo alcune stime almeno 150mila persone avrebbero lasciato Mosul, nel nord dell’Iraq, per fuggire dai combattimenti tra le milizie jihadiste dello Stato islamico dell’Iraq e del levante (Isil) e l’esercito regolare. Mosul è la seconda città del paese con una popolazione di 1,8 milioni di persone e nella notte tra il 9 e il 10 giugno è stata conquistata dalle milizie antigovernative che hanno preso d’assalto i commissariati di polizia, il palazzo del governo locale e alcune carceri.

 

I militari dell’esercito iracheno hanno deposto le armi e disertato dopo giorni di combattimenti, lasciando la città nelle mani dei ribelli.

Secondo il racconto di un profugo che ha lasciato la città il 10 giugno, intervistato da Itv news, le strade della città sarebbero sotto il controllo dei ribelli e nessun militare o poliziotto sarebbe più presente in città.

 

“La situazione è caotica, non c’è nessuno che ci aiuti, non c’è l’esercito né la polizia a Mosul”, ha detto il testimone.

 

I combattenti jihadisti

prendono il controllo di Mosul


Un gruppo di soldati iracheni a Najaf in attesa di essere mandati a Mosul l’8 giugno. (Haidar Hamdani, Afp)

 

Mosul è la seconda città dell’Iraq e il 10 giugno è stata conquistata dai combattenti jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del levante (Isil) che hanno costretto l’esercito iracheno ad abbandonare il suo quartier generale in città. L’attacco è avvenuto durante la notte, i jihadisti hanno preso il controllo di tutti i quartieri occidentali della città, della sede del governo provinciale, hanno distrutto dei commissariati di polizia e hanno liberato circa tremila prigionieri da tre carceri. Il governatore della città Atheel Nujaifi ha chiesto ai cittadini di prendere le armi e combattere i ribelli. Le milizie controllano anche alcune parti della provincia di Ninive.

 

La città si trova 350 chilometri a nord di Baghdad e durante la guerra è stata una roccaforte delle milizie antigovernative. È la seconda città, dopo Falluja, su cui il governo ha perso il controllo dall’inizio dell’anno.

 

Dopo la perdita di Mosul, il primo ministro iracheno Nuri al Maliki ha chiesto al parlamento di dichiarare lo stato d’emergenza in tutto il paese.
Maliki ha detto: “Non permetteremo che Mosul sia sotto il controllo dei terroristi. Chiediamo alle organizzazioni internazionali di sostenere l’Iraq. Il mondo intero si deve preoccupare della diffusione del terrorismo”.

 

Il presidente del parlamento iracheno Osama Nujaifi ha dichiarato che Mosul, considerata la città più importante dell’Iraq settentrionale, è caduta sotto il controllo dei terroristi.

 

 

 

 

Iraq: massacro continua dopo 10 autobomba Baghdad

 

72 morti in 24 ore in zone sciite.

Timori ripresa guerra civile

 

Ansa 21 luglio 2013, 22:29

 

Iraq: massacro continua dopo 10 autobomba Baghdad

Ramadan di sangue in Iraq: almeno 12 persone sono state uccise oggi dopo che ieri sera una micidiale serie di ben dieci autobomba esplose in meno di un'ora avevano insanguinato il pasto serale che rompe il digiuno a Baghdad in quartieri a prevalenza sciita, con un bilancio di almeno 60 morti.

 

A Taji, 25 chilometri a nord della capitale, oggi due ordigni sono esplosi vicino a una base militare uccidendo tre persone. Quattro morti in almeno due attentati alla periferia di Baghdad mentre nel Kurdistan, a nord, cinque arabi che servivano nelle unità combattenti peshmerga curdi sono stati massacrati a un posto di blocco. Ieri sera, quando la gente si è riunita per l'Iftar, almeno dieci auto imbottite di esplosivo sono deflagrate in serie in mezzo alla gente uscita di casa in alcune delle più affollate strade commerciali di Baghdad, massacrando - secondo un bilancio provvisorio - almeno 60 persone e ferendone oltre 190.

 

Gli attentati hanno colpito tutti quartieri a predominante popolazione sciita: quattro nel sud della capitale irachena, due nel centro, nel trafficato quartiere di Karrada, pochissimi minuti l'una dall'altra, due nei quartieri del nord, fra cui Tobchi, e due nel sobborgo di Madain, a est.settentrionale di Baquba.