Radio Siani ed il Coordinamento Giornalisti
Precaridella Campania insieme
per dare voce alla città
Appuntamento per venerdì 7 marzo al bene confiscato alla camorra "Casa del Giornalista", sito in vico Caricatoio ai Cariati 7 e 8 (Napoli). Con Radio Siani per la diretta radiofonica di “La radio alza la voce”.
fanpage.it – 5 marzo 2014
![Radio Siani ed il Coordinamento Giornalisti Precari della Campania insieme per dare voce alla città.](https://static.fanpage.it/socialmediafanpage/wp-content/uploads/2014/03/Locandina_la_radio_alza_la_voce-300x225.jpg)
Ricevo e pubblico volentieri l’iniziativa organizzata dagli amici di Radio Siani ed il Coordinamento Giornalisti Precari della Campania. Continuano gli incontri culturali e pubblici promossi dal Coordinamento giornalisti precari della Campania presso la ‘Casa del Giornalista’. Venerdì 7 marzo, le porte del bene confiscato alla camorra, sito in vico Caricatoio ai Cariati 7 e 8 (Napoli), si aprono a Radio Siani. Per l’occasione, dal bene comune sarà condotta “La radio alza la voce”, una trasmissione radiofonica ‘fuori dal comune’. I microfoni saranno on air dalle ore 11.
Associazioni, movimenti, comitati, studenti e cittadini sono così invitati a impossessarsi dello spazio radiofonico. Un modo, questo, per vivere un luogo fisico restituito alla città e per esprimersi valicando i confini dei Quartieri Spagnoli.
“Come abbiamo spesso sottolineato noi ci poniamo come megafono di tutte le realtà che operano sul territorio e sui temi a noi cari”, dichiara Giuseppe Scognamiglio, presidente di Radio Siani. “Sono ormai tre anni che collaboriamo col Coordinamento giornalisti precari della Campania e siamo felici di poter entrare nel cuore della città di Napoli, come i Quartieri Spagnoli, dove c’è il bene confiscato a loro affidato, per dare ancora più voce alla città”. Con “La radio alza la voce” il Coordinamento giornalisti precari della Campania e Radio Siani danno il via ad una serie di esperienze per dimostrare che un altro modo di fare informazione e comunicazione è possibile.
Se non conoscete Radio Siani, potere guardare questo reportage sulle attività di questi grandi ragazzi.
L’Italia recepisce finalmente la Direttiva sul rilascio
del pds CE ai titolari di protezione internazionale.
In vigore dall’11 marzo
Il testo del decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale
meltingpot.org - 5 marzo 2014
Con un ritardo ingiustificabile l’Italia ha recepito nel suo ordinamento la Direttiva 51/CE/2011. La data ultima per il suo recepimento era lo scorso 20 maggio 2013. Da quel momento però la direttiva ha comunque operato proprio per gli obblighi sottoscritti dall’Italia in base agli accordi europei che introducono il principio del self executive.
Moltissime domande sono arrivate alle Questure che però hanno risposto nelle maniere più disparate.
Ora, con l’entrata in vigore del D.lgs n. 12 del 13 febbraio 2014, operativo dall’11 marzo, viene fatto ordine all’interno del Testo Unico Immigrazione.
Le modifiche riguardano gli articoli 9 e 9 bis ed introducono appunto la possibilità, per i titolari di protezione internazionale, di chiedere il rilascio del permesso di lungo periodo di durata illimitata, che consente la circolazione ed il soggiorno in altri Stati europei a seconda delle condizioni previste da quest’ultimi.
Il tema della circolazione europea di migranti e rifugiati è al centro di un acceso dibattito da lungo tempo. Le regole imposte dai regolamenti di Schengen e Dublino (anche nella sua ultima versione), si configurano come ostacoli insormontabili, sia pe rla realizzazione dei progetti di vita dei migranti, che per le capacità di alcuni stati, Italia in primis, di rendere efficaci i loro percorsi di inserimento (senza dimenticare le colpe del sistema italiano).
Il recepimento della direttiva cerca di dare una risposta parziale a questo bisogno, ma al tempo stesso appare insufficiente a dar corpo ad una vera libera circolazione. In primo luogo per i requisiti richiesti.
Il decreto infatti, pur esonerando i richiedenti dalla disposizione che prevede il superamento di un test di lingua e dalla dimostrazione del possesso di un alloggio idoneo, mantiene le due principali condizioni previste dall’art. 9. Ferma restando la necessità di indicare un luogo di residenza, i titolari di protezione internazionale che vorranno accedere al titolo di lungo periodo avranno la necessità di dimostrare un reddito annuo almeno pari all’importo dell’assegno sociale e soprattutto un soggiorno in Italia quinquennale. In particolare quest’ultimo impone comunque un percorso di accoglienza in Italia.
Ma anche per chi potrà accedervi la vita non sarà comunque facile. Perchè il se è vero che il permesso CE permette di circolare, soggiornare e lavorare in altri paesi UE per tre mesi, chi vorrà assicurarsi un soggiorno in un altro stato dovrà comunque sottostare alle condizioni previste per il rilascio di un permesso in quel paese che, come nel caso dell’Italia, potrebbero imporre un "passaggio" attraverso le quote.
In ogni caso il decreto specifica che il computo dei cinque anni di soggiorno dovrà tener conto della data di presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Per alcune categorie, quelle vulnerabili, come minori, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, concorrerà alla dimostrazione di un reddito sufficiente, anche un alloggio concesso a fini assistenziali o caritatevoli, per la misura massima del 15%. Sui pds CE rilasciati dovrà comparire la dicitura "titolari di protezione internazionale".
Ostinati come asini,
per essere “nuovi italiani”
unimondo.org di Anna Molinari - 19 Febbraio 2014
Roma, via Ostiense, zona Garbatella. Ci arrivo a piedi da casa dopo una passeggiata nel sole freddo di una mattina d’inverno, tra sterpaglie secche, murales colorati e instabili tetti di latta che fanno da riparo per insolite fattorie Lungotevere, dove uomini e animali si dividono lo spazio rimasto. È il mio primo giorno di volontariato in una scuola di italiano per stranieri, una come tante, immagino, quando li contatto al telefono per chiedere di poterli frequentare mentre il servizio civile volge al termine.
E invece, in quel giorno di sole di qualche anno fa, ho conosciuto Asinitas Onlus. Una scuola di italiano per stranieri come ce ne sono tante in effetti, ma forse non proprio. E l’ho capito fin da quando sono entrata in quella grande sala con tanti disegni appesi ai muri. I banchi e le sedie tutti su un lato, impilati in ordine, perché, dopo la colazione insieme nella piccola cucina in fondo a sinistra, la prima cosa da fare è un gioco. In cerchio, per rompere il ghiaccio, per conoscersi e ripetersi i propri nomi (perché non sempre gli studenti sono gli stessi, c’è sempre qualcuno di nuovo, e perché i nomi di così tante lingue vanno ripetuti, assaporati).
Si fa realtà qui l’idea che la scuola sia uno spazio creativo dove costruire relazioni di uguaglianza tra diversi, sulla base di un’ospitalità intrecciata a rituali di scambio reciproco, doni e contro doni. E un gioco sembra il modo giusto per cominciare a sciogliere nodi stretti in luoghi e tempi a volte troppo lontani tra loro e lontani da qui, nodi stretti troppo violentemente per essere liberati così in fretta, perché sono ancora troppo vicine le fughe, i maltrattamenti, le violenze, le nostalgie da cui scappare e che non possono essere dimenticate.
Nella stanzetta più piccola ci sono i volontari che seguono il corso base di lingua italiana, sillabe, suoni che si sormontano, accenti buffi e timidi sorrisi, e soddisfazione orgogliosa quando si capiscono le prime parole che mettono senso in una frase. Nella stanza grande invece si coltiva la lingua attraverso i laboratori per il dolore dell’anima. Ci si cala dentro parole nuove con un lavoro di auto-narrazione che spesso ha a che fare con i testi delle fiabe, così importanti in tante culture per unire la tradizione e la modernità, per stringere insieme le generazioni. E allora ci sediamo in cerchio, una narrazione che circola dentro quella geometria senza spigoli, affrontando un tema per volta, la famiglia, la casa, il viaggio, raccolte di delusioni e speranze, biografie e dolori. Il lavoro di Asinitas è quello di promuovere attraverso i principi dell’educazione attiva contesti di educazione che siano prima di tutto luogo di accoglienza e cura, ambienti di crescita individuale e comunitaria, che aiutino a socializzare, a imparare, a discutere di temi di cui spesso rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono loro malgrado protagonisti e testimoni.
L’anno prima del mio arrivo, in questa scuola è nato ed è stato girato il documentario “Come un uomo sulla terra“ (2008). Non è l’unica produzione sostenuta da Asinitas, che ha supportato molti altri lavori realizzati anche grazie ai laboratori di formazione e alla collaborazione di alcuni degli studenti della scuola stessa, e resi con la sensibilità e la delicatezza che li contraddistingue anche quando gli argomenti tagliano come vetri infranti. Da C.A.R.A. Italia a Una scuola italiana, da Le parole che scrivo a Il viaggio inciso, la lista è lunga. Educazione, racconti, lavoro, sostegno psicologico e sociale: quattro aree di intervento che abbracciano la persona nei suoi bisogni fondamentali in un percorso che accompagna all’autonomia, orienta, invita all’espressione a tutto tondo della propria personalità. Uno sprofondare nelle radici ma anche nel territorio, che vede insegnanti, volontari e studenti partecipare a manifestazioni, comitati e attività, e impegnarsi nella diffusione di inchieste radiofoniche, giornalistiche e video fotografiche, nell’allestimento di spettacoli teatrali e musicali e di mostre. Azioni necessarie, se vogliamo promuovere una cultura della convivenza assieme allo sviluppo di un senso di consapevole critica. Perché li chiamiamo “nuovi italiani”, ma assieme alle battaglie sulla cittadinanza non possiamo dimenticare la principale sfida da cui (re)iniziare: una vita nuova che fiorisca su un passato che, se non è possibile dimenticare, possa almeno non far inciampare in questo continuo sforzo di incamminarsi al futuro.
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Padova - L’odissea dei rifugati trovati in
un container: picchiati in Grecia, denunciati
in Italia per il reato di clandestinità
Affidati al business dell’accoglienza rischiano
ora una riammissione in Grecia dove hanno
subito violenze dai militanti di Alba Dorata
meltingpot.org di Nicola Grigion - 19 febbraio 2014
Raggiungere l’Italia era molto più che un sogno: forse una necessità vitale, probabilmente l’unica scelta. Difficile pensare che, altrimenti, pur di attraversare la frontiera, i quindici ragazzi africani trovati senza fiato in un vagone merci carico di sementi, in provincia di Padova, avrebbero accettato di pagare per un viaggio di quattro giorni che avrebbe potuto farli arrivare senza vita.
Quaranta centimetri di spazio vitale, una coperta, qualche bottiglia d’acqua e una trattativa con un trafficante pakistano senza scrupoli che li ha "imbarcati" come un carico di merce umana per spedirli dalla Serbia all’Italia, passando per Villa Opicina, fino a S.Martino di Lupari, nel padovano, dove finalmente hanno potuto riempire ancora i polmoni d’aria, dopo che gli operai della ditta Agriservice hanno aperto le porte di quella che poteva trasformarsi in una tomba a rotaie.
La loro odissea è diventata una notiza solo quando hanno rivisto la luce, ma la fuga è iniziata ben prima, ben più lontano, e quel che è peggio, rischa di non essere ancora finita.
Questa invece non è una notiza. Perché l’Italia sa regalare a richiedenti asilo e rifugiati, anche quelli che non annegano in mare, le peggiori angherie. Solo poche ore prima un gruppo di famiglie siriane era stato intercettato mentre camminava lungo una statale nei pressi di Rovigo. Le mappe delle città di tutta la penisola sono costellate da una una geografia di luoghi, piccoli e grandi rifugi, dove chi è stato abbandonato dalle istituzioni trova riparo. A pochi passi da Padova, al Porto di Venezia, senza le luci dei riflettori che illuminano Lampedusa, si consumano quotidiane violazioni, con silenziosi respingimenti ai danni di centinaia di ragazzini afghani e curdi che rischiano ogni anno la morte per raggiungere l’Italia nascosti dentro i camion provenienti dalla Grecia. Poco più a nord, a Gradisca d’Isonzo, in un un luogo chiamato Centro di Accoglienza per richiedenti Asilo e Rifugiati (CARA), vengono confinati per mesi centinaia di migranti in fuga, in attesa di una risposta sulla loro domanda d’asilo. Sono solo alcuni esempi, fotografie di un sistema che non funziona, viziato dal "peccato originale" del contrasto all’immigrazione irregolare.
Per questo la storia di questi quindici ragazzi non è che una tra le tante, una delle migliaia di biografie che raccontano la crudeltà delle politiche europee del confine ed allo stesso tempo il fallimento di ogni strategia di accoglienza di questo Paese.
Nelle scorse ore la notiza del loro ritrovamento ha dominato la scena nei quotidiani e nei notiziari locali. In molti, giornalisti e non, hanno cercato informazioni sul loro destino, ma una coltre di fumo sembra avvolgere questa storia. Nessuno deve sapere. Perché?
Noi siamo riusciti ad incontrare i giovani africani meno di ventiquattrore dopo il loro arrivo per iniziare a fare un pò di luce su quella che rischia di trasformarsi nell’ennesima ombrosa vicenda di diritti violati e affari sporchi.
Ci sediamo al tavolo di un bar e ci mostrano un pezzo di carta. Il primo ed unico documento che hanno ricevuto dalle autorità italiane è un verbale redatto dai Carabinieri del Comando di Cittadella "in qualità di persone sottoposte ad indagine". E’ una denuncia ai sensi dell’art. 10 bis del D.lgs 286/98, il Testo Unico immigrazione: ingresso e soggirono irregolare. Sono accusati del reato di clandestinità quel fastidioso stigma che perfino l’attuale Govero ritiene dannoso e "abrogabile".
Il viaggio
A ritroso, ripercorriamo allora le loro storie che ci portano nel Nordest della Nigeria, una zona investita da un’impressionante escalation di violenze, distrutta da un conflitto armato senza fine, un territorio devastato che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugati, numerose organizzazioni internazionali ed la stessa Farnesina, ritengono ad alto rischio. E’ da lì che molti di loro sono partiti.
Qualcuno si è mosso in aereo, altri invece hanno camminato verso il Mali, oppure, sempre attraversato il Niger, hanno raggiunto la Libia, da dove si sono imbarcati per l’Europa finendo però in Turchia. Da qui hanno dovuto intraprendere un nuovo viaggio attraverso le frontiere. Ma prima di raggiungere la Serbia, passando per Albania e Montenegro, prima di conoscersi, prima di salire su quel vagone partito da Sid, che ha rischiato di essere il loro ultimo letto, ognuno di loro ha fatto tappa in Grecia: un nodo cruciale della loro avventura, di quella che li ha portati fin qui e, probabilmente, anche di quella che li aspetta.
Il primo e unico pezzo di carta dalle autorità italiane è la denuncia per il reato di clandestinità
Proprio in Grecia le loro storie si sono incrociate nuovamente: nei centri di detenzione dove ogni diritto è carta straccia, nel paese in cui le percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato rasentano lo zero, lì dove la crisi morde più che in altri luoghi, in uno stato dove la guerra ai blacks è diventata caccia all’uomo, nella periferia dell’Europa monetaria, verso cui anche il Consiglio di Stato italiano ha dichiarato la necessità di sospendere i trasferimenti, pena il rischio di danni irreparabili.
Per un anno e mezzo hanno vissuto da carcerati. Alcuni hanno attraversato tre o quattro campi di detenzione diversi in attesa di conoscere il loro destino e riprendere il cammino. Poi la Polizia greca li ha liberati con un mese di tempo per lasciare il paese. Hanno raggiunto Atene, hanno vissuto senza cibo e senza un luogo dove riposare ed è qui che hanno sperimentato sulla loro pelle tutta la violenza delle bande razziste di Alba Dorata, il partito che negli ultimi anni ha preso il largo in Grecia. Sono stai pestati violentemente e molti di loro portano ancora i segni di quelle notti passate all’ombra del Pantheon alla ricerca di un luogo dove ripararsi, prima ancora che dal freddo, dalle ronde dei neo-nazisti.
Ma molto probabilmente le cicatrici delle violenze non sono gli unici segni che si portano dietro. Perché quel passaggio in Grecia potrebbe riportarli indietro. Infatti, secondo il regolamento Dublino, che individua lo Stato competente ad esaminare una domanda d’asilo, non è possibile presentare una nuova richiesta di protezione internazionale in un Paese UE diverso da quello di ingresso. Una vera e propria gabbia imposta ai migranti.
Sulla richiesta, che nelle prossime ore, salvo imprevisti, presenteranno in Questura, dovrà quindi pronunciarsi l’Unità Dublino. Neppure è il caso di ricordare che un eventuale "respingimento" dei richiedenti sarebbe una gravissima violazione dei loro diritti vista anche la copiosa mole di giurisprudenza che evidenzia i rischi causati da eventuali rimpatri in Grecia.
Picchiati dalle ronde di Alba Dorata. Il Regolamento Dublino potrebbe riportarli indietro
Intanto i quindici ragazzi sono qui, ancora una volta a chiedersi che ne sarà di loro, mentre ancora nessuno ha voluto ascoltare la loro storia.
Eppure, dopo essere stati liberati da quei vagoni infernali ed essere stati portati in ospedale, ci sarebbe stato tutto il tempo, almeno lo stesso impiegato per scivere la denuncia, per raccogliere la loro domanda d’asilo.
Una volta usciti dall’opedale invece sono stati trasferiti a Padova dove hanno trascorso la notte.
Ed è qui che si apre un altro capito piuttosto buio ed inquietante di questa storia.
Perché sono stati alloggiati presso la tristemente famosa "Casa a Colori", un ostello che all’occorrenza, di emergenza in emergenza, diventa la soluzione utile per sfrattati e rifugiati, lo stesso che, tra il 2011 ed il 2012, aveva ospitato circa novanta "profughi" provenienti dal Nordafrica, con un compenso di circa 46 euro giornalieri ricevuto dall’ente per ognuno di loro. Un gruzzoletto di oltre un milione e mezzo di euro messo in cassa sulla pelle dei migranti.
Per tutta la giornata, sollecitati dalla stampa, i responsabili dell’ente gestore hanno negato la presenza dei quindici e negli uffici di via del Commissario sono regnati incertezza e timori che non hanno fatto altro che allungare ulteriori ombre su questa storia. Ninete cibo e niente vestiti, nessuna informazione. A che titolo Casa a Colori potrebbe infatti ospitare dei richiedenti asilo? Non si tratta certo di un ente con competenza in materia e neppure risulta essere inserito nei nuovi progetti del Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati recentemente approvati dal Ministero dell’Interno.
Una delle potenziali risposte sta nella circolare che lo stesso Viminale ha diramato negli scorsi mesi. Le indicazioni che contiene assomigliano ad un’edizione leggermente rivista della fallimentare esperienza dell’Emergenza Nordafrica. La nota del Ministero chiede infatti alle Prefetture, saltando ancora il sistema SPRAR e senza prevedere neppure lontanamente gli standard minimi da questo previsti, di individuare, nell’ambito del "privato sociale", strutture ed enti che possano ospitare i richiedenti asilo fuori dai circuiti ufficiali, dietro un compenso di 30 euro giornalieri che, è bene ricordarlo, non finirebbero in nessun caso nelle tasche dei migranti.
Facile immaginare che chi in passato, proprio grazie al business dell’accoglienza, è riuscito a risanare il proprio bilancio, veda in questo nuovo affare una grande occasione di speculazione.
Ancora a gonfiare il business sui migranti
Diversamente, ma non siamo certo noi a dover smentire queste ipotesi, c’è da pensare che quella della Casa a Colori sia stata solo una sistemazione temporanea per la scorsa notte, in attesa che le autorità decidano il da farsi, regalandoci il solito spettacolo di scaricabarile, rimpalli, diritti violati e scelte scellerate a cui in questi anni ci hanno abituato le vicende dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Italia.
Intanto l’Associazione Razzismo Stop, insieme all’ADL Cobas ed ai movimenti per il diritto alla casa hanno lanciato una mobilitazione con migranti e rifugati per il prossimo Primo Marzo, un occasione in più per ribadire "la necessità di mettere fine al sistema di accoglienza basato su campi e centri, per costruire un sistema basato sull’ accoglienza diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionaria e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi ed insieme per riaffermare "la necessità dell’immediata abrogazione del Regolamento di Dublino che impone ai migranti di fare richiesta d’asilo nel primo stato membro in cui fanno ingresso, impedendo in tal modo alle persone di portare a compimento il proprio progetto di vita", così, come sta scritto nella Carta di Lampedusa, la dichiarazione programmatica approvata dai movimenti lo scorso 1 febbraio sull’isola.
E proprio la storia di questi quindici migranti, costretti a percorrere la difficile rotta dei balcani, ci racconta quanto Lampedusa, anche nel lontano Nordest, non sia poi così distante.
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La Carta di Lampedusa
unimondo.org di Pasquale Mormile - 27 Gennaio 2014
Sveglia! Sono le 5 del mattino, devo fare il check-in, altrimenti perdo l’aereo e a Lampedusa non è che ci si può arrivare in treno. Lampedusa è lontana, ma una volta che ci sei stato ti rimane dentro con il suo mare, lo stesso mare che ha accolto gli ultimi attimi di vita delle migliaia di persone che annegandovi hanno cercato di raggiungerne le coste, ma invano perchè Lampedusa è lontana per me che prendo l’aereo da Malpensa, ma lo è ancor di più per le barche che partono dalla Tunisia o dalla Libia, per intraprendere un “viaggio” che può durare svariati giorni e che può concludersi, come è avvenuto spesso, in tragedia con centinaia di vittime.
Avvenne così il 3 ottobre 2013, quando una di queste barche si inabissò con al suo interno ancora centinaia di persone, proprio al largo di Lampedusa. Morirono quasi in 400.
Dopo quella strage, si è costituito un gruppo informale di persone, denominato Comitato 3 ottobre – Accoglienza che promuove l’istituzione di una “Giornata italiana ed europea dell’accoglienza e della memoria” da celebrare ogni anno, proprio nell’anniversario di quel triste avvenimento.
Non solo. Tra qualche giorno, infatti, dal 31 gennaio al 2 febbraio avrà luogo a Lampedusa un evento molto importante che segna, finalmente, un impegno serio e qualificato sulla questione dei diritti umani e civili violati a causa delle pessime politiche italiane e comunitarie che regolano i flussi migratori. A questo evento parteciperanno decine di associazioni, movimenti, sindacati, giuristi, gruppi laici e religiosi, provenienti da tante parti d’Italia e da diversi paesi europei e nordafricani per scrivere assieme la Carta di Lampedusa, un patto costituente tra tutti coloro che credono nella possibilità di fondare un’Europa nuova, dove le libertà e i diritti dei suoi cittadini si fondano sul principio che nessun essere umano può essere sottoposto a violenze e detenzioni arbitrarie, né tanto meno rischiare la propria vita, solo perché ha voluto o dovuto lasciare il proprio paese per raggiungerne un altro.
Unimondo seguirà da vicino questa iniziativa dedicando l’intera settimana ai temi delle migrazioni viste da molteplici punti di osservazione, forse in grado di far comprendere che questo fenomeno è globale, che riguarda da vicino il futuro dell’umanità. Lampedusa diventa quindi un simbolo.
Nei tre giorni del forum Lampedusa sarà la capitale del Mediterraneo per affermare la sua volontà di non essere più la frontiera fortificata di un’Europa incapace di conciliare diritti di persone e cittadini, ma porto accogliente che si prende cura dei naufraghi che raggiungono le sue coste ai quali viene negata la libertà perchè non in possesso di un documento. Dopotutto, che documentazione può possedere una donna incinta costretta a scappare dalla Somalia che prima di rischiare la traversata in mare, senza saper nemmeno nuotare in caso di necessità, ha già attraversato il deserto nel disperato tentativo di salvare se stessa e la vita che porta in grembo?
Sono felice di poter essere testimone di questo momento, ma sarò ancora più felice se non sarà un momento unico, è potrà ripetersi ancora negli anni a seguire perchè realisticamente ritengo che questa iniziativa potrà dare i suoi frutti solo se rappresenterà una prima sollecitazione, non occasionale, ma organizzata verso i governi europei affinchè questi, per davvero, decidano di cambiare le cose.
In Italia il Senato ha recentemente deciso, di mettere mano, finalmente, alla legge 189/2002, altrimenti nota come legge Bossi-Fini, attraverso un emendamento che depenalizza la prima entrata illegale nel paese di uno straniero senza documenti, rendendola un semplice reato amministrativo.
Si tratta di un primo passo verso una normalizzazione, anche se va detto che – come affermato in una bella intervista rilasciata a VITA da Andrea Segre – non può bastare, perchè tratta solo superficialmente la questione della regolazione dei flussi migratori che può essere affrontata soltanto con una legge quadro riguardante le politiche interne sull’immigrazione e sull’accoglienza dei richiedenti asilo che dovrà, ovviamente, considerare il fallimento della filosofia che ha finora guidato il legislatore, vale a dire la centralità assoluta del concetto di sicurezza quasi come se fosse un obiettivo raggiungibile in modo lineare, diretto, attraverso mere azioni di polizia.
La realtà di questi anni ci dice un’altra cosa e cioè che i respingimenti e la reclusione nei CIE dei naufraghi provenienti dalle coste dell’Africa, ma non solo, sono misure inutili e costose, ma che per motivi di consenso politico sono diventati argomenti taboo, intoccabili, perchè qualsiasi politica alternativa diventa automaticamente il pretesto di battaglie tra governo e opposizione in chiave elettorale. La verità è che sicurezza e accoglienza non sono obiettivi in opposizione l’uno all’altro. Anzi, possono essere complementari se decidiamo di raggiungere la sicurezza attraverso la gestione regolare degli arrivi dei migranti nel nostro paese, il che si tradurrebbe sia in un risparmio sull’amministrazione dei costosissimi CIE, sia nell’estirpazione dell’odioso traffico di esseri umani sui barconi della disperazione che giungono in Italia, specie sulle coste di Lampedusa.
La Carta di Lampedusa nasce proprio con l’intenzione di ripensare in modo radicale, ma sostenibile, le attuali politiche migratorie che non possono avere in un’isola 20 km² il loro core strategico e logistico. Lampedusa andrebbe restituita ai suoi cittadini e a tutti coloro che la amano e non essere degradata ad un campo di reclusione in mezzo al mare, perchè se crediamo che la soluzione sia quella di tenere segregati degli esseri umani che non hanno alcuna colpa, se non quella di fuggire da luoghi dove rischiavano seriamente la vita, allora non è passato nemmeno un giorno da quando i soldati russi e alleati entrarono nei campi di concentramento sorti nel cuore d’Europa per segregare persone la cui esistenza, per motivi razziali, politici e di orientamento sessuale, non era sopportata.
Oggi, sarà un caso, è il 27 gennaio, “Giorno della Memoria” nel quale si commemorano le vittime della Shoah. Ma questa data, rappresenta anche uno spartiacque sintetizzato da una scelta: Mai più. Il 27 gennaio, infatti, accettando di commemorare tutti coloro che morirono a causa del nazismo, accettammo anche di caricarci di una responsabilità che non può avere ripensamenti e cioè che non vogliamo più essere una società che accetta, seppure in silenzio, lo spegnersi di anche una sola vita umana nel nome di un’ideale, qualsiasi esso sia, perchè non esistono idee, filosofie, comunità che possono fondarsi sul sangue degli innocenti quando questo viene versato in modo deliberato.
Questa settimana tante persone proveranno a scrivere la Carta di Lampedusa, affermando quei principi di pace e giustizia che hanno portato l’Europa nell’era della democrazia. Oggi siamo un po’ in crisi, è vero, ma ho la speranza che sia solo un momento. Ho la speranza che prima o poi torneremo a lavorare per costruire un’Europa e un Mediterraneo che siano spazi di civiltà e pace.
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LIBRINO
Librino (o Lebrino, che dir di voglia) cosa è? Parliamo di un puntino nella geografia degradata delle periferie meridionali. E’ il quartiere dove il cittadino Luciano Bruno è stato aggredito, insultato, minacciato. Lebrino c’è ma non deve vedersi, come le foto che Luciano stava scattando, nel suo quartiere, nel luogo dove i suoi familiari vivono insieme ad altri centomila catanesi. Luogo della ingegneria asociale dove spesso i postini vanno a memoria perché non ci sono né i numeri civici e talvolta neanche i nomi delle strade e dove si abita occupando le case popolari. La cittadinanza è cosa “abusiva”, qui.
Siamo a sud ovest di Catania. Fino a 50 anni fa, campagna “leporina”, luogo di ripopolamento di lepri e conigli a fini venatori, come suggerisce il nome di origine latina. Zona di caccia, anche nel recente passato e nel presente storico: caccia alla speculazione edilizia e caccia all’uomo, caccia alla civiltà, zooponimo suburbano, di uomini ammassati come conigli. Pronti a subire o a prepotere. ‘U quatteri, tout court, come lo chiamano gli abitanti.
Negli anni 60 lo progettò l’architetto giapponese Kenzo Tange, doveva essere (come il Cep e lo Zen a Palermo, come Scampia a Napoli) la “città ideale”. Ma Lebrino è diventato subito, già prima di nascere, un aborto urbano. A chi lo disegnò, da Tokyo o da New York, non fu detto che quella zona era vicina all’aeroporto e gli aerei volano raso, nel frastuono h24, sulle case. Quando il progetto fu approvato, per metà le case abusive avevano già invaso il territorio e le aree che dovevano essere verdi. Lo chiamano inquinamento acustico. E poi c’era la borghesia economica e fondiaria locale che, variante dopo variante urbanistica, ha ridotto questo luogo a contenitore di persone e di disperazioni. Uomini come conigli, come bestie. Strade al posto di case abusive, nuove case abusive al posto di strade e ponti.
Volavano rasi gli aerei low cost anche venerdì scorso, su Luciano Bruno e sul Palazzo di Cemento, il “muro di Lebrino”, il simbolo del degrado di questo luogo italiano. Qualche anno fa e poi sempre più spesso, intorno a quel cubo di cemento armato che è luogo di spaccio e di traffico al centro di Lebrino, arrivò la polizia per una retata: i pusher scappavano inseguiti dagli sbirri. E la gente, dai balconi delle case, buttava pietre sugli sbirri. Per aiutare quegli altri a fuggire. La caccia continua ed è quotidiana a Lebrino.
Luciano, cittadino di Lebrino ma giornalista, performer, artista, poeta da strada, non poteva fotografare quel monumento. A Lebrino (ed essendo Luciano di Lebrino) non si può neanche fotografare, né dire. Ecco, questo è il punto: le foto di Luciano Bruno, catanese di Lebrino, sono un gesto che appartiene a tutti, perché Lebrino ha il diritto di esistere. Nessuno tocchi Luciano e quel suo click, perché in quel “quatteri” non vivono più solo lepri o conigli.
Catania, aggredito giornalista Luciano Bruno.
E ora tutti al Palazzo di Cemento
per manifestare il nostro sdegno contro la mafia
articolo21.org di Massimo Malerba - 12 gennaio 2014
Due giorni fa a Librino, enorme periferia sud di Catania, Luciano Bruno (nella foto) è stato avvicinato, minacciato e barbaramente picchiato da un gruppo di sei uomini mentre scattava fotografie al cosiddetto “Palazzo di Cemento”, una struttura al centro del quartiere usata dalla mafia come centrale dello spaccio, la più importante e “produttiva” della città (e forse della Sicilia Orientale) attorno alla quale si sviluppa un business gigantesco di milioni di euro al mese. Un fortino inespugnabile, ben difeso da uomini armati e sorvegliato da “sentinelle”, in genere carusi (ragazzini) reclutati dai mafiosi per pochi euro al giorno che hanno il compito di avvertire i mafiosi dell’arrivo di forze dell’ordine o di altri soggetti considerati una minaccia per il regolare svolgimento delle attività illecite. “Ostili” come Luciano, appunto, cui i mafiosi hanno puntato contro una pistola, rotto un dente e infine nominato, a mò di avvertimento, i suoi familiari (Luciano è cresciuto a Librino).
Luciano è un attore teatrale e un giornalista, collabora con “I Siciliani Nuovi”, Era lì per raccontare quella periferia, come lui stesso spiega in una nota diffusa oggi sul suo profilo Facebook in cui ringrazia i tanti cittadini che in questi giorni gli hanno manifestato solidarietà. Scrive Luciano: “Le foto che ero andato a scattare ieri mattina servivano proprio a questo, a far vedere quello che io ho visto per una vita intera attraverso i miei occhi. Ed invece me lo hanno portato via con violenza, questo sguardo, insieme ad un dente. Ho letto tutte le vostre testimonianze e mi sento circondato dalla stima e dall’affetto che mi avete mostrato. Grazie ad ognuno di voi per la solidarieta’. Di cuore”.
Tanti, tantissimi sono stati i messaggi di solidarietà giunti a Luciano in questi due giorni ai quali aggiungo anche il mio. Ma non basta. Serve reagire. Serve far capire alla mafia di Librino che Luciano non è solo e che se toccano lui toccano tutti. Ed è per questo che mi permetto di lanciare una proposta: nei prossimi giorni (decidiamo assieme, ma presto!) rechiamoci tutti assieme al Palazzo di Cemento per manifestare il nostro sdegno proprio di fronte a loro, ai mafiosi che ci guardano dall’interno del fortino. Proviamo a restituire a Luciano le sue agibilità di giornalista e cittadino. Proviamo a restituirgli lo sguardo che la violenza mafiosa gli ha portato via.
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Razzismo, pallavolista italo-nigeriana
insultata come donna di colore
articolo21.org di Pino Scaccia - 13 gennaio 2014
Un episodio minore che certamente non sarà ripreso dai grandi quotidiani. Oltretutto perché proveniente da uno sport cosidetto “povero” non illuminato dai riflettori nazionali. Una partita del campionato di pallavolo, serie B2 femminile giocata su un campo di provincia, in Basilicata. La squadra locale, il Montescaglioso, batte meritatamente le pugliesi del Mesagne per 3-1. Una cittadina, Montescaglioso, vicino Matera, che proprio nei giorni scorsi è stata colpita da un evento grave, tanto che prima della gara è stato tributato un omaggio alla memoria di una donna morta nel crollo di una palazzina. E poi il palasport intitolato a Papa Wojtyla. Doveva essere insomma una giornata non dico di festa, ma sicuramente di sport. E invece tutto è stato rovinato dai cori continui, fortemente offensivi, contro il capitano della squadra avversaria, l’italo-nigeriana Nneka Arinze, insultata come donna e come donna di colore. Conditi oltretutto da altrettanti cori offensivi contro le ragazzine (sedicenni) delle giovanili del Mesagne che stavano a bordo campo. Con gli arbitri (donne) che hanno sorvolato sul gravissimo episodio e con il pubblico che ha assistito in silenzio perché “si trattava di un gruppo di ragazzini”. Il punto è proprio questo: non c’è neppure la speranza che le nuove generazioni possano interrompere questo malcostume. Episodi di razzismo sono da condannare senza tentennamenti nella grande ribalta sportiva, ma che avvengano anche in una partita di pallavolo, considerata ancora una disciplina pulita, è veramente preoccupante. A questo punto spetta alla federazione intervenire con decisione, salvaguardando l’ultimo patrimonio sportivo.
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Lampedusa, dopo il video choc
Legacoop interviene: “Via i manager
della coop che opera nel Cie”
Il filmato choc trasmesso dal Tg2 avrà delle conseguenze anche sull'organizzazione delle cooperative sociali che operano nel centro d'accoglienza siciliano. Legacoop Sociali apre una inchiesta interna. E spiega: "Comportamenti inammissibili a prescindere, ma quel un centro è fatto per 200 persone e ne ospita 600".
fanpage.it - 18 dicembre 2013
Lampedusa, il video choc girato dal Tg2 all’interno del Centro d’accoglienza di Lampedusa avrà delle conseguenze anche nell’organizzazione delle cooperative che operano nel Cpsa (centro primo soccorso accoglienza). È Legacoop Sicilia ad annunciare l’istituzione di una commissione d’indagine conoscitiva, affidandone la responsabilità a LegacoopSociali. A darne notizia è la stessa associazione del mondo cooperativo. “La commissione – si legge nella nota diffusa dalla presidenza regionale – si avvarrà anche dell’apporto di professionisti esterni, per accertare al meglio disfunzioni e responsabilità. In ogni caso Legacoop Sicilia ha già dato indicazione alle cooperative socie di ‘Lampedusa Accoglienza’ di rimuovere e rinnovare il management attuale e di avviare immediatamente una migliore organizzazione con altre professionalità”.
La Legacoop sociali della Sicilia scrive: “Dopo l’indignazione generale davanti alle scene viste in tv di sindaci, prefetti, ministri, associazioni e cittadini, siamo i primi a chiedere che i riflettori sul delicato tema dell’accoglienza dei migranti restino accesi per affrontare alla radice la questione. Non c’è alcuna giustificazione per quanto è accaduto ma non sottolineare lo stato di assoluta precarietà in cui gli operatori del Centro di Lampedusa sono costretti a lavorare dal punto di vista logistico e strutturale, significherebbe non guardare in faccia la realtà e limitarsi a gridare allo scandalo. È bene ricordare che il centro di Lampedusa è stato bruciato, distrutto e mai ricostruito e dunque gli operatori lavorano in condizioni che non assicurano l’assolvimento al meglio dell’accoglienza delle persone. Ricordiamo infatti che la capienza del centro è appena sufficiente ad accogliere 250 persone, mentre ora gli ospiti sono oltre 600 e sono arrivati fino a 1.200. Ci sono tante responsabilità rispetto a questo stato di cose. Quella delle cooperative è stata di non avere alzato abbastanza la voce e di non avere preteso interventi immediati”.
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La “Carta di Lampedusa”,
tra memoria e azione concreta
unimondo.org - 06 Dicembre 2013
“Quello che è successo due mesi fa, il 3 ottobre, alle porte di Lampedusa, ci ha fatto capire che un cambiamento è necessario e non si può rinviare”. Nicola Grigion, fra gli animatori di Melting Pot Europe, “storico” progetto di comunicazione indipendente sui diritti dei migranti, ha avviato così l’assemblea on line di venerdì 29 novembre dedicata alla costruzione della “Carta di Lampedusa”. Dall’altra parte dello schermo di pc o tablet, 60 fra associazioni, avvocati, attivisti e comitati locali, dalla Sicilia al Trentino-Alto Adige.
L’assemblea è arrivata in un momento ricco di significati per l’agenda sociale e politica come per le condizioni di vita e ingresso di migliaia di migranti e delle loro famiglie. Sono passati due mesi dalla strage di Lampedusa, che ha visto 369 persone morire poco distanti dall’isola e nel momento in cui scrivo un’imbarcazione risulta in balia delle onde da oltre 20 ore, fra Malta e la costa ionica. Il 3 dicembre sotto Montecitorio attivisti e membri di organizzazioni nazionali e internazionali si sono dati appuntamento per chiedere l’istituzione del 3 ottobre come “Giorno della memoria e dell’accoglienza”, come proposto dalla sindaca lampedusana Giusy Niccolini. Appena due giorni prima sette persone, buona parte dei quali migranti non regolarizzati di cittadinanza cinese, sono morte per un incendio nella fabbrica di Prato in cui dormivano, mentre proprio il 29 novembre nei pressi di Rosarno moriva di freddo un rifugiato liberiano, arrivato nella zona per raccogliere arance. Storie individuali, o di piccoli gruppi smarrite in una storia collettiva poco raccontata e soprattutto poco ascoltata. Chi riesce a varcare da vivo le frontiere nazionali, diventa oggi facilmente un cittadino di seconda categoria, potenziale vittima di sfruttamento, di detenzione arbitraria, di leggi non applicate, applicate male o semplicemente ingiuste, di pratiche illegittime ma diffuse quando non istituzionalizzate. E’ dunque da qui, dalla constatazione, di un attacco ai diritti di cittadinanza e al diritto d’asilo, che è partito il percorso per costruire una “carta di Lampedusa”, documento che nasce dal basso per giungere a interrogare amministrazioni locali, nazionali e europee.
Giacomo Sferlazzo, dell’associazione lampedusana Askavusa, ha aperto l’assemblea con decisione, ricordando che “è da vent’anni che la nostra isola vive ciclicamente emergenze, seguite da tragedie, seguite a loro volta da interventi di tipo militare. Ma dal 2009 questo è cresciuto, da Lampedusa assistiamo alla militarizzazione del Mediterraneo, del mare come del cielo e della terra”. Una militarizzazione che, ribadiranno in molti, non si spiega con l’esigenza di tutela dei migranti, ma con la protezione di interessi geopolitici e con una politica securitaria che si nasconde dietro il dito dell’umanitarismo. Per Sferlazzo e per altri partecipanti “Lampedusa non deve diventare una passerella: se ci troveremo qui è per costruire qualcosa di concreto”. E’ proprio la preoccupazione della concretezza a attraversare tutto l’incontro, collegando idealmente città e esperienze geograficamente lontane. Grigion ha sottolineato come “il meeting di Lampedusa non dovrà essere in alcun modo celebrativo ma avere ben chiaro l’obiettivo di lavorare per uno spazio euromediterraneo dei diritti. Dopo il 3 ottobre le promesse di cambiamento sono rimaste parola vuota, le politiche sono le stesse di prima. Ma il cambiamento deve avere spazio”.
Due le domande, e molteplici le risposte. Cosa vuole essere la Carta di Lampedusa? E che contenuto vogliamo darle? La suggestione di Paolo Cognini, avvocato marchigiano da anni impegnato per i diritti dei migranti, trova diversi consensi. “La Carta può diventare una fonte di diritto altro, di diritto nato dal basso”. “Oggi nello spazio europeo – ha chiarito Cognini – ci sono dispositivi di potere e controllo che saltano la mediazione del diritti, vediamo il progetto Mare Nostrum, costruito in un contesto di assenza di regole, di regole auto assegnate. Abbiamo lasciato spazio per idee e pratiche come la schiavitù, la così detta detenzione amministrativa: dobbiamo pensare a un nuovo spazio basato sui diritti”. Una carta dunque come enunciato di diritti, ma anche come rete attiva, come manifesto che vincoli chi lo sottoscrive, come pungolo per le amministrazioni europee e di tutto il Mediterraneo. In cui convergano temi diversi, raccontati attraverso la lente di esperienze concrete. Alfonso di Stefano, voce della Rete antirazzista di Catania, è partito dalle battaglie contro la militarizzazione della Sicilia e la ghettizzazione dei rifugiati a Mineo, il maxi “residence” in provincia di Catania che ospita oggi 4000 persone, dall’invenzione di centri di identificazione aperti ad hoc per migranti, molti dei quali siriani, dalle fotoidentificazioni a bordo delle navi militari, senza reali garanzie. “Addirittura – ha spiegato – “diversi siriani hanno detto che i militari italiani della nave Chimera gli hanno sottratto soldi e gioielli”. Sergio Bontempelli dell’associazione Africa Insieme di Pisa ha insistito sulla “burocrazia del disprezzo” che investe le vite dei migranti, rendendoli maggiormente vulnerabili e al contempo criminalizzandoli agli occhi dell’opinione pubblica. Stefano Galieni, giornalista di Corriere delle Migrazioni e di altre testate, ha ricordato l’istituzione di una nuova agenzia di polizia per il monitoraggio delle frontiere fra Europa e Libia, EUBAM Libia, la cui costosa entrata in vigore dal 1° dicembre getta un’ombra inquietante sui destini dei migranti in transito per la Libia, paese insicuro, non aderente alle principali convezioni internazionali su asilo e migrazioni e noto per la persecuzione degli stranieri di pelle nera. Molteplici dunque le esperienze di denuncia e partecipazione sociale a livello locale, gran parte delle quali convergenti verso alcuni punti fermi: dire no a pratiche, idee e legislazioni sbagliate per amplificare ciò che di positivo esiste e lavorare a una sicurezza reale, che tuteli i migranti, che non discrimini, che non ceda a terzi l’onere di intercettare persone in arrivo via mare per salvarle e valutarne la situazione, che non si nasconda dietro l’alibi dell’Europa e dei trafficanti per giustificare tragedie annunciate. Inevitabilmente fra tanti temi è risultato difficile sintetizzare, ma sono senza dubbio centrali il diritto d’asilo, “illuminato” dal recente annuncio di un dibattito parlamentare sulla tanto rinviata - dal 1948 - legge italiana in materia, dunque l’accoglienza dei rifugiati e la presenza e l’integrazione dei migranti in generale e le norme che la regolano. Il tutto in un contesto di attacco al principio di cittadinanza, evidenziato da più parti, in cui la frontiera stessa diventa un discrimine, capace di segnare le vite delle persone, moltiplicando la sofferenza della migrazione e il suo perpetuarsi di generazione in generazione, che si riesca o meno a superarne la linea geografica.
Dal 31 gennaio al 2 febbraio a Lampedusa si raduneranno in silenzio attivisti, membri di organizzazioni, migranti per dare concretezza e respiro a parole viaggiate sul web o nelle nostre città. Fino a allora chi vorrà partecipare potrà registrarsi tramite Melting Pot e condividere on line contenuti e proposte. A Lampedusa si andrà per raccontare un Europa e un Mediterraneo fatti di creatività, diritti, partecipazione.. Perché “Lampedusa – ha detto Galieni – diventi il volano per fare vedere la ruggine che c’è anche nelle nostre città”. E non ultimo per provare a ridare dignità a un’isola affaticata.
Mia Lecomte, poetessa e ricercatrice, spiega così la frontiera, in “Lezioni Salentine”:
“Se volessi a questo punto spiegare:
si sta fra due mari, è già noto, ma non
come scissi o appena lambiti nei margini,
si sta come stare davvero nel mezzo
del senso più profondo di stare tra due mari
consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
della luce che finisce più presto più tarda
del freddo dentro e fuori la grotta già caldo”
Un senso di separazione, di sospensione fra universi non comunicanti, che deve cessare, perché il nostro diventi un unico mare. Lampedusa potrà così tornare a occuparsi dei suoi problemi e ogni migrante potrà cercare più serenamente il difficile equilibrio di una vita lontana da casa.
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Prato, imprese cinesi:
le responsabilità che nessuno prende
Nelle fabbriche-galere i sindacati non hanno iscritti.
E 'denunciano' Confindustria.
Che accusa le forze dell'ordine
lettera43.it di Antonietta Demurtas - 2 dicembre 2013
Non sono solo i pratesi a sapere che ogni giorno dalle fabbriche cinesi di confezioni escono abiti made in Italy prodotti da schiavi made in China. Che dentro quelle aziende dai nomi italiani come Teresa Moda (quella in cui è scoppiato l'incendio che ha ucciso sette persone domenica 1 dicembre) i cinesi lavorano, vivono e muoiono, lo sanno tutti.
LE BATTAGLIE MANCATE. Eppure nella scala delle responsabilità che davanti a ogni tragedia si percorre con il dito puntato, i sindacati occupano uno dei primi gradini. Perché se a essere violati sono i diritti umani tout court, quelli dei lavoratori dovrebbero essere loro a tutelarli.
Dove sono? Che fanno? Perché non scendono in piazza per difendere anche i diritti di quelle persone che non indossano le felpe della Fiom né sventolano le bandiere della Cisl, ma sono comunque operai di questo Paese?
Femca e Filctem, le associazioni di categoria del settore tessile della Cisl e della Cgil non si tirano indietro e fanno un mea culpa.
L'ORA DEL MEA CULPA. «Non vogliamo negare le nostre responsabilità, anche il sindacato ha commesso degli errori, ma il vero problema è che noi non abbiamo gli strumenti per fare rispettare la legge», dice a Lettera43.it Sergio Gigli, segretario nazionale della Femca-Cisl. «Sappiamo esattamente quali sono le aziende dove non si rispettano le regole, ma dopo la nostra segnalazione sono la guardia di finanza e la polizia che devono agire: noi abbiamo le mani legate».
Le denuncia come una unica arma, quindi.
«L'illegalità ben nascosta ma nota a tutti»
Una linea rivendicata anche da Luca Barbetti, segretario generale della Filctem-Cgil Toscana.
«Ma è un'arma spuntata. Sono anni che denunciamo, le istituzioni ci avrebbero dovuto ascoltare di più. Queste sono situazioni di illegalità ben nascosta ma nota a tutti», spiega a Lettera43.it.
Il gioco di parole rende l'idea di quanto il sistema cino-pratese sia ben radicato.
LA MALAVITA ORGANIZZATA CINO-PRATESE. A Macrolotto, nella zona industriale di Prato dove si trovano i capannoni delle confezioni cinesi, il segretario nazionale Gigli ha provato ad andarci.
«Volevo entrare a parlare con questi lavoratori ma i colleghi del posto mi hanno sconsigliato di scendere dalla macchina», ricorda, «perché lì il problema non è solo il mancato rispetto delle norme di lavoro, ma il racket, la malavita organizzata cinese».
Quella che costringe i lavoratori a non aver nessun contatto con i sindacati. «Questi operai vivono segregati, non parlano italiano e anche quando escono dai capannoni sono difficili da avvicinare», racconta. «Qualche collega ci ha provato, ed è stato messo in guardia: 'Fatti gli affari tuoi, altrimenti...', si è sentito dire».
IL CORAGGIO CHE NON C'È. Intimidazioni davanti alle quali anche il sindacato «deve reagire e avere più coraggio».
Ma riuscire ad allargare le tutele anche a questi lavoratori non è così facile. Perché «in quelle fabbriche non abbiamo iscritti e se non c'è un delegato sindacale non possiamo entrare, sarebbe violazione della proprietà privata», aggiunge Barbetti.
IL RUOLO DI CONFINDUSTRIA. «Molte di queste aziende invece sono associate a Confindustria, e che cosa fa l'associazione? Prende solo le quote?», critica Gigli, ricordando quando Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali della Sicilia disse: «Chi paga il pizzo fuori da Confindustria».
Ora forse sarebbe il caso di dire: «Chi non rispetta le regole e i diritti dei lavoratori lasci l'associazione».
Solo 2 aziende iscritte a Confindustria su 3 mila
Il presidente della Confindustria pratese, Andrea Cavicchi, non ha problemi ad accogliere l'invito: «Noi da tempo stiamo cercando di fare un'opera di sensibilizzazione», dice a Lettera43.it.
«Ma in realtà tra gli iscritti abbiamo solo due aziende cinesi con 15 dipendenti, e a Prato sono ben 3 mila».
Anche la Confederazione nazionale dell'artigianato (Cna) sta cercando di avvicinare questi imprenditori, «hanno già 80 iscritti, perché qui a Prato quelle cinesi sono realtà artigianali più che industriali».
I CONTROLLI MANCATI. E «l'associazione non è un organo di controllo: io devo sostenere le imprese. A sanzionarle se sbagliano devono invece essere le forze dell'ordine», ricorda.
Le quali però, con un certo «lassismo», «spesso sorvegliano più gli imprenditori italiani che quelli stranieri».
La riflessione su quanto è successo a Prato, tuttavia, deve essere più ampia ancora. «Qui c'è un problema di perdita della legalità che si è inserito in un distretto industriale che stava morendo», segnala il presidente degli industriali locali.
LA FILIERA CHE SERVE A TUTTI. C'è infatti un problema mai risolto, un compromesso che il Paese ha tacitamente accettato.
«Quel territorio ha sviluppato una ricchezza indotta e tutti hanno chiuso un occhio per far sì che il distretto industriale rimanesse lì, anche a costo di avere regole sommarie», ammette il sindacalista Gigli.
Per anni quel modus operandi «è stato utile alla stessa classe imprenditoriale pratese, che attraverso l'esternazione della manodopera ha costruito la propria fortuna», aggiunge Barbetti.
LE COLPE DISTRIBUITE. «Tutti hanno commesso degli errori», ricorda Cavicchi, che è anche presidente della Furpile Idea, azienda tessile fondata nel 1972 dal padre, «ma fare gli sceriffi ora e accusarsi a vicenda non risolve nulla, al massimo può portare dei voti».
A livello locale Confindustria e sindacati hanno più volte affrontato il tema insieme. «L'effetto dumping di questa situazione è sempre stato sotto gli occhi di tutti», dice Barbetti, «alla fine il trasferimento della lavorazione dalle aziende che rispettavano le regole a chi sfruttava i lavoratori ha danneggiato tutti».
Ma il confronto tra le parti sociali sulla ricomposizione della filiera del tessile, sulla tracciabilità dei prodotti non ha dato i risultati sperati: «Abbiamo scritto e sottoscritto degli impegni, che però sono rimasti sulla carta».
LA TRACCIABILITÀ NON BASTA. «Serve tempo», riflette Cavicchi. «A Buxelles abbiamo ottenuto il primo sì all'articolo 7 sulla tracciabilità dei prodotti, ma non dobbiamo dimenticare che le manifatture cinesi fatte a Prato sono comunque italiane, quindi non è con la tracciabilità che si risolve il problema. È il rispetto delle regole che bisogna pretendere».
Ma nemmeno questo è facile: perché «spesso gli imprenditori affittano i capannoni, superano tutti i controlli e operano secondo le regole, ma poi nel giro di pochi mesi li trasformano in posti di lavoro illegali», rileva.
UN PATTO TRA LE PARTI. Come si cambia? Con un monitoraggio più costante, «che le forze dell'ordine del territorio non riescono a garantire da sole: per questo chiediamo un intervento serio del governo», sintetizza il presidente di Confindustria.
Dopo l'ennesima tragedia, per risolvere il problema non bastano i mea culpa né i j'accuse: «Serve un patto per sradicare questa nuova schiavitù e per farlo Confindustria, governo, forze dell'ordine e sindacati devono lavorare insieme», conclude Gigli.
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Napoli, la piaga dei piccoli prostituti
Hanno 14 anni. E si vendono per un pasto.
O un letto. Sono stranieri e italiani.
Julius e gli altri baby-squillo di Napoli
lettera43.it di Enzo Ciaccio - 28 Novembre 2013
Julius parla una strana lingua, è basso di statura, smilzo come una acciuga e scuro di pelle. Avrà 12, forse 13 anni. Gli occhi sono neri. Socchiusi, ostili, forse spauriti.
Chi lo vuole, può averlo per due briciole. E incontrarlo ogni sera a due passi dall’ingresso del cimitero monumentale di Poggioreale a Napoli, lungo la strada dell’immondizia che va e si perde negli orti vesuviani.
PROSTITUIRSI A UN SOFFIO DALLE TOMBE. Lui è il più piccolo, nel crocchio dei bambini che battono i piedi infreddoliti prima di prostituirsi a un soffio dalle tombe, in attesa dei clienti e di quei pochi euro da consegnare a chi comanda. Piccoli rom. Ma anche ragazzi italiani, e stranieri finiti qui chissà come.
Il cimitero, il freddo, il proibito che si fa macabro a ridosso dei loculi, la strada che evapora, l’orco affamato che aspetta in auto: è Napoli, ma sembra una brutta favola. E l’epigrafe - affissa lungo il muro cimiteriale - riecheggia un verso mai così fuori luogo: «Eterno il riposo dona a loro, o Signore».
Sul marciapiede al freddo sotto gli occhi del padre padrone
Ai bambini come Julius non è concesso riposo. Anzi, a loro è severamente vietato avvicinarsi, è proibito perfino sostare sul lato opposto del marciapiede: sui bambini di vita veglia il padre-padrone, circondato da un nugolo di scagnozzi dai modi spicci e la cadenza slava.
UN FENOMENO IN FORTE CRESCITA. Rieccolo, l’orrore. Al cimitero di Poggioreale come al Centro direzionale e nelle oasi circostanti che all’imbrunire si trasformano in casbah peccatrice. Non sono solo le bambine a svendersi, nei tramonti maledetti di Napoli: il fenomeno dei maschietti a pagamento, assicurano gli operatori di strada, «è addirittura più rilevante». E «in forte crescita».
Ogni tanto, se ne riparla: spunta online qualche video cosiddetto choc, che racconta, filma, denuncia quell’obbrobrio che - ormai - «non fa più scandalo né indigna».
«UN PUGNO NELLO STOMACO». Vincenzo Spadafora, presidente italiano Unicef e napoletano, ha parlato di «un pugno nello stomaco» e di una realtà di fronte alla quale «non possiamo girare la testa dall’altra parte».
Spadafora ha invocato un piano nazionale contro la tratta dei bambini in vendita a Napoli come altrove. Altri hanno invocato l’intervento dell’Onu. Ma non se ne è mai fatto nulla.
PER STRADA ANCHE 14ENNI. La cooperativa Dedalus, che da 10 anni assiste i minori prostituti e aveva avviato con il Comune di Napoli un progetto di strada dedicato a loro, ha dovuto prendere atto che «bisogna fermarsi per mancanza di fondi». Dedalus ha fatto in tempo ad accertare che a prostituirsi in città sono i ragazzi (eterosessuali) tra i 14-16 anni e tra i 20-24 anni: i più numerosi sono i rumeni e i bulgari, poi i maghrebini, infine gli italiani.
«I maghrebini», hanno spiegato i responsabili di Dedalus, «si prostituiscono di sera, dopo aver fatto i lavavetri ai semafori, per accumulare i soldi per le scarpe griffate, il cellulare e i pullover firmati. I rumeni si vendono a tempi pieno, per procurarsi da vivere».
LA MAPPA DELL'ORRORE. Come per le bambine, anche per i ragazzini napoletani le strade in cui incrociare i clienti sono quelle intorno ai grattacieli del Centro direzionale. Oppure nelle sale compiacenti dei cinema a luci rosse disseminati a pioggia in zona Ferrovia e dintorni: molti dei cinema hard sono dotati di salette private, in cui è agevole appartarsi per dar vita agli incontri clandestini.
Il biglietto di ingresso costa otto euro, tre euro in più del costo di una prestazione sessuale. «Il prezzo è troppo salato», si lamenta sul sito Napoli.azgay.it Alessandro di Secondigliano, studente. E si scandalizza, ovviamente, per il costo del biglietto mica per la prestazione.
LA MANCANZA DI CONTROLLI. E i controlli? Secondo molti, «sono pari a zero, sia da parte delle forze dell’ordine che delle istituzioni». Del resto, chi vuol sapere di più della prostituzione minorile che dilaga nei cinema hard di Napoli non ha che da sbizzarrirsi connettendosi ai numerosi siti internet in cui prede e cacciatori si scambiano liberamente appuntamenti, apprezzamenti, numeri di telefono, informazioni sui prezzi, sugli orari, sul tipo di prestazioni più praticabili e in voga in strada o nel buio delle salette riservate.
C’è chi, polemico, denuncia tariffe e abitudini: «Far pagare un euro per entrare nei bagni del cinema è un furto», confida a Lettera43.it Gerardo all’uscita da una mattinata hard, «oltretutto, sono sporchi da far schifo».
SULL'ORLO DELLA DISPERAZIONE. È un mondo osceno e surreale, questo dei baby prostituti. Intriso di ricatti e paura, di menzogne e illusioni. Di immensa infelicità. E di tentati suicidi.
'A francese finì sotto il treno. La testa da un lato, il corpo maciullato sparso qua e là. Aveva 16 anni, era scuro di pelle ma con gli occhi celesti. Lo volevano tutti. Si dava da mesi, per pochi euro in via Taddeo da Sessa. Suicidio? «Ma no», borbottarono gli amici, ‘a francese teneva «‘a capa nelle nuvole». Non si è accorto del passaggio a livello. «Uffa, è stato un incidente». E amen.
Omertà, verità di comodo, cinismo ad alzo zero. «Riuscire a parlare con un giovane prostituto e fargli raccontare la sua storia non significa conoscere spicchi di verità», spiega un operatore. «Anzi, spesso dal colloquio si esce più disorientati di prima».
MAGNACCIA AFFITTUARI. Ibran è arrivato tre anni fa dalla Moldavia, con altri coetanei. Ora ha 18 anni. E a mezzanotte, in una breve pausa “di lavoro”, confessa: «Gli amici che già erano qui ci hanno affidato a un rumeno: per ora, ci prostituiamo per lui e riceviamo solo da mangiare e dormire. Ma presto, mi hanno assicurato, saremo liberi di tenere per noi i guadagni. E potremo aiutare le famiglie rimaste a casa».
Il collegamento tra lavoro nero nei cantieri e prostituzione
Antonello Ardituro, magistrato della direzione antimafia, ritiene che esista uno stretto collegamento fra lavoro nero nei cantieri edili protetto dai clan di camorra e prostituzione minorile maschile. Precarietà e sfruttamento: per un minore, è un po’ come arrendersi accoccolandosi fra le braccia di sconosciuti.
RAGAZZI IN SVENDITA. La storia di Claudio, raccontata in Ragazzi in saldo, un’inchiesta di RaiTre, sembra confermarlo: una madre sola e senza introiti, un lavoro precario in un cantiere edile che chiude i battenti, il licenziamento, la scelta di prostituirsi per sbarcare il lunario, la speranza di poter vivere - un giorno, forse - «in un modo migliore».
Verità, invenzioni, notizie e bufale, ricordi opachi o volutamente stravolti.
È l’una di notte, Julius è al suo quinto cliente. Sente dolore alle spalle, il naso gli sanguina («È per colpa del freddo», sussurra), sulle guance la memoria di carezze cattive.
GLI APPARTAMENTI-BORDELLI. C’è chi giura che in zona - nei condomini anonimi di piazza Ferrovia e fra i grattacieli del Centro direzionale - esistano appartamenti -stamberghe in cui i minorenni destinati alla prostituzione vengono ospitati a gruppi di cinque o sei e - si fa per dire - accuditi da mamme-guardiane prezzolate dai padroni: un pasto arrangiato, un letto sudicio, un tetto per ripararsi. Se ti ammali, conviene curarti. Se non guarisci, vai via. Verità? Esagerazioni? Di certo c’è che di controlli a tappeto per cercare i covi non si ha mai notizia. E che a Roma, in via del Vantaggio, una casa-famiglia di tale risma è stata di recente scoperta dai carabinieri.
Ospitava una decina di ragazzi, a gestirla era un malavitoso detto «la sdentata». Nella banda, c’era perfino un complice addetto al servizio navetta: prelevava i giovani ospiti a domicilio e li accompagnava, come un taxi, fino a casa del cliente di turno.
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Putin e Letta si incontrano a Trieste
per il vertice italo-russo:
firmati 28 fra accordi e trattati
notiziegeopolitiche.net di Enrico Oliari - 27 novembre 2013
Si è tenuto a Trieste l’incontro del vertice italo-russo al quale hanno preso parte il premier italiano Enrico Letta e il presidente russo Vladimir Putin, durante il quale sono stati sottoscritti dai ministri e dai dirigenti d’azienda interessati ben 28 fra accordi commerciali e trattati di cooperazione di carattere sociale ed economico.
La sintesi degli incontri è stata espressa da Letta e da Putin nei rispettivi interventi: il primo si è detto molto soddisfatto per il lavoro svolto nell’incontro presso la città giuliana, ma ha voluto puntualizzare che se molto si è fatto, ancora molto resta da fare.
Letta ha spiegato che il 2013 risulterà essere un anno di crescita della bilancia commerciale di quasi il 25 per cento, cosa che impegna ulteriormente i partner a stringere i legami bilaterali. “Si tratta di accordi molto concreti – ha indicato il premier italiano – come il miliardo investito per accrescere le joint ventures, l’impegno per lo sviluppo la crescita; importanti sono anche gli accordi doganali, che con le sottoscrizioni di oggi vengono sburocratizzati, come pure i propositi comuni nel campo della ricerca”. “In particolare nel settore energetico – ha continuato – abbiamo scambiato parole importanti per continuare questo lavoro. Infine abbiamo concordato di puntare molto in vista dell’Anno di incrocio turistico, sperando che l’Unione europea faccia la sua parte e renda più facile per i cittadini la possibilità di muoversi fra i due paesi”.
In materia di politica internazionale Letta ha fatto sapere di aver convenuto con il presidente russo sulla necessità di un impegno comune per il dramma umanitario che affligge la popolazione siriana e i rifugiati. “Abbiamo discusso anche di Libia – ha aggiunto – ed abbiamo messo in comune le nostre preoccupazioni per la situazione di instabilità che investe l’area a sud e a est del Mediterraneo”. “Ho anche espresso compiacimento – ha concluso il premier italiano – per l’accordo raggiunto sul nucleare iraniano, il cui effetto porterà stabilità nell’area. Infine abbiamo parlato di Afghanistan, per il quale abbiamo convenuto sulla necessità che vi sia un rientro dei nostri soldati graduale, che non lasci situazioni traumatiche”.
Vladimir Putin ha iniziato il suo intervento parlando dell’incontro di ieri con il Pontefice: “Sono stati siglati accordi con il Vaticano in materia di cultura, di scienza e di salute. Ma abbiamo anche parlato dell’importanza di difendere i valori cristiani e di incentivare il dialogo interconfessionale”. In materia di Siria e di Medio Oriente – ha continuato il presidente russo – abbiamo discusso della situazione difficile in cui si trovano i cristiani”.
Tornando al vertice italo-russo, Putin ha puntualizzato che “l’Italia è il quarto partner commerciale della Russia” e che “l’aumento degli scambi commerciali fra i due paesi, di cui ha parlato Letta, saranno per l’anno prossimo di 50 miliardi di dollari”. “A Trieste – ha poi concluso – si è discusso, fra le varie cose, di idrocarburi, di alta tecnologia come nel caso del superjet 100, di pneumatici per auto, come nel caso della Fiat, o per i macchinari agricoli, poi ancora di cantieristica navale, di spazio, di scienza, di ricerca, di termonucleare, di agricoltura e di turismo, cose per cui si è messo in campo il fondo di un miliardo di euro”.
La conferenza stampa di chiusura ha visto la cerimonia di firma delle intese dei ministri Beatrice Lorenzin e Veronika Skortsova per gli accordi nel campo sociale e della Salute, Enrico Giovannini e Maxim Topilin per lo sviluppo del Lavoro, Massimo Bray e Vladimir Medinsky per la tutela ed il recupero dei beni culturali e artistici e per favorire l’interscambio turistico fra l’Italia e la Russia nell’anno 2013 – 2014; un accordo per il controllo delle dogane è stato siglato dal Comandante generale della Guardia di Finanza Saverio Capolupo e capo del Fsb (ex Kgb) Alexander Bortnikov; il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e il direttore dell’Ermitage hanno sottoscritto un’intesa per promuovere l’interscambio culturale fra le città di Venezia e di San Pietroburgo, mentre l’amministratore delegato di Pirelli Marco Tronchetti Provera ha firmato un accordo di cooperazione relativo al campo dei pneumatici con il direttore generale della russa Rostec state corporation, Sergei Chemezov; l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni ha sottoscritto accordi con Igor Sechin , del colosso energetico russo Rosneft, e con Viktor Vekselberg, del Centro innovazione Skolkolov. Altri accordi sono stati firmati al di fuori della cerimonia di conclusione della giornata.
Alla domanda di un giornalista sul tema dell’Ucraina, paese che, dopo aver a lungo tergiversato, ha scelto di aderire all’Unione doganale con la Russia, Putin ha risposto che “è l’Ucraina stessa a dover prendere le proprie decisioni”, tuttavia “Un paese che ha aderito all’Unione doganale, che prevede lo scambio di merci senza dazi, può recedere dagli accordi quando vuole. Un articolo dell’accordo prevede però che se uno dei paesi aderenti intavola rapporti con paesi terzi, può esportare le merci nei paesi dell’Unione doganale con un ribasso sui dazi attualmente dell’85 per cento, ma che arriverà al 95. Potrebbero quindi transitare dall’Ucraina merci verso l’Unione doganale a prezzi ridotti, cosa che metterebbe in crisi la nostra economia. Per coinvolgere l’Unione europea in questo progetto serve gradualità, ovvero tempo e denaro”. E’ necessario quindi costruire un rapporto che coinvolga l’Europa, ma con gradualità, tempo e denaro”. “Oggi – ha spiegato Putin, in Europa la disoccupazione ha livelli elevati ed addirittura quella giovanile arriva in alcune nazioni anche al 45 per cento, mentre da noi ha livelli molto bassi, intorno a poco più del 2 per cento: per noi è necessario difendere la nostra occupazione”.
A chi ha fatto notare il cappio al collo di Kiev rappresentato dalle forniture di gas, Putin ha spiegato che il debito da saldare, con termine già scaduto, è di dieci miliardi di dollari, ai quali vanno aggiunti i crediti delle quattro principali banche russe, che porta a 30 miliardi di dlr il dovuto dall’Ucraina a Mosca.
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Un bilancio del populismo
articolo21.org di Nicola Tranfaglia - 27 novembre 2013
Siamo, dopo diciannove anni, all’opportunità di un bilancio storico del berlusconismo inteso come variante italica del populismo occidentale che ha occupato negli ultimi anni l’orizzonte internazionale e che si è affermato, con particolare forza, in paesi di democrazia meno salda e matura, come è stato purtroppo il caso della nostra penisola.
Al di là di ogni polemica contingente occorre dire con chiarezza che il populismo legato all’uomo di Arcore è arrivato in pochi mesi al potere nella primavera del 1994 grazie alla profonda crisi politica in cui è precipitata l’Italia negli anni 92-93 per l’esplosione legata ai gravi scandali scoppiati nei partiti politici e negli apparati dello Stato grazie a cinquant’anni di lotta politica senza alternative di governo nella guerra fredda Usa-Urss.
E’ stata l’idea, come era già accaduto più volte nella storia d’Italia (basta fare gli esempi, pur diversi tra loro, di Crispi a fine Ottocento e di Mussolini, dagli anni venti alla seconda guerra mondiale), l’idea – o meglio l’illusione – di un uomo forte al comando di una barca difficile da guidare appesantita da molta zavorra (forte corruzione, mafie, inefficienza dello Stato, indulgenza con gli amici e durezza con i nemici, come si diceva una volta) e quindi in grado di superare ogni ostacolo e creare una società moderna e tale da stare bene in Europa accanto a paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti per citare i paesi più vicini e più avanzati tra quelli con i quali abbiamo quasi sempre avuto rapporti intensi.
Un’illusione nettamente smentita dalla storia di fine Ottocento come da quella del fascismo ma riproposta da Silvio Berlusconi con l’abilità del grande venditore quale è stato ma anche di un uomo, noto per le bugie che ne hanno contraddistinto l’ascesa e, oggi, l’inevitabile tramonto con la decadenza da senatore della repubblica.
Facciamo un elenco, sia pure provvisorio, di quello che il Cavaliere ha trovato quando è sceso in campo, per usare il suo linguaggio immaginifico, e che ora lascia ai suoi eredi e ai suoi avversari.
I partiti storici tra il ’90 e il 93 si sono sciolti, o hanno continuato la loro vita con nomi e leader diversi, ma al loro posto si sono affermati durante il ventennio o partiti personali destinati a una vita non lunga come è avvenuto per l’IDV di Antonio Di Pietro o di piccole dimensioni come l’UDC di Pieferdinando Casini (appena ora staccatosi dalla Scelta Civica di Mario Monti) o ancora come Sel di Vendola o partiti nati dalla fusione di due formazioni precedenti come il Partito democratico dilaniato da forti contrasti interni. In compenso Berlusconi è riuscito a unificare le destre italiane incluse quella di chiara derivazione fascista ma negli anni numerosi di governo ha subito vicende tali da perdere peso ed oggi capeggia una nuova Forza Italia che vuole tornare al potere appena possibile ma che ha subito a sua volta una scissione che, a livello parlamentare, l’ha quasi dimezzata.
Effetti, bisogna dirlo, di una crisi politica che il berlusconismo non ha risolto e che da molti anni si lega a una crisi insieme morale culturale, sociale ed economica che dura ormai da sei anni e non accenna a finire.
Il fatto è che Berlusconi non ha risolto i problemi istituzionali né quelli attinenti alla struttura economica e sociale della penisola ma ha semmai peggiorato fortemente i costumi della classe politica e delle classi dirigenti. Di qui i ripetuti scandali che hanno contrassegnato i suoi governi e le difficoltà crescenti anche a livello parlamentare.
L’uomo del miracolo è oggi il senatore che è stato dichiarato interdetto dai pubblici uffici e non più senatore.
L’aspetto amaro dell’intera vicenda riguarda il destino degli italiani e in particolare delle nuove generazioni e della classe media, distrutta dalla crisi che non dispone di conti offshore.
Tutti avranno un destino futuro contrassegnato dalla povertà (come ha ricordato ieri sera il Codacons) e dall’assenza di pensioni in grado di assicurare loro una vecchiaia serena.
Il responsabile di un così amaro epilogo è senza dubbio del Cavaliere e dei suoi seguaci.
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Come è nato il Social Street
ilfattoquotidiano.it di Federico Bastiani - 21 novembre 2013
Qualcuno potrà pensare che abbia scoperto l’acqua calda. A me piace pensare di aver scoperto un tè. Quando la scorsa estate passeggiavo sotto i portici di Via Fondazza a Bologna insieme a mia moglie ed a mio figlio Matteo di venti mesi, pensavo se nella mia strada abitassero altri bambini con cui farlo giocare. Vivo in una storica strada di Bologna, residenza del noto pittore Giorgio Morandi, da oltre tre anni eppure non conoscevo nessuno.
Sono nato e cresciuto in un piccolo paese della provincia di Lucca e nella mia strada conoscevo proprio tutti, se mancava il sale non era un problema scendere le scale e suonare al vicino. Poi, circa dieci anni fa, mi sono trasferito in città, a Bologna, e mi sono reso conto che il meccanismo di relazione umana era differente, c’era molto più diffidenza, sospetto, a volte indifferenza. Per conoscere qualcuno potevi usare il giro dei colleghi di lavoro, gli amici della palestra e, pensavo, perché non i vicini di casa?
Camminando per Via Fondazza ogni tanto sentivo le urla di qualche bambino quindi immaginavo che dietro quelle pareti, dietro quei portoni, si nascondessero tante storie. Il problema era come entrare in contatto con loro. Così mi sono consultato con mia moglie ed abbiamo optato per una scelta a costo zero, aprire un gruppo chiuso Facebook chiamandolo “Residenti in Via Fondazza – Bologna”. Il problema a quel punto stava nel farlo conoscere e così con la mia stampante mi sono messo a stampare cinquanta fogli A4 dove spiegavo la mia volontà di socializzare, condividere idee, progetti, necessità, come una sorta di bacheca stradale.
Ho iniziato così ad appendere queste locandine in luoghi visibili, vicino ai cassonetti dei rifiuti, sotto i portoni, nelle buche delle lettere, agli angoli della strada e qualche negoziante mi ha aiutato ad esporla nella sua vetrina. Onestamente pensavo che al mio gruppo non avrebbero aderito più di trenta persone, ma ritenevo questo già un successo. Volevo ricreare quel senso di comunità che avevo nel mio paese ma che in città non ero riuscito ad ottenere, anche perché, lavorando molto, il tempo per socializzare in strada era limitato veramente a poche ore.
Facebook poteva aiutarmi a risolvere il problema ed avevo ragione. La prima settimana di settembre ho creato il gruppo Facebook ed in due settimane gli iscritti erano già 93. In Via Fondazza in effetti c’erano altri bambini, mamme che condividevano i miei pensieri e le mie necessità e così abbiamo iniziato l’esperimento. Famiglie appena trasferite che chiedevano un pediatra nelle vicinanze. Qualcuno voleva sapere se c’erano bambini per organizzare playgroup magari in lingua. Un’altra famiglia appena trasferita in attesa del primo figlio chiedeva se qualcuno avesse un seggiolino auto da prestare. E per ogni richiesta c’era una risposta. Grazie a questi spunti di socialità, sono nate poi amicizie: per passare dal virtuale di Facebook al reale della strada è bastato poco, ovvero scendere le scale.
Il gruppo è cresciuto esponenzialmente, oggi siamo oltre cinquecento persone e scopro ogni giorno le potenzialità che la socialità può offrire in supporto alla comunità. Ho ricevuto moltissime richieste per replicare l’esperienza “Social street” da tutta Italia ma anche dall’estero, dalla Spagna e dal Cile. Il 17 novembre in conferenza stampa, insieme a Loretta Napoleoni ho lanciato ufficialmente il “Social street” ed il portale www.socialstreet.it che racchiude le varie esperienze che stanno nascendo in Italia. Cosa vuol dire Social street? Molto semplice, socializzare con i propri vicini di casa per instaurare un rapporto di fiducia. E’ vero, si può pensare che abbia scoperto l’acqua calda ma credetemi, in questo momento, nella nostra società siamo in un deserto sociale dove anche l’acqua si trova con difficoltà.
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Classe ghetto a Bologna: 22 stranieri insieme.
I genitori degli italiani dicono no
Il preside dell'istituto parla di soluzione ponte e temporanea in attesa che gli studenti imparino l'italiano. Poi i ragazzi saranno smistati in altre classi. Il Consiglio d'istituto: "Una scelta di questo tipo invece di andare verso una direzione inclusiva va verso una direzione segregante"
ilfattoquotidiano.it - di Davide Turrini - 4 novembre 2013
Una classe delle scuole medie con ventidue alunni tutti di origine straniera ed è subito polemica. Succede alle scuole Besta di Bologna, parte dell’Istituto Comprensivo 10 del quartiere San Donato, dove nell’agosto scorso è stata composta la 1°A “sperimentale” per ragazzi tra gli 11 e i 15 anni che sanno poco o per nulla l’italiano.
“Le famiglie di una quindicina di ragazzi, arrivati in Italia attraverso ricongiungimenti familiari e quindi con poca o nessuna padronanza della lingua italiana, si sono presentate in segreteria chiedendo l’iscrizione alle medie”, ha spiegato a Radio Città del Capo, il presidente dell’istituto Emilio Porcaro, “alcuni di loro, tra l’altro, erano già stati respinti in altre scuole dove non c’era posto. Inoltre da noi le classi erano già formate. Da qui l’idea di una soluzione ‘ponte’ ”. Infatti la classe di ragazzi stranieri lavorerà soprattutto sull’apprendimento della lingua italiana e appena gli alunni avranno raggiunto un buon livello di conoscenza saranno smistati nelle altre classi della scuola media, come è già avvenuto per due studentesse.
L’Ufficio Scolastico Provinciale era già stato avvisato in agosto e aveva successivamente dato formalmente il via libera all’esperimento. Il progetto aveva comunque preso le mosse nonostante la mancata certezza dei finanziamenti ministeriali per l’integrazione che permettono ai singoli istituti di avere personale d’appoggio per l’insegnamento d’italiano. Certezza arrivata in ritardo e ancora senza una data precisa su quando i fondi arriveranno.
Una scelta, inoltre, che ha ottenuto la conferma del Collegio dei Docenti della scuola Besta (solo 10 i contrati su 100 insegnanti) ma non l’ok del Consiglio d’Istituto. E’ solo del 29 ottobre l’incontro tra Porcaro e il Consiglio con inevitabile strascico polemico. “Educheremo i nostri figli in modo da far capire loro che la separazione insegna meglio rispetto alla coesione e all’integrazione?‘”, recita il testo critico che il Consiglio d’istituto della scuola ha inviato in una lettera al Coordinamento dei Consigli di istituto, “Siamo perplessi e preoccupati perché questa soluzione sembra l’anticamera della riproposizione delle classi differenziali e contrasta con i principi di inclusione e confronto ai quali la scuola si deve ispirare”.
Insomma sono i genitori dei bambini italiani che frequentano la scuola ad opporsi all’idea della classe “ghetto”, contrariamente a un caso simile scoppiato in Italia a fine settembre in una scuola di Costa Volpino (Bergamo) dove i genitori della “minoranza” italiana (7 alunni su 21) avevano ritirato i propri figli da scuola per lasciare gli stranieri unici alunni della classe. “Una scelta di questo tipo invece di andare verso una direzione inclusiva va verso una direzione segregante”, ha spiegato sempre alla radio bolognese, la professoressa universitaria di didattica e pedagogia speciale Federica Zanetti, “L’approccio inclusivo favorisce le differenze e lo scambio di tutti attraverso la lingua italiana ed ha una ricaduta diretta sugli apprendimenti. Cosa facciamo, classi separate per ogni tipologia di differenza che abbiamo?”.
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Regalo di Natale:
«La task force della giustizia per i migranti»
Dodicimila indagati.
E processi che spesso finiscono in nulla.
Il pm di Agrigento alle prese
con gli sbarchi di Lampedusa
lettera43.it. di Giuseppe Pipitone - 16 ottobre 2013
Dodicimila posizioni pendenti. Generalità spesso incerte. E un procedimento che si conclude dopo almeno 18 mesi di iter giudiziario con un'ammenda di 5 mila euro. Una sanzione che non verrà mai pagata perché gli imputati sono nullatenenti e quasi mai si presentano al processo.
Sono i numeri della procura della Repubblica di Agrigento, la più impegnata d'Italia sul fronte dell'immigrazione. L'ufficio inquirente della città dei templi, infatti, è competente per Lampedusa e i territori vicini. Ed è qui che viene perseguito il reato di immigrazione clandestina, introdotto in Italia nell'agosto del 2009.
PROCESSI A VUOTO. In pratica i pm hanno l'obbligo di iscrivere nel registro degli indagati tutti i migranti arrivati senza un regolare visto. L'iscrizione dà avvio a una vera e propria inchiesta che si sviluppa in tutte le sue fasi, spesso senza che ci sia nemmeno la certezza sulle generalità dell'imputato. E anche quando viene assodata la sua identità, è difficile che questo si presenti al processo. O che, una volta condannato alla pena massima, sia in grado pagare la sanzione.
Un vero e proprio buco nero giudiziario che va inevitabilmente in cortocircuito quando i numeri dei procedimenti si moltiplicano all'infinito.
PROCURA DI CONFINE. Soprattutto nel caso di Agrigento che, con otto sostituti attivi nel suo organico, è un ufficio di confine visto che si tratta di una zona ad alta densità mafiosa.
Per riuscire a smaltire il lavoro, il procuratore capo Renato Di Natale è corso ai ripari. «Ho destinato ai procedimenti di immigrazione clandestina i 13 vice procuratori onorari di cui posso disporre», spiega a Lettera43.it.
DOMANDA. Come riesce il suo ufficio a lavorare su 12 mila fascicoli aperti contro migranti?
RISPOSTA. Intanto non possiamo parlare di fascicoli, ma di posizioni. Al contrario di altre procure, a ogni sbarco apriamo un solo fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati tutti i migranti: in questo modo riusciamo a snellire l'iter giudiziario.
D. La mole di lavoro resta comunque enorme.
R. Per quello ho destinato a questi procedimenti i 13 vice procuratori onorari di cui dispongo.
D. Ci riescono?
R. Sì. E infatti pochissimi casi vanno in prescrizione.
D. E a quale costo?
R. I procuratori onorari vengono pagati a gettoni. Circa 60 euro a udienza. C'è però tutto l'iter...
D. Cioè?
R. Appena sbarcati i migranti vengono identificati dall'autorità giudiziaria. Poi li iscriviamo nel registro degli indagati. E a questo punto ci sono due possibilità.
D. Quali?
R. Possono fare istanza di asilo, e a quel punto il procedimento si blocca. In caso contrario chiediamo l'archiviazione al Gip, che spesso la rifiuta.
D. Perché?
R. Perché spesso non reputa che il reato d'immigrazione clandestina sia un danno irrisorio per la collettività. A quel punto parte il processo.
D. Quanti imputati si presentano in aula?
R. Quasi nessuno, perché l'iter dura un anno, un anno e mezzo. Nel frattempo chissà dove sono finiti. Sempre che le generalità siano reali e non inventate.
D. Il processo però va avanti lo stesso?
R. Certo. Si nominano gli avvocati d'ufficio, si citano i testi, che sarebbero i poliziotti e i carabinieri che hanno identificato il migrante al momento dello sbarco. Ma anche questi nel frattempo potrebbero essere stati trasferiti.
D. E quindi?
R. Quindi dovranno chiedere un permesso per venire a testimoniare assentandosi dal lavoro.
D. Il processo come si conclude?
R. Con un'ammenda di 5 mila euro che non viene mai pagata perché ovviamente si tratta di imputati nullatenenti.
D. Nel frattempo però l'iter processuale costa alle casse della collettività...
R. Ovviamente sì.
D. E quanto?
R. Di preciso non lo so. Tra i 61 cancellieri, i procuratori onorari, gli avvocati d'ufficio, i giudici e i testimoni sarebbe interessante capirlo.
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Via il reato di clandestinità: l'ok del Senato
La commissione giustizia di Palazzo Madama
ha approvato un emendamento dei senatori M5s.
C'è l'ok del governo: è il primo passo
per la modifica della legge Bossi-Fini.
Globalist Sindycation - 10 ottobre 2013
La commissione Giustizia del Senato ha approvato un emendamento dei senatori del Movimento Cinque Stelle, Andrea Buccarella e Maurizio Cioffi, che elimina il reato di immigrazione clandestina. La proposta dei grillini aveva il via libera del governo. Lo rende noto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. L'emendamento riguarda la delega sulla messa alla prova.
"La sanzione penale appare sproporzionata e ingiustificata.- ha detto Ferri- E la sanzione penale pecuniaria è di fatto ineseguibile considerato che i migranti sono privi di qualsiasi bene". Oltretutto "il numero delle persone che potrebbero essere potenzialmente incriminate sarebbe tale da intasare completamente la macchina della giustizia penale, soprattutto nei luoghi di sbarco.
"Lo Stato deve regolare i flussi migratori in modo compatibile con le concrete possibilità di accogliere i migranti - ha proseguito il sottosegretario - e questo non solo per ragioni di ordine pubblico ma anche per motivi umanitari. A persone che cercano di sfuggire da situazioni di estrema indigenza e spesso disumane dobbiamo garantire un'ospitalità dignitosa. Occorre invece continuare a punire con severità chi sfrutta e favorisce questi fenomeni migratori incontrollati che possono causare tragedie come quella di Lampedusa".
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Milano, blitz contro latinos: 25 arresti
Accuse di associazione per delinquere, rapina e lesioni
lettera43.it - 08 ottobre 2013
È stata effettuata la mattina dell'8 ottobre un'operazione della squadra mobile di Milano nei confronti di una banda di latinos appartenenti alla gang Ms13.
La polizia ha eseguito 25 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti di età compresa tra i 17 ed i 36 anni, per lo più salvadoregni, accusati di associazione per delinquere, rapina, lesioni, detenzione e porto d'armi da taglio.
DUE ANNI DI INDAGINI. Gli episodi criminali per cui si procede vanno da ottobre 2010 a settembre 2012. Due anni di indagini durante i quali sono stati commessi pestaggi e aggressioni, tutti nell'ambito dello stretto controllo psicologico esercitato dal gruppo, dalla banda, che reclutava nuovi affiliati tra i giovani più intemperanti e 'difficili'.
DECALOGO E INNO. I gip di Milano che hanno emesso le ordinanze, Andrea Antonio Salemme e Rosanna Calzolari (quest'ultima del Tribunale per i minorenni) hanno fatto eseguire 25 provvedimenti restrittivi (sette dei quali a minori) alcuni dei quali domiciliari.
La squadra mobile ha anche sequestrato un opuscolo contenente il decalogo del gruppo, che aveva anche un suo inno postato sul web.
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Rifugiati accolti, Italia al sesto posto in Europa
Oltre 45 milioni di persone in fuga, donne per il 49 per cento e minori il 46 per cento. Le guerre restano la principale causa. In Italia al 2012 risultano 64.779 rifugiati. In Germania sono quasi 600 mila
Redattore Sociale - 08 Ottobre 2013
Oltre 45 milioni di persone nel 2012 sono state costrette a mettersi in fuga dai loro paesi per guerre e persecuzioni. La migrazione forzata ha mosso 42,5 milioni di persone nel 2011 e 43,7 milioni nel 2010. Dal dato complessivo riferito al 2012, risulta che l’80 per cento delle persone in fuga si trova in “paesi in via di sviluppo”, il 49 per cento sono donne e il 46 per cento sono minori di 18 anni. Quasi 29 milioni gli sfollati interni (il numero più alto da oltre vent'anni): erano 26,4 milioni nel 2011 e 27,5 milioni nel 2010. Risultano 895 mila i richiedenti asilo a fine 2011 (erano 840 mila nel 2010).
I titolari di protezione internazionale all’estero vengono principalmente dall’Afghanistan (2,7 milioni di persone) e dall’Iraq (1,4 milioni ). Seguono la Somalia (1,1 milioni), il Sudan (500 mila), Repubblica Democratica del Congo (491 mila). Nella graduatoria dei paesi che accolgono il più alto numero di rifugiati nel 2012 si conferma il Pakistan con 1,6 milioni, seguito da Iran e Germania. L'Afghanistan si è confermato in testa alla classifica dei paesi d'origine del maggior numero di rifugiati, un triste primato che detiene da ben 32 anni: in media nel mondo un rifugiato su 4 è afghano e il 95 per cento di loro si trova in Pakistan o in Iran. La Somalia è stata nel 2012 il secondo paese per numero di persone fuggite, sebbene il ritmo del flusso sia rallentato. I rifugiati iracheni erano il terzo gruppo nazionale (oltre 746 mila), seguiti dai siriani (471 mila). Il totale dei rifugiati presenti in Europa è di circa 1,6 milioni di persone.
In Italia al 2012 risultano 64.779 rifugiati (erano 58 mila nel 2011 e 56 mila nel 2010). Le domande d’asilo presentante sono state oltre 17 mila circa la metà del 2011 (37 mila). Un calo significativo, determinato prevalentemente dalla fine della fase più drammatica delle violenze in Nord Africa. Il numero di rifugiati, colloca l’Italia al 6° posto tra i paesi europei, dopo Germania (589.737), Francia (217.865), Regno Unito (149.765), Svezia (92.872), e Olanda (74.598). Rispetto al 2012 nel primo trimestre 2013 sono aumentate le persone che chiedono protezione nel nostro paese: quasi 5 mila le richieste d’asilo, il 31 per cento in più rispetto allo scorso anno. A dirlo sono i dati Eurostat riguardanti le richieste d’asilo nei 27 paesi dell’Ue (esclusa la Croazia). L’89 per cento dei richiedenti proviene dall’Eritrea, l’11 per cento dalla Nigeria, il 10 per cento dal Pakistan e dall’Afganistan e il 9 per cento dalla Somalia.
I richiedenti asilo sono mediamente molto giovani: hanno una età compresa tra i 18 e i 34 anni (76,4 per cento). I minori sono il 9,4 per cento e sono soprattutto di sesso maschile. L'Italia si colloca, inoltre, al nono posto tra i paesi con il maggior numero di richieste d'asilo pendenti, intorno a 12-13 mila. Se si guardano i dati europei, nel primo trimestre del 2013 sono state 86 mila le persone che hanno cercato asilo in uno degli Stati dell’Ue. La maggior parte provengono dalla Russia (8.435), dalla Siria (8.395) e dalla Afghanistan (5.880). Rispetto al 2012 si è registrato un aumento del 20 per cento. Il 25,7 per cento dei richiedenti asilo in Europa è un minore. Ai primi posti della classifica europea per richieste d’asilo si collocano la Germania con 21 mila e la Francia con quasi 16 mila. (slup)
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Drame de Lampedusa :
"C'était comme une mer de têtes"
Le Monde.fr Par Charlotte Bozonnet - 07.ottobre.2013
(Lampedusa, envoyée spéciale). Les traits tirés, elles en parlent encore avec émotion. Sharani et Linda étaient sur le bateau qui, le premier, a dû porter secours, jeudi 3 octobre, aux migrants africains naufragés à 600 mètres de l'île italienne de Lampedusa. Les deux jeunes femmes, la trentaine, le teint hâlé, n'ont vraiment rien de sauveteurs en mer. La première travaille huit mois par an dans une boutique de la rue commerçante de Lampedusa ; la deuxième, originaire de Catane, en Sicile, était là pour des vacances. Mais comme beaucoup d'habitants de l'île, elles ont été rattrapées par l'histoire singulière de ce caillou d'à peine 20 km2, si proche de l'Afrique.
Cette soirée du 3 octobre, elles partent avec six autres amis sur le bateau à voiles de l'un d'entre eux, pour "se baigner, dîner et profiter du coucher de soleil" à Tabaccara, une petite baie à l'eau turquoise. "Dans la nuit, explique Sharani, on a commencé à entendre des bruits étranges, lointains. On a pensé à des oiseaux." Vers 6 heures du matin, alors que les bruits persistent, les occupants du bateau décident de lever l'ancre et d'aller voir ce qui se passe. Ils découvrent alors comme des points noirs sur l'eau. "On n'a pas saisi tout de suite qu'il s'agissait de personnes", avoue la jeune femme.
Lire notre reportage Lampedusa, "une île pleine de douleur", pleure le naufrage des migrants
Lorsqu'ils comprennent, les huit amis se mettent à hisser les naufragés un par un sur leur voilier. "Plus on en faisait monter et plus ils semblaient nombreux dans l'eau. C'était comme une mer de têtes", raconte Linda. Les jeunes préviennent par radio la capitainerie, lancent un appel aux autres bateaux de l'île. Une fois à bord, les rescapés, à bout de force, s'écroulent sur le sol, sans bruit. "Ils étaient trop épuisés pour parler", souligne Linda. Beaucoup sont nus, le corps enduit de gasoil.
Les huit sauveteurs improvisés sont rapidement rejoints par une barque de pêcheurs puis par les garde-côtes. En près deux heures, ils sortent 47 migrants de l'eau. "46 hommes et une femme", précisent Sharani et Linda. A la demande des garde-côtes, le voilier reprend alors le chemin du port.
"NOUS ÉTIONS 53 SUR UN BATEAU DE 10 MÈTRES"
Lorsqu'on les interroge sur le déroulement exact des événements, les deux jeunes femmes ont du mal à être précises. A 6 h 30 environ, les premiers rescapés sont hissés sur le bateau. Combien de temps les secours ont-ils mis à venir ? Environ 45 minutes, estiment-elles, sans pouvoir attester de l'heure exacte de leur arrivée. Leur véritable frustration, celle qui restera longtemps dans l'esprit des deux jeunes femmes, est plutôt de ne pas avoir pu en sauver plus. "On voulait continuer, revenir", souligne Sharani. "Mais nous étions 53 sur un bateau de 10 mètres, il fallait rentrer", reconnait-elle.
Mis en cause pour la lenteur de leur intervention, les secours ont expliqué avoir été appelés à 7 heures et être arrivés sur place 20 minutes plus tard. Quant aux refus de laisser les embarcations privées repartir en mer, le porte-parole des garde-côtes, Filippo Marini, a rappelé que leur rôle était de coordonner les secours, "sinon ce serait le chaos".
Arrivés au port, les 47 rescapés sont pris en charge par des médecins et du personnel du centre d'accueil qui attendent sur le quai. Les deux jeunes femmes, elles, sont rentrées chez elles. "On a pris une douche", dit simplement Sharani, le regard triste. " L'Europe, le monde oublieront peut-être, mais nous ici, on n'oubliera pas."
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IL GIORNO DELL’ECATOMBE
Naufragio a Lampedusa, almeno 93 morti
Ansa - 03 ottobre 2013
"Appena possibile il Governo riferirà in Parlamento sulla tragedia di Lampedusa". E' quanto si legge in un tweet di Palazzo Chigi.
Sarebbero 93 i cadaveri recuperati fino ad ora e trasferiti sulla banchina del porto di Lampedusa, dopo il naufragio avvenuto stamani davanti alle coste dell'isola. Tra di loro anche i corpi di quattro bambini e di numerose donne.
I migranti soccorsi e salvati sono circa 150 ma diverse fonti sottolineano che il bilancio, sia dei vivi che dei morti, è ancora provvisorio in quanto diverse persone sono ancora in acqua. Uno dei presunti scafisti è stato fermato dalla polizia. E' un giovane tunisino che era stato raccolto tra i superstiti. Sarebbe stato riconosciuto da un gruppo di migranti.
L'allarme del naufragio è stato dato dall'equipaggio di due pescherecci che transitavano nella zona. Il barcone - ha detto all'ANSA il commissario straordinario dell'Asp di Palermo, Antonio Candela, che sta coordinando le operazioni di assistenza ai feriti - trasportava 450-500 migranti. Secondo i carabinieri i migranti per farsi notare dagli isolani hanno dato fuoco a una coperta e questa potrebbe essere stata la causa dell'incendio che si e' sviluppato a bordo.
"Preghiamo Dio per le vittime del tragico naufragio a largo di Lampedusa" scrive Papa Francesco su Twitter. "Viene la parola vergogna: è una vergogna!" esclama "a braccio" papa Francesco.
"Le istituzioni Ue esprimono la loro tristezza per quanto avvenuto a Lampedusa. E' una vera tragedia che ha coinvolto anche bambini. L'Ue deve vedere cosa fare per aiutare", cosi' il commissario Ue Johannes Hahn in apertura del midday briefing.
"Fatto punto su immane tragedia di Lampedusa con Alfano e vertici ministero che si recheranno subito sul luogo del disastro per i primi interventi" scrive su Twitter il premier Enrico Letta.
"Basta! Ma che cosa aspettiamo? Cosa aspettiamo oltre tutto questo? E' un orrore continuo" dice il sindaco Nicolini. "Le dimensioni non le conosciamo ancora - dice Nicolini -. Se è vero che erano 500 sul barcone e in salvo già sul molo ce ne sono soltanto 130, è davvero un orrore".
Siamo tutti vittime "consapevoli o no, di quella 'globalizzazione dell'indifferenza' che proprio a Lampedusa Papa Francesco ha denunciato in modo sferzante" afferma la presidente della Camera, Laura Boldrini, sottolineando la perdurante mancanza di soluzioni a questi drammi e annunciando che si recherà nell'isola.
Il governo riferirà al più presto in Parlamento sul naufragio a Lampedusa appena avrà acquisito dati e informazioni. Lo ha detto il sottosegretario agli Interni, Filippo Bubbico, nell'aula del Senato informando i senatori che il ministro degli Interni Alfano sta andando a Lampedusa e che il premier Letta segue con attenzione la vicenda.
"La tragedia di Lampedusa è troppo grande per poterci dedicare oggi alle vicende interne al nostro Gruppo parlamentare e al nostro Partito" afferma in una nota Silvio Berlusconi, confermando il rinvio della assemblea Pdl. Berlusconi sottolinea che il naufragio "chiama in causa l'ignavia di un'Europa assente e perfino indifferente".
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Immigrati, Consiglio d’Europa
boccia la politica ma invoca “solidarietà”
Il naufragio a Lampedusa arriva a solo un giorno dalla condanna da parte di Strasburgo sulle politiche immigratorie dell’Italia. Ieri, ancora una volta, l'organismo europeo aveva giudicato "sbagliate o controproducenti" le misure prese in questi ultimi anni per gestire i flussi migratori. Oggi una nota in cui si chiede maggiore partecipazione agli paesi europei
Ilfattoquotidiano.it – 03 ottobre 2013
“I Paesi del Consiglio d’Europa e dell’Ue devono mostrare maggiore solidarietà all’Italia e gli altri” in prima linea sul fronte degli arrivi degli immigrati irregolari. Lo sottolinea il Consiglio d’Europa in una nota sull’approvazione del rapporto che boccia la politica migratoria dell’Italia. Il naufragio a Lampedusa arriva a solo un giorno dalla condanna del Consiglio d’Europa sulle politiche immigratorie dell’Italia. Ieri Strasburgo, ancora una volta, aveva giudicato “sbagliate o controproducenti” le misure prese in questi ultimi anni per gestire i flussi migratori.
In un rapporto approvato all’unanimità dalla commissione migrazioni dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa si sottolinea che quanto fatto sinora non ha messo “l’Italia in grado di gestire un flusso che è e resterà continuo”. Il rapporto critica in particolare i ritorni forzati di immigrati in paesi, come la Libia, dove rischiano la tortura, se non la vita, la gestione dei Cpt, la decisione di dichiarare continuamente lo stato d’emergenza per “adottare misure straordinarie al di la dei limiti fissati dalle leggi nazionali e internazionali”.
Nel testo si afferma poi che “a causa di sistemi di intercettazione e di dissuasione inadeguati“, l’Italia si è di fatto trasformata in una calamita per l’immigrazione, in particolare per gli immigrati che cercano una vita migliore all’interno dell’area Schengen. E come se non bastasse nel documento si afferma che alcune delle scelte fatte dalle autorità italiane “rischiano di minare la fiducia nell’ordine legale europeo e nella Convenzione di Dublino”.
Infine, nel testo viene evidenziato che la strada sinora seguita dall’Italia “non ha aiutato a convincere gli altri paesi membri della Ue a condividere la responsabilità” per i flussi in arrivo sulle coste italiane. Nel testo, che l’assemblea dovrà discutere e votare in plenaria nei prossimi mesi, si chiede all’Italia di adottare una politica corrente che permetta al Paese di gestire in modo efficiente immigrati, richiedenti asilo e rifugiati. Secondo l’autore del rapporto, il britannico Christopher Chope, “l’Italia ha le risorse per farlo e solo facendolo potrà assicurarsi il sostegno e la solidarietà dei paesi europei”.
Il Consiglio d’Europa oggi chiede all’Italia di “chiarire con urgenza” le responsabilità che hanno le navi rispetto al salvataggio di immigrati irregolari, richiedenti asilo e rifugiati nelle acque del Mediterraneo. Certi incidenti in cui sono coinvolti i migranti salvati dai mercantili dimostrano che “c’è confusione e caos” sulle responsabilità che hanno le navi commerciali nel condurre queste operazioni.
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Naufragio Scicli, fermati 7 scafisti
Contestato anche morte per crimine,
rilasciati due bloccati ieri
Ansa - 01 ottobre 2013
Polizia,carabinieri e guardia di finanza hanno fermato 7 siriani, ritenuti i componenti dell'equipaggio del peschereccio con 160 migranti a bordo, tutti eritrei, 13 dei quali sono morti annegati a Scicli. Contestato anche il reato di morte a seguito dell'evento criminoso, ma non l'omicidio perché allo stato non ci sono prove che siano stati loro a costringere le vittime a gettarsi in mare. Rilasciati i due bloccati ieri: non sono stati riconosciuti dai compagni di viaggio.
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Siani: vita e morte
di un cronista in terra di camorra
Ansa - di Enzo La Penna - 23 settembre 2013
La notizia arrivo' in redazione verso le dieci di sera durante il ''giro di nera'' che precedeva la chiusura della prima edizione. Invertendo i ruoli fu il poliziotto di turno al centro operativo della questura a rivolgere la domanda al reporter: ''Conoscete Siani?''. Era la sera del 23 settembre 1985, il corpo senza vita di Giancarlo Siani giaceva nella sua auto nel viale di casa, in piazza Leonardo al Vomero, e la polizia ancora era alla ricerca di informazioni precise sulla figura della giovane vittima.
Fino a pochi minuti prima Giancarlo era seduto proprio alla scrivania di fronte, nello stanzone della cronaca del Mattino, dove lavorava da un paio di mesi dopo aver concluso la sua esperienza di corrispondente del quotidiano da Torre Annunziata, comune tra i piu' turbolenti dell'area vesuviana che appena un anno prima era stato teatro della piu' cruenta strage della storia della camorra (8 morti e 20 feriti).
Due killer lo avevano atteso per ore sotto casa uccidendolo con numerosi colpi di pistola. Un pentito raccontera' molti anni piu' tardi che, portata a termine la missione, gli assassini tornarono nel loro covo dove, insieme con i boss che avevano impartito l'ordine, stapparono lo spumante per festeggiare il successo dell'impresa, consistita nel colpire nascosti nell'ombra un giovane inerme.
E bisogna ammettere che dal punto di vista dei camorristi davvero rappresentava un successo l'eliminazione di quel giornalista di 26 anni che raccontava con passione e impegno civile gli affari e i regolamenti di conti tra le cosche, che faceva troppe domande in giro sul sistema di collusioni, sugli appetiti di boss e colletti bianchi che miravano agli appalti pubblici, e che pochi giorni prima di essere ucciso confidava di aver raccolto materiale esplosivo da pubblicare in un libro.
Giancarlo nel giornalismo ci era entrato attraverso la strada piu' complicata e impegnativa, consumando le suole per raccogliere notizie presso commissariati, caserme dei carabinieri, uffici giudiziari, sindacati, amministrazioni pubbliche, associazioni di volontariato.
Aveva cominciato a collaborare con il periodico ''Osservatorio sulla camorra'', poi gli si era offerta l'opportunita' della corrispondenza del Mattino da Torre Annunziata e lui, che abitava nel quartiere collinare del Vomero e quella citta' conosceva solo di nome, da quel momento si reco' ogni giorno nel comune vesuviano consapevole che le notizie te le devi cercare senza aspettare che si materializzino per incanto sulla scrivania. Quando i sicari dei clan Nuvoletta e Gionta misero fine ai suoi giorni, la carriera di Siani era a una svolta decisiva: dopo anni di gavetta stava lavorando nella sede centrale per sostituire colleghi in ferie, il che significava l'imminente assunzione in qualita' di redattore. La storia del delitto Siani si intreccia con una tormentata vicenda giudiziarie, tra inchieste sballate e piste sfociate nel nulla, che vanno dall'arresto di un pregiudicato di Castellammare assai somigliante a uno dei sicari, alla cattura di alcuni esponenti del clan di Forcella e di un rampollo della Napoli bene dalle amicizie pericolose, in un complesso scenario di camorra, ex detenuti e frequentatori eccellenti di una casa squillo su cui avrebbe indagato il giovane cronista. Con il fallimento delle inchieste cominciarono a circolare voci secondo le quali il cronista sarebbe stato eliminato per qualche oscura faccenda di carattere personale.
A dimostrazione che la mafia uccide sempre due volte. Per fortuna ad evitare che il caso venisse archiviato tra i misteri irrisolti, il pubblico ministero Armando D'Alterio decise di riaprire il fascicolo sulla base di alcuni esili indizi emersi dalle dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia, Salvatore Migliorino, cassiere del clan Gionta di Torre Annunziata. Gli inquirenti lasciarono intendere di avere molto di piu' tra le mani e il bluff funziono': i camorristi preoccupati entrarono in fibrillazione, si confidarono i loro timori e le intercettazioni li incastrarono.
Fu una reazione a catena: messi alle strette alcuni tra gli organizzatori e esecutori del delitto si pentirono. Le sentenze, confermate della Cassazione, hanno stabilito che l'omicidio fu compiuto dalle cosche dei Gionta, di Torre Annunziata, e dei Nuvoletta, di Marano. Condanne definitive per i mandanti, Angelo Nuvoletta e Luigi Baccante, e i sicari Ciro Cappuccio e Armando Del Core. La condanna a morte di Siani fu decisa dopo un suo articolo, pubblicato il 10 giugno 1986, in cui rivelava che l'arresto del boss Valentino Gionta era stato possibile grazie a una soffiata dei suoi alleati, i Nuvoletta.
La notizia era vera, ma i Nuvoletta per dimostrarne agli ''amici'' l'infondatezza, dissero che quel giornalista andava ucciso. Quell'articolo fu solo la causa scatenate, era da tempo che i camorristi erano inferociti per tutto quello che Siani raccontava. Il ricordo di Giancarlo resta vivo: per quanti hanno a cuore la legalita' e' un simbolo della lotta alle mafie, per i giovani affascinati dal giornalismo e che si battono per farsi strada in questo mestiere, un esempio da seguire.
Articolo pubblicato da "Il Mattino" del 10 giugno 1985
che decretò la sua condanna a morte
Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l'arresto del super latitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambienti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse «scaricato», ucciso o arrestato.
Il boss della Nuova famiglia che era riuscito a creare un vero e proprio impero della camorra nell'area vesuviana, è stato trasferito al carcere di Poggioreale subito dopo la cattura a Marano l'altro pomeriggio. Verrà interrogato da più magistrati in relazione ai diversi ordini e mandati di cattura che ha accumulato in questi anni. I maggiori interrogativi dovranno essere chiariti, però, dal giudice Guglielmo Palmeri, che si sta occupando dei retroscena della strage di Sant’Alessandro.
Dopo il 26 agosto dell'anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di «Nuova famiglia», i Bardellino. I carabinieri erano da tempo sulle tracce del super latitante che proprio nella zona di Marano, area d’influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare rifugio. Ma il boss di Torre Annunziata, negli ultimi anni, aveva voluto «strafare».
La sua ascesa tra il 1981 e il 1982: gli anni della lotta con la «Nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo. L’11 settembre 1981 a Torre Annunziata vengono eliminati gli ultimi due capizona di Cutolo nell'area vesuviana, Salvatore Montella e Carlo Umberto Cirillo. Da boss indiscusso del contrabbando di sigarette (un affare di miliardi e con la possibilità di avere a disposizione un elevato numero di gregari) Gionta riesce a conquistare il controllo del mercato ittico.
Con una cooperativa, la Do. Gi. pesca (figura la moglie Gemma Donnarumma), mette le mani su interessi di miliardi. È la prima pietra della vera e propria holding che riuscirà a ingrandire negli anni successivi. Come «ambulante ittico», con questa qualifica è iscritto alla Camera di Commercio dal ‘68, fa diversi viaggi in Sicilia dove stabilisce contatti con la mafia. Per chi può disporre di alcune navi per il contrabbando di sigarette (una viene sequestrata a giugno al largo della Grecia, un'altra nelle acque di Capri) non è difficile controllare anche il mercato della droga.
È proprio il traffico dell'eroina uno degli elementi di conflitto con gli altri clan in particolare con gli uomini di Bardellino che a Torre Annunziata avevano conquistato una fetta del mercato. I due ultimatum lanciati da Gionta (il secondo scadeva proprio il 26 agosto) sono alcuni dei motivi che hanno scatenato la strage. Ma il clan dei Valentini tenta di allargarsi anche in altre zone. Il 20 maggio a Torre Annunziata viene ucciso Leopoldo Del Gaudio, boss di Ponte Persica, controllava il mercato dei fiori di Pompei. A luglio Gionta acquista camion e attrezzature per rimettere in piedi anche il mercato della carne. Un settore controllato dal clan degli Alfieri di Boscoreale, legato a Bardellino.
Troppi elementi di contrasto con i rivali che decidono di coalizzarsi per stroncare definitivamente il boss di Torre Annunziata. E tra i 54 mandati di cattura emessi dal Tribunale di Napoli il 3 novembre dell'anno scorso ci sono anche i nomi di Carmine Alfieri e Antonio Bardellino. Con la strage l'attacco è decisivo e mirato a distruggere l’intero clan. Torre Annunziata diventa una zona che scotta. Gionta Valentino un personaggio scomodo anche per gli stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno indagando gli inquirenti e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della «Nuova famiglia». Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana. Con la cattura di Valentino Gionta salgono a ventotto i presunti camorristi del clan arrestati da carabinieri e polizia dopo la strage.
Ancora latitanti il fratello del boss, Ernesto Gionta, e il suocero, Pasquale Donnarumma.
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Immigrazione, 150 siriani sbarcano a Catania.
In Sicilia è emergenza
ilfattoquotidiano.it - 18 settembre 2013
Prosegue l’emergenza sbarchi in Sicilia, con le nuove rotte che dal medio oriente puntano a Catania e Siracusa. Nella scorsa notte, intorno alle 2 sono stati 150 i migranti soccorsi in prossimità proprio della costa di Catania. Uomini ma anche numerose donne, di cui tre in stato di gravidanza oltre a 43 minori, tutti provenienti dalla Siria sono stati intercettati da un mercantile battente bandiera maltese, il “N. Loire” dopo una segnalazione arrivata tramite un telefono satellitare. Concluse le operazioni di carico la nave ha trasportato i migranti in prossimità del porto di Catania dove sono stati presi in consegna da un’altra imbarcazione, la motovedetta “Città di Siracusa” che ha provveduto al trasporto finale fino alla banchina del molo 8. Possibile tra l’altro la presenza degli scafisti all’interno del nutrito gruppo. Numerose le donne trasferite negli ospedali della città per le precarie condizioni di salute. Soltanto la sera prima erano stati quasi mille gli uomini soccorsi nel Canale di Sicilia dalla Guardia costiera e dalla Marina militare dirottati tra Porto Palo (Agrigento) e l’isola di Lampedusa. Gli sbarchi, favoriti dal clima mite, pare potrebbero proseguire anche nei prossimi giorni.
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Soldati Israele ballano con palestinesi
Video in rete, esercito avvia indagine
e sospende militari
Ansa - 29 agosto 2013
Alcuni soldati israeliani di pattuglia a Hebron, in Cisgiordania, hanno deciso di unirsi a un party cominciando a ballare, in completa tenuta militare, insieme agli altri invitati palestinesi al ritmo scatenato di 'Gangnam style'. Lo mostra un video riprodotto dai media israeliani che sottolineano ''il comportamento non convenzionale'' dei soldati. L'esercito israeliano non sembra aver gradito sia per ragioni di regole sia per motivi di sicurezza dei soldati che sono stati sospesi.
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Sbarchi immigrati: in 350 salvati in Sicilia,
donna partorisce a bordo
Nelle prime ore del mattino la Marina militare ha avvistato un peschereccio a circa 55 chilometri a est di Siracusa: a bordo c’erano circa 200 immigrati tra cui donne e bambini. Probabilmente sono di origine siriana. Un altro barcone segnalato a 15 miglia da Capo Murro di Porco.
fanpage.it - 28 agosto 2013
Ore 10.45 – Sono in totale circa 350 gli immigrati arrivati nelle ultime ore in Sicilia: due i barconi carichi di profughi che sono stati avvistati e messi in salvo in mattinata. Poche ore dopo l’imbarcazione con 199 profughi siriani salvata a Siracusa, un secondo barcone è stato segnalato da un motopesca a 15 miglia da Capo Murro di Porco. A bordo c’erano 155 persone che sono state poi raggiunte e imbarcate su due motovedette della Capitaneria di porto per essere portate nel porto di Siracusa. Anche in questo caso ci sono molte donne e bambini. Intanto si è appreso che tra i 199 migranti soccorsi all’alba c’era anche una bambina di appena 4 giorni: la piccola sarebbe nata durante la navigazione. Sia lei che sua madre sono in buone condizioni fisiche e sono state immediatamente assistite dal personale della Croce Rossa, sulla banchina del Porto Grande.
Nuovo sbarco di immigrati sulle coste siciliane: un barcone con a bordo circa 200 profughi è stato soccorso all’alba di questa mattina al largo di Siracusa in un’operazione cui hanno preso parte la nave “Foscari” della Marina Militare e alcune motovedette della Guardia costiera e della Guardia di Finanza. Tra i 200 profughi, di probabile origine siriana, ci sono diverse donne e bambini. Sono stati condotti nel Porto Grande di Siracusa. L’imbarcazione alla deriva era stata individuata da un velivolo della Marina Militare partito da Sigonella nel pomeriggio di ieri.
Precarie condizioni di galleggiabilità dovute al sovraffollamento - “Il pattugliatore Foscari giunto in prossimità del peschereccio e accertate le precarie condizioni di galleggiabilità dovute al sovraffollamento iniziava le operazioni di soccorso”, si legge nel comunicato della Marina. Agli immigrati sono stati somministrati generi di conforto e assistenza medica, poi sono stati imbarcati a bordo del pattugliatore della Marina Militare e sulle motovedette intervenute in concorso alle operazioni di trasbordo. “I mezzi della Marina Militare e della guardia di Finanza – si legge ancora nel comunicato – hanno poi ripreso la navigazione verso il porto di Siracusa”.
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Decadenza, Berlusconi verso la vittoria.
Per assenza degli avversari
ilfattoquotidiano.it di Peter Gomez 27 agosto 2013
“Chi è veramente esperto nell’arte della guerra sa vincere l’esercito nemico senza dare battaglia, prendere le sue città senza assediarle e rovesciarne lo Stato senza operazioni prolungate”. Bisogna leggere la plurimillenaria opera del grande generale e filosofo cinese Sun Tzu, autore de L’Arte della Guerra, per avere la fotografia esatta della piega presa dal dibattito sulla decadenza da senatore del pregiudicato Silvio Berlusconi. Senza aver sparato un solo colpo il Cavaliere è a un passo dalla vittoria. Intimoriti dal volteggiare dei falchi, blanditi dal tubare delle colombe, ammaliati dal sibili ricattatorii della Pitonessa, i sempre più teorici avversari dell’ex premier paiono prepararsi alla ritirata.
L’annuncio è stato significativamente dato da due dei supposti dieci saggi di Giorgio Napolitano. Secondo Valerio Onida (saggio in quota Sel) e Luciano Violante (saggio in quota Pd) la legge Severino sulla decadenza dei condannati va sottoposta all’esame della Corte Costituzionale. Entrambi sono certi che la norma, approvata pochi mesi fa dal parlamento quasi al completo, sia perfettamente legittima. Tutti e due spiegano che non è una legge penale e che quindi ha valore retroattivo. Ma con salto carpiato aggiungono che sollevare un’eccezione davanti alla Consulta non sarebbe una “dilazione”, ma l’applicazione della Costituzione. Anzi, spiega Violante, Berlusconi tanto che c’è potrebbe pure rivolgersi pure alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Lasciamo ad altri il dibattito sulla questione giuridica. I pareri in proposito si sprecano e sono nel 99 per cento dei casi concordi nell’affermare che la giunta per le immunità del Senato non può sollevare la questione davanti alla Corte. Anche perché un parlamento che impugna una legge chiarissima appena fatta entrare in vigore è materia da esperti in malattie mentali, non da tecnici del diritto.
Più interessante è invece capire la strategia seguita dal Cavaliere frodatore del fisco per tentare di uscire dai guai. Un piano che, se realizzato, potrebbe permettergli di restare a Palazzo Madama, non per mesi, ma per anni.
La manovra ideata prevede più tappe. Il ricorso alla Consulta, che tanto piace agli uomini più vicini al Colle, se otterrà il via libera parlamentare partirà infatti solo a metà autunno. Tenuto conto dei tempi della Corte difficilmente verrà esaminato prima della tarda primavera o dell’estate del 2014. E anche se verrà respinto ci vorranno poi altri mesi per votare la decadenza.
Ipotizzare che il Cavaliere arrivi al 2015 ancora indossando il laticlavio non è insomma troppo sbagliato.
Contemporaneamente, come fatto balenare dallo stesso Berlusconi durante il vertice di Arcore di sabato 24 agosto, l’ex premier chiederà l’affidamento in prova ai servizi sociali. In questo modo la Corte di Appello di Milano e poi la Cassazione che dovranno stabilire la durata della sua interdizione dai pubblici uffici saranno costrette a venirgli incontro. Visto il suo buon comportamento l’interdizione non sarà più di tre anni (il massimo consentito), ma molto inferiore. Forse un anno o un anno e mezzo.
Anche qui poi ci vorrà un voto dell’assemblea per arrivare alla decadenza. Ma già in passato - è accaduto nel caso del forzista Gianstefano Frigerio condannato per corruzione, concussione, finanziamento illecito e ricettazione – i parlamentari hanno finito per ritenere estinta l’interdizione dai pubblici uffici dei propri colleghi pregiudicati “in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali”. Non c’è quindi ragione per ritenere che Berlusconi subisca un trattamento diverso da quello di Frigerio.
A quel punto si entra in nuovi affascinanti scenari: è divertente (o agghiacciante, a seconda dei punti di vista) immaginare cosa accadrà se il Senato dovesse calendarizzare il voto sul Berlusconi interdetto dai pubblici uffici prima di quello sul Berlusconi decaduto a causa della legge Severino.
Da una parte i colleghi gli diranno che può restare con loro perché ormai riabilitato, dall’altra dovranno (o dovrebbero) espellerlo in virtù di norme ideate per tutelare la reputazione delle istituzioni infangate dalla presenza di condannati al loro interno. Lo faranno con facilità? Dubitare è lecito. Più semplice è credere che assisteremo a nuove settimane di snervanti discussioni, magari in attesa della Corte europea dei diritti dell’Uomo, i cui tempi sono ancora più lunghi rispetto a quelli della Consulta.
Certo, Berlusconi ha anche altri processi in corso. Nel 2014 si dovrebbe, per esempio, celebrare l’appello per il caso Ruby. Ma questo, per il momento, non è un problema. Anche in caso di conferma della condanna in secondo grado la Cassazione non si esprimerà prima del 2015 o forse anche più in là, visto che i reati contestati non si prescrivono.
Il tempo che voleva, insomma, l’ex premier sente di averlo ormai quasi in tasca. Per questo adesso ha ordinato ai suoi di tacere. Dal Colle il segnale che chiedeva, tramite Violante e Onida, è arrivato. Ora spera in quello del Pd. Ma non ha fretta. Bisogna lasciar lavorare la Giunta. I generali impazienti, insegna Sun Tzu, perdono le guerre. E lui almeno quelle politiche da vent’anni a questa parte è abituato a vincerle. Di solito per la momentanea assenza del nemico.
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Napoli, pallottole contro i migranti.
Una vittima: “Perché l’hanno fatto?”
ilfattoquotidiano.it di Andrea Postiglione 27 agosto 2013
“Perché, perché mi hanno fatto questo?”. È il mantra che B.C., giovane senegalese che vive in Italia da sette anni con regolare permesso di soggiorno, si ripete dalla notte di lunedì scorso, quando due balordi in sella a uno scooter gli hanno esploso un colpo da arma da fuoco, mancandolo di poco. La vicenda è stata denunciata dall’Associazione 3 febbraio, pochi giorni il ferimento a colpi di pistola di un altro extracomunitario, questa volta nigeriano. “Stavo andando a dormire a casa di un amico – dice B. alle telecamere del fattoquotidiano.it – e ho sentito delle urla dietro di me, non so se è perché volevano che mi girassi per colpirmi o se qualcuno volesse avvisarmi del pericolo. Poi ho sentito un colpo, ma non pensavo fosse di pistola. Quando ho alzato la testa ho visto due ragazzi sullo scooter e quello seduto dietro stava ricaricando l’arma. Mi sono girato e ho corso”. “Mi è venuta una rabbia enorme – racconta – e mi sono detto che sarebbe stato troppo facile lasciar correre la cosa. Quindi ho fatto denuncia dai carabinieri”. Poi, B. si lascia andare a uno sfogo di rabbia: “Io non ho fatto niente. Non ho amici napoletani, né rapporti con loro, ma non ho mai avuto problemi. Non vendo droga, non ho mai fatto niente di male. Per questo mi chiedo perché: se cercavano qualcuno non sono la persona giusta; se l’hanno fatto perché sono nero, beh non è colpa nostra se siamo neri o bianchi; e se l’hanno fatto per divertimento, lo facessero tra loro, non con noi africani”
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Kyenge a Cantù, ancora insulti e razzismo.
“Lancio banane? Meglio che noci cocco”
Il ministro era stato invitato dal sindaco della città brianzola.
Due esponenti del Carroccio e un ex se ne vanno "per protesta".
A Verona denunciato a piede libero un sessantunenne
che su Facebook aveva scritto di voler "accogliere con le armi la ministra negra"
ilfattoquotidiano.it 29 luglio 2013
Non si fermano in Veneto gli attacchi della Lega al ministro per l’integrazione Cecile Kyenge. Dopo le esternazioni dell’assessore veneto Daniele Stival, criticato dal presidente Luca Zaia, e della consigliera di quartiere padovana Dolores Valandro, condannata per le sue frasi choc a un anno e un mese con la sospensione della pena, tocca ora all’assessore alla sicurezza di Montagnana e consigliere provinciale, Andrea Draghi. Lo denuncia una deputata del Pd, Giulia Narduolo, diffondendo la foto del post di qualche giorno fa sulla pagina Facebook, in cui l’esponente del Carroccio paragona l’esponente del governo ad un gorilla, copiando lo slogan di una pubblicità televisiva (“Dino dammi un crodino”).
Offese che si aggiungono alla denuncia per diffamazione da parte della Digos di Verona di un uomo di 61 anni che sul medesimo social network ha insultato la “ministra negra”, domenica nel veronese, aggiungendo la minaccia di far uso delle armi contro di lei. Agli investigatori si è giustificato dicendo di essersi sfogato scompostamente per un furto subito nella sua abitazione ad opera di extracomunitari.
L’assessore Draghi per ora tace. Il suo cellulare risulta staccato: “E’ all’estero” spiega laconicamente il sindaco e collega di partito, Loredana Borghesan, a cui è stato chiesto di ritirare le deleghe. “E’ partito ieri – aggiunge – . Appena riuscirò a sentirlo chiarirò la questione con lui”. A prendere immediatamente le distanze da Draghi e il governatore Zaia. “Un atto che, se confermato – taglia corto -, è da condannare senza se e senza nella maniera più assoluta. Questo signore si scusi e tolga la foto dal suo profilo. Il partito prenda immediatamente le distanze e i provvedimenti del caso”. Dello stesso avviso il segretario padovano del Carroccio, Roberto Marcato. “Sono davvero stanco di questi leghisti da Facebook che stanno vanificando il lavoro che sta facendo il nostro segretario Roberto Maroni e le nostre battaglie. La condanna – sentenzia – è senza attenuanti”.
Sono insulti razzisti inaccettabili, espressioni di inciviltà lontani anni luce dallo spirito di accoglienza della nostra regione – bolla la questione il deputato Udc Antonio De Poli -. Queste affermazioni lasciano esterrefatti. La Lega continua a danneggiare l’immagine del Veneto”.
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Crisi, debito pubblico al 130,3% del Pil.
Nuovo record, peggio solo la Grecia
Allarme dell'Eurostat dopo che anche la Banca d'Italia ha segnalato un nuovo massimo, a quota 2.074,7 miliardi. Nell'intera Eurozona è invece salito al 92,2% rispetto al 90,6% dell’ultimo trimestre del 2012
Il Fatto Quotidiano - 22 luglio 2013
Il debito pubblico italiano segna un nuovo record. Nel primo trimestre del 2013 ha sfondato quota 130%, assestandosi al 130,3% del Pil, dal 127% del trimestre precedente. E solo la Grecia, sottolinea l’Eurostat, ha un debito più elevato dell’Italia, al 160,5%.
Nell’Eurozona, invece, il rapporto debito/Pil è salito nel primo trimestre dell’anno al 92,2% rispetto al 90,6% dell’ultimo trimestre del 2012, mentre nell’Ue a 27 dall’85,2% all’85,9%. Nel primo trimestre dello scorso anno il rapporto debito/Pil era rispettivamente dell’88,2% e dell’83,3%. Fra i Paesi membri, il debito più alto è stato registrato in Grecia (160,5%), Italia (130,3%), Portogallo (127,2%) e Irlanda (125,1%), mentre quello più basso in Estonia (10%), Bulgaria (18%) e Lussemburgo (22,4%).
Nei giorni scorsi anche la Banca d’Italia ha fatto sapere che il debito italiano ha raggiunto un massimo storico, salendo a maggio 2013 di 33,4 miliardi, a quota 2.074,7 miliardi. L’aumento, ha spiegato via Nazionale, “riflette principalmente l’incremento di 20,4 miliardi delle disponibilità liquide del Tesoro (che hanno raggiunto 62,4 miliardi, contro 35,8 nel mese di maggio del 2012) e il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche del mese (11,5 miliardi)”.
Torna quindi il dibattito su come risolvere il problema del debito, che pesa sempre più sulle spalle dell’Italia. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha parlato nei giorni scorsi della possibilità di privatizzare per fare cassa e alleggerirsi dall’indebitamento. “Non è escluso che il Tesoro decida di cedere quote di società pubbliche – incluse Eni, Enel e Finmeccanica – per ridurre il debito”, ha affermato il ministro a margine dei lavori del G20 di Mosca, sottolineando che bisogna considerare anche la possibilità di “usarle come collaterali per la riduzione del debito”.
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Alfano e Calderoli, si salvi chi può?
ilfattoquotidiano.it di Peter Gomez - 17 luglio 2013
A ribadire che ormai la nave Italia segue testarda solo la rotta per il naufragio, arrivano le ultime notizie dalla tolda di comando: il Parlamento. Come era prevedibile e previsto nessuno si è dimesso: Roberto Calderoli, il vicepresidente razzista del Senato, e Angelino Alfano, l’ennesimo ministro dell’Interno a sua insaputa, restano ancora ai loro posti. E, va detto subito, è bene che resistano.
Per chi si informa e s’interessa di politica la coppia rappresenta la plastica incarnazione di un Paese passato dal declino al degrado. Se il duo scomparisse qualche elettore correrebbe anzi il rischio di credere che le cose sono davvero destinate a migliorare. Ma certe illusioni, dopo anni di promesse, è più igienico non darle. Meglio invece urlare: calate le scialuppe, si salvi chi può!
Per questo, davanti alle carriere di Alfano e Calderoli, vale solo la pena di citare Petrolini e il suo memorabile: “Io non ce l’ho con te, ma con chi non ti butta di sotto”. Prendersela coi due non è sbagliato. È inutile. Loro fanno quel che possono, quel che sanno (in effetti niente, ci ha spiegato Alfano parlando dello scandalo kazako) e soprattutto quello che hanno sempre fatto.
Guardate Calderoli, oggi nel mirino per aver paragonato il ministro Kyenge ad un orango. Negli ultimi anni ha definito gli immigrati “bingo bongo”; si è presentato in tv con una maglietta contro Maometto, scatenando manifestazioni violente davanti alle sedi diplomatiche italiane e le chiese cristiane in vari paesi arabi; ha pascolato un maiale (il suo) a Lodi sui terreni dove doveva essere costruita una moschea e poi, tanto per rasserenare gli animi di eventuali aspiranti kamikaze, ha indetto il Maiale day in ottica anti-Islam.
Autore della peggior legge elettorale della Repubblica italiana, da lui stesso ribattezzata porcata (e non a causa dell’ossessione per i suini di cui sopra), nel 2012 è pure stato salvato dalla maggioranza dei colleghi del Senato da un processo per truffa aggravata. A spese dei contribuenti aveva preso un volo di Stato per motivi personali facendo però risultare “con artifici e raggiri”, secondo il tribunale dei ministri, di avere impegni istituzionali in Piemonte.
Un miracolato insomma: “Su me stesso non avrei scommesso una lira”, ha confessato un giorno in preda a un chiaro eccesso di autostima. Un leader da osteria che però il 21 marzo del 2013, invece che ritrovarsi in un’aula di giustizia, vede un’altra aula, quella di Palazzo Madama, eleggerlo vice presidente.
Poche settimane dopo la scena si ripete col governo: Pd e Pdl votano tra poche defezioni la fiducia all’esecutivo Letta junior. Vice-premier è Alfano, abituato a fare da spalla al nipote di Gianni Letta fin dai tempi di Vedrò, la fondazione cofondata nel 2005.
A quell’epoca Angelino aveva già donato il proprio cognome al Lodo Alfano, la legge anticostituzionale ideata per tentare di salvare il Capo (suo e dello zio di Enrico). Ma ovviamente non si era accorto che la norma non stava in piedi. Esattamente come non si era reso conto di aver partecipato, nel 1996, al matrimonio della figlia del boss di Palma di Montichiaro, Croce Napoli, e di aver pure baciato il padre della sposa (“non ho nessuna memoria o ricordo di questo matrimonio, attenti a pubblicare una notizia del genere”, dirà nel 2002).
Distratto infatti il ministro dell’Interno lo è da sempre. Impreciso pure. Nel 2009, da Guardasigilli, arriva persino a dimostrarlo con candore davanti ai colleghi della Camera. Parlando di intercettazioni Angelino dice: “Secondo un mio calcolo empirico e non scientifico (sic), è probabilmente intercettata una grandissima parte del Paese: nel 2007, ben 124.845 persone. Ma poi ciascuna fa o riceve in media 30 telefonate al giorno. Così si arriva a 3 milioni di intercettazioni”.
I dati veri però raccontavano altro. Le persone intercettate non erano più di 10mila. Perché il responsabile della Giustizia confondeva il numero di bersagli, ovvero i soggetti effettivamente ascoltati, con quelli delle loro utenze (anche più di cinque a bersaglio), e sommava tra loro le proroghe dello stesso decreto d’ascolto (che dura 20 giorni ed è reiterabile fino a 2 anni).
Ma che ci si può fare? Alfano è fatto così. In Parlamento, nel Pd e nel suo partito lo sanno tutti. Infatti lo hanno nominato vice-premier e ministro dell’Interno. E checché ne dica il M5S, Sel o Matteo Renzi, è giusto che continui ad esserlo. Alla faccia di una bambina di sei anni e di una madre rispedite in Kazakistan nelle grinfie di un dittatore, di un Viminale fatto traballare nei vertici come mai era successo prima, di un governo di ora in ora più impotente. Se perde la poltrona, la perdono anche gli altri. Il problema qui non è lui che vuole restare. Sono loro che non se ne vogliono andare.
Agguantate un salvagente: buon naufragio a tutti.
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Caso Ablyazov: Alfano: 'Io non sapevo'.
L'Ue chiede informazioni
Terremoto al Viminale, via Procaccini e Valeri.
Venerdì al Senato mozione di sfiducia al ministro
Ansa di Fabrizio Finzi - 17 luglio 2013
I vertici del Governo non sono stati informati della delicata vicenda dell'espulsione di Alma Shalabayev, moglie del dissidente kazako Ablyazov, e questo rappresenta un fatto gravissimo che non si deve mai più ripetere. Per questo sono state accettate le dimissioni del capo di Gabinetto, Procaccini, e quelle del capo della segreteria del dipartimento, Valeri. E' questa la linea del Governo che Angelino Alfano ha oggi spiegato al Parlamento - prima al Senato e poi in serata alla Camera - mentre il Pd resta silenzioso e in attesa non nascondendo il forte disagio nel quale sta vivendo le ripercussioni interne di quello che ogni giorno che passa sta diventando sempre più un pasticcio di livello internazionale.
"In queste ore ci preoccupano le molte reazioni a livello europeo di una vicenda che non può essere derubricata ad esclusivo fatto interno", spiega una fonte governativa dando voce ad alcune perplessità che si stanno materializzando anche a Bruxelles intorno ad una 'spy story' che ha ramificazioni in diversi Paesi.
A partire dalla Gran Bretagna dove si trova proprio oggi in visita il premier Enrico Letta. Il quale continua a mostrare nervi saldi anche da Londra: "non ho dubbi che il governo andrà avanti e supererà questi ostacoli", ha replicato a un giornalista inglese che gli chiedeva se il governo avrebbe retto all'urto progressivo della vicenda kazaka e della eventuale condanna di Silvio Berlusconi. Se il premier fa sfoggio di ottimismo, nel Pd non si nasconde che si profilano giornate ad altissimo rischio per la maggioranza: il ministro dell'Interno passerà infatti dalle forche caudine della mozione di sfiducia individuale - chiesta sia da Sel che da M5S - solo venerdì prossimo. Quasi tre giorni di fuoco che il Colle osserva dall'alto - per ora silenzioso - ma con grandissima preoccupazione.
Anche perchè, mentre il caso Kyenge sembra lentamente riassorbirsi, il Governo è alle prese con la quadratura del cerchio di due provvedimenti decisivi per la vita dell'esecutivo, Imu ed Iva. In questo terreno friabile si inserisce ancora una volta Matteo Renzi che punge la maggioranza chiedendo che sia proprio il premier a metterci la faccia e a riferire in aula. Il sindaco di Firenze cerca di dare corpo all'irritazione di molti parlamentari del Pd che vacillano di fronte ai continui colpi di scena di questo giallo a puntate. Per fortuna dell'esecutivo il voto di venerdì sulla sfiducia ad Alfano sarà a scrutinio palese altrimenti - come si scherza a Montecitorio - "lo spettro dei 101" che impallinarono Prodi avrebbe potuto rimaterializzarsi beffardo.
"La relazione del ministro Alfano è poco convincente e lascia spazio a numerosi ed inquietanti dubbi. Serve l'intervento in aula del Premier Enrico Letta", motivano i renziani. Mentre il Pdl è compatto a difendere il proprio vicepremier, la compagine governative cerca di serrare i ranghi per resistere a nuovi scoop giornalistici che potrebbero rivelarsi letali: "il Governo deve fare quadrato ed esprimere solidarietà al ministro dell'Interno Alfano perché il lavoro di un ministero si basa sul principio della leale collaborazione", ricorda il ministro della Difesa, Mario Mauro.
E poi tutti sanno che con le dimissioni di Alfano, o la sua improbabile sfiducia in aula, "sarebbe la crisi", ha spiegato senza mezzi termini il segretario del Pd Guglielmo Epifani. Nel frattempo, dopo la prima 'purga' che ha colpito Procaccini e Valeri, il governo si muove anche all'esterno e ha annunciato che presto sarà convocato l'ambasciatore kazako a Roma. Appuntamento che vedrà però il ministro Bonino potersi interfacciare probabilmente solo con l'incaricato d'affari in quanto l'ambasciatore al momento si troverebbe fuori Roma.
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Caso Kazakistan, ombre su Alfano.
Gli uomini del ministro sapevano del blitz
Il capo di Gabinetto del Viminale Procaccini contattato dall'ambasciatore Yemessov e coinvolto nelle riunioni prima del blitz del 28 maggio. Bonino: "Informai il ministro dell'Interno il 2 giugno". Le prime relazioni interne il 3 giugno. Ma per 45 giorni tutto appare "perfettamente rispettoso delle norme". Il vicepremier: "Cadranno delle teste"
Il fatto quotidiano.it - 14 luglio 2013
Davvero il ministro Alfano non sapeva della ‘rendition’ che ha riportato in Kazakistan Alma Shalabayeva e sua figlia Alua? Le ricostruzioni di queste ore sembrano mettere in dubbio la tesi di un Alfano all’oscuro di tutto. Che fosse immediatamente prima, o immediatamente dopo il “rapimento”, il ministro dell’Interno qualcosa deve avere saputo, ma non ha agito fino allo scorso venerdì, quando insieme ai colleghi Cancellieri e Bonino e al premier Letta è stato deciso di revocare il decreto di espulsione. Troppo tardi, come è noto, visto che la moglie del dissidente kazako si trova oggi in patria, sottoposta ad obbligo di dimora.
La ricostruzione del ruolo del Viminale
Di certo, ricostruiscono tanto il Corriere della Sera che Repubblica, il ministro non sapeva ma il suo staff sì. Sapeva il capo di Gabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini, che viene contattato il 27 maggio dall’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov dopo che questi ha inutilmente tentato di contattare Alfano in persona. Il dissidente Ablyazov sarebbe a Casal Palocco e i kazaki chiedono che sia arrestato in quanto pericoloso criminale. Il giorno dopo, secondo la ricostruzione, Procaccini incontra lo stesso Yelemessov e il suo primo consigliere. All’incontro partecipa anche il prefetto Alessandro Valeri, capo della segreteria del dipartimento della Pubblica Sicurezza – l’ufficio del capo della Polizia, in quei giorni vacante prima dell’insediamento di Pansa che sarà nominato il 31 maggio e si insedierà il giorno dopo. Valeri mette in moto il vice capo della Polizia Francesco Cirillo e il capo della squadra mobile Renato Cortese. Da lì in poi, secondo le risposte rese a Repubblica dall’entourage del ministro e secondo la versione ufficiale, Alfano non saprà più nulla, non verrà più contattato né interpellato sulla materia. E’ davvero così? Di certo, l’efficienza comunicativa non corrisponde alla celerità con cui quella stessa sera scatta il blitz nella villa di Casal Palocco: Ablyazov non c’è. Sua moglie e sua figlia sì, e si avvia la rapidissima procedura di espulsione più volte raccontata che porta al rimpatrio della donna e della bambina il 31 maggio con il jet privato noleggiato dalle autorità kazake.
La Farnesina e l’ufficio cerimoniale
Solo allora, a cose fatte, nella versione ufficiale entra in scena anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, che viene informata dell’accaduto dallo studio Olivo-Vassalli che difende la donna il giorno 31 e a sua volta informa Letta e Alfano. E’ la stessa Bonino a spiegare a Repubblica di avere raccontato della vicenda il 2 giugno alla parata per la festa della Repubblica: il ministro degli Esteri prende da parte il collega dell’Interno e il premier Letta che sembrano cadere dalle nuvole. Bonino descrive un Alfano ‘furibondo’: “Gli dissi di seguire il caso Kazakistan di persona”.
“Sono ben consapevole della gravità di questa vicenda – continua Emma Bonino – e della pessima figura fatta dall’Italia, e non a caso dalla notte del 31 maggio, da quando ne sono venuta a conoscenza, quasi non mi sono occupata d’altro. Tutto quello che posso fare io lo farò. Qualcuno dovrà pagare, dovrà dire davanti all’opinione pubblica: si sono stato io”. Bonino dice di non aver pensato alle dimissioni: “Quando ho saputo di questa storia quella poveretta era già in Kazakistan, non sarebbe servito a nulla un gesto politico di quel tipo”. Il ministro si dice “convinta che, a livello politico, i ministri non fossero informati, il che è ancora peggio per certi aspetti. Non c’è traccia di un coinvolgimento del livello ‘politico’ in questa storia. Evidentemente – osserva – la pressione da parte del Kazakhstan è stata fortissima, ma si è scaricata ai livelli più bassi. Può darsi che abbiano approfittato del vuoto di potere al vertice degli apparati prima del 31 maggio”.
Non tutti i dettagli sono chiariti, tuttavia. L’ufficio cerimoniale della Farnesina è informato dell’esistenza della donna già dal 29 maggio, quando risponde con un fax alla richiesta di informazioni della Questura che vuole conoscere eventuali coperture diplomatiche della donna. Per il ministero era impossibile collegare Alma al marito, in quella occasione, perché il cognome usato era quello da nubile. Una posizione ribadita ancora oggi in via ufficiale dal ministero con una nota.
“Con riferimento ad alcune interpretazioni apparse su organi di stampa odierni sul provvedimento di espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua – si legge – la Farnesina ribadisce che: il Ministero degli Esteri non ha alcuna competenza in materia di espulsione di cittadini stranieri dall’Italia né, in base alla normativa, ha accesso ai dati relativi a cittadini stranieri ai quali sia riconosciuto da Paesi terzi lo status di rifugiato politico”. La Farnesina poi precisa che “la sola prerogativa del ministero degli Esteri è di verificare l’eventuale presenza nella lista di agenti diplomatici accreditati in Italia di nominativi che possano essere di volta in volta segnalati dalle autorità di sicurezza italiane”. Infine, conclude la nota, “nel caso di specie, in conformità con la prassi vigente, nessuna indicazione è stata fornita alla Farnesina circa i motivi della richiesta di informazioni sull’eventuale status diplomatico della signora Shalabayeva”.
Quaranta giorni persi
Insomma, il ministero degli Esteri ha risposto a domanda specifica con risposta specifica. E in questo modo si tira fuori dai giochi. Restano molti altri dubbi. E’ possibile che il ministro dell’Interno sia all’oscuro di ciò che sta succedendo nei giorni tra il 28 e il 31 di maggio quando i suoi funzionari sono coinvolti? E’ possibile che il ministro dell’Interno non sia informato di una operazione che coinvolge 40/50 uomini della polizia per arrestare un “pericoloso criminale” e si risolve con l’espulsione di sua moglie? La prima relazione sull’accaduto richiesta da Pansa alla Questura e all’Ufficio Immigrazione arriva al Viminale il 3 giugno. E allora perché quando la questione appare per la prima volta sui giornali – è il 5 di giugno – Alfano si affretta a dire che tutto si è svolto correttamente se poi – quaranta giorni dopo – Palazzo Chigi decide di revocare l’espulsione?
“Cadranno delle teste”
Di certo qualcuno pagherà. E con ogni probabilità non sarà Alfano. Anzi, il ministro dell’Interno è pronto a “far cadere diverse teste”. Entro mercoledì prossimo, Alfano vuole sul suo tavolo la relazione dell’inchiesta interna commissionata al capo della Polizia Pansa. Il vice di Letta continua a sostenere di non avere saputo nulla. Lui ci fa una figuraccia, ma la carriera ce la rimetterà qualcun altro.
Questura di Roma: “Alma non è stata maltrattata”
Intanto la questura di Roma, facendo riferimento alle dichiarazioni di Alma Shalabayeva, ha smentito che la donna abbia subito maltrattamenti durante il blitz del 29 maggio nella villa di Casalpalocco. ”In relazione alle dichiarazioni rese agli organi di informazione da Alma Shalabayeva – si legge in una nota – si smentisce che la stessa abbia subito alcun tipo di maltrattamento nel corso dell’operazione di polizia giudiziaria, effettuata all’alba del 29 maggio e di cui è stato dato puntuale riferimento all’autorità giudiziaria competente”.
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Lampedusa, Papa:
“Cultura del benessere porta a
globalizzazione dell’indifferenza”
Durante l'omelia della messa al campo sportivo dell'isola, Papa Bergoglio ha attaccato duramente l'atteggiamento disinteressato della gente di fronte alla tragedia dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane
ilfattoquotidiano.it di Francesco Antonio Grana - 8 luglio 2013
“Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno. Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io”. La condanna di Papa Francesco all’indifferenza davanti alla tragedia degli immigrati morti in mare è arrivata puntuale e durissima, stamane, nell’omelia della messa celebrata a Lampedusa, nel suo primo viaggio apostolico. “Oggi – ha affermato il Papa – nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del buon samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ‘poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, – ha aggiunto Francesco – ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”.
Francesco ha incalzato tutti i presenti con un esame di coscienza collettivo. “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società – ha spiegato il Papa – che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza”. Un vero e proprio mea culpa quello pronunciato a Lampedusa da Francesco. “Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito”. “Domandiamo al Signore – è la preghiera del Papa – la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”.
Francesco ha voluto esprimere anche “gratitudine” e “incoraggiamento” agli abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza che hanno mostrato attenzione agli immigranti. “Voi – ha detto loro il Papa – siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà“. Un altro pensiero di gratitudine Bergoglio lo ha rivolto ai “cari immigrati musulmani che stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa – ha detto loro – vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie”.
Per un giorno un’anonima Fiat Campagnola targata 081268 MI, offerta da un milanese che da vent’anni è di casa a Lampedusa, è diventata la celebra papamobile SCV1. Nelle mani di Papa Francesco, del Pontefice argentino che vuole “una Chiesa povera e per i poveri” e che da arcivescovo di Buenos Aires celebrava spesso messe in strada con gli ultimi della sua grande diocesi, un calice e una croce astile realizzati con il legno dei barconi che trasportano a Lampedusa migliaia di immigrati. Ma molto spesso trovano la morte durante il lungo viaggio della speranza prima di arrivare alla “Porta d’Europa“. Dal 1999 al 2012 nell’isola siciliana sono sbarcate 200mila persone. Dall’inizio del 2013 a oggi gli arrivi sono stati 4mila.
“Il Papa è andato a Lampedusa per piangere i morti”, ha spiegato ai giornalisti il suo segretario particolare, il maltese monsignor Alfred Xuereb. Francesco, infatti, profondamente toccato dal recente naufragio di un’imbarcazione che trasportava migranti provenienti dall’Africa, ultimo di una serie di analoghe tragedie, ha voluto pregare per coloro che hanno perso la vita in mare, visitare i superstiti e i profughi presenti, incoraggiare gli abitanti dell’isola e fare appello alla responsabilità di tutti affinché ci si prenda cura di questi fratelli e sorelle in estremo bisogno. “Quando alcune settimane fa – ha confidato ai presenti Bergoglio – ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”.
Una visita discreta senza i vescovi della Sicilia e i rappresentati del Governo italiano: è lo stile di Francesco che vuole davvero abbracciare gli ultimi. Nella sua vita Bergoglio non aveva mai messo piede in Sicilia. “Conosco la vostra isola – aveva confidato qualche settimana fa ai vescovi della Regione – solo attraverso il film Kaos dei fratelli Taviani“. Non è un caso, dunque, se Francesco ha voluto che fosse Lampedusa il suo primo viaggio da Papa. Un segno che nel suo pontificato gli ultimi saranno davvero primi.
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Bologna, rifugiati africani sgomberati
dall’ex caserma Prati di Caprara
Sono diciassette richiedenti asilo che lo scorso 28 febbraio, allo scadere del Piano di accoglienza, avevano ricevuto 500 euro per abbandonare l’Italia. Non sapendo dove andare, però, erano tornati a vivere nella struttura in condizioni fatiscenti. Ora sono di nuovo in mezzo a una strada
di Erika Crispo | Bologna | 8 maggio 2013
“No place to go”. Nessun posto dove andare. E’ questa la frase che, come un mantra, una ventina di migranti africani continuavano a ripetere dopo lo sgombero da parte delle forze dell’ordine dell’ex caserma di Prati di Caprara a Bologna.
Polizia e carabinieri hanno costretto i 17 migranti, quasi tutti originari della Nigeria, ma in fuga dalla Libia, a uscire dall’edificio abbandonando i loro effetti personali all’interno. Solo in seguito potranno riprenderli, anche se ad alcuni di loro è stato concesso di recuperare alcuni beni di prima necessità come cibo e medicine.
Si tratta di alcuni dei rifugiati che lo scorso 28 febbraio 2013, allo scadere del Piano di accoglienza dell’emergenza Nord Africa, avevano ricevuto 500 euro per abbandonare l’Italia. Ma, una volta esaurito quel denaro, non sapendo dove andare, erano tornati negli stabili dove erano stati inizialmente ospitati, come l’ex caserma Prati di Caprara e la struttura di Villa Aldini.
Alcuni di questi richiedenti asilo, durante l’accoglienza, avevano lavorato in Tribunale per una paga simbolica di 1 euro al giorno sperando in un’assunzione mai arrivata. Anzi, la Croce rossa, che gestisce l’ex caserma, il 4 marzo aveva staccato la corrente elettrica e fatto in modo di rendere inagibile la struttura per obbligare i migranti ad abbandonarla.
“Non è la prima volta che provano a sgomberarli – spiega Giorgio Simbola del sindacato As.i.a-Usb, Associazione inquilini e assegnatari – ma finora eravamo riusciti a impedirlo avviando una trattativa con il Comune di Bologna e con la Croce rossa”. Grazie a quest’accordo, dunque, i rifugiati avevano il permesso “informale” di rimanere nell’ex caserma fino a che non si fosse trovata una soluzione adeguata. Ora, però, a trattativa non ancora conclusa, sono stati cacciati. Militanti e attivisti stanno cercando di riaprire il dialogo con il Comune, ma molti dei rifugiati hanno perso le speranze e la loro unica preoccupazione, per ora, è dove dormiranno e cosa mangeranno nei prossimi giorni.
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Sbarco a Siracusa, circa 100 migranti
Altre 300 persone soccorse al largo di Malta
Ansa - 04 luglio 2013
Un barcone con a bordo circa 100 migranti di presunta nazionalità siriana - fra cui diversi minorenni e 10 donne, una delle quali in stato di gravidanza avanzata - è giunto stamane intorno alle 3.30 nel porto di Siracusa scortato da una motovedetta della Guardia di Finanza di Messina, dopo essere stato intercettato a circa 60 miglia ad est dalla costa. L'intervento è stato disposto dal gruppo aeronavale della Guardia di Finanza di Messina dopo una segnalazione riguardante un'imbarcazione partita dall'Egitto carica di migranti diretti verso le coste della Sicilia orientale. Per controllare la situazione, è stato inviato un aereo ATR42 in dotazione al Gruppo Esplorazione Aeromarittima di Pratica di Mare e in supporto sono stati inviati un guardacoste della Guardia di Finanza di Messina ed un velivolo della Sezione aerea di manovra di Catania. I migranti, che appaiono tutti in buona salute, sono stati accolti da militari della Guardia di finanza ed altre forze di e sono stati affidati alle cure del personale medico. Per tutta la giornata continueranno le operazioni di polizia giudiziaria per individuare gli scafisti sotto la direzione della Procura della Repubblica di Siracusa, che ha inoltre disposto il sequestro dell'imbarcazione.
SOCCORSI IN 300 AL LARGO DI MALTA - Guardia Costiera italiana e quella maltese insieme per salvare 300 migranti, individuati ieri al largo di Malta. Lo
riferisce il comando della Guardia costiera italiana, precisando che nelle prime ore di questa mattina l'imbarcazione che ha raccolto i migranti è giunta a La Valletta. Era sta la Centrale Operativa di Roma della Guardia Costiera, alle 14 di ieri, a ricevere una segnalazione telefonica dal sacerdote eritreo don Mosè Zerai relativa a un barcone in difficoltà con a bordo circa 300 migranti. L'unità è stata localizzata a 38 miglia a sud ovest di Malta, in acque SAR maltesi. Sul posto sono intervenuti un pattugliatore d'altura della Guardia Costiera italiana e uno della Guardia Costiera maltese. Quest'ultima, che ha coordinato le operazioni, ha disposto anche il sorvolo di un aereo che, alle 16.20 circa, ha individuato il barcone alla deriva. Tra i migranti presenti a bordo, alcuni feriti sono stati trasbordati sul pattugliatore italiano e successivamente trasferiti a bordo di un elicottero maltese per essere trasportati d'urgenza in un centro ospedaliero di Malta. I restanti migranti, in totale 265, tra cui donne e bambini, sono stati trasbordati su due motovedette della Guardia Costiera maltese e sono giunti nel porto di La Valletta alle prime luci dell'alba.
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Il Papa e' a Lampedusa. Fiori per i morti in mare
Vi saluto tutti e ringrazio per l'accoglienza,
tutti siamo qui oggi nella preghiera',
ha detto il Papa
Ansa - 08 luglio 2013
L'aereo con a bordo Papa Francesco, un Falcon della Repubblica Italiana, è atterrato all'aeroporto di Lampedusa. Secondo il programma, Papa Francesco è salito a bordo di una motovedetta della Guardia costiera, accompagnato da un corteo di barche di pescatori.
Papa Francesco, dalla motovedetta della Guardia Costiera, ha gettato nel mare di Lampedusa una corona di fiori in ricordo dei migranti morti durante le traversate. Prima di lanciare i fiori il Papa si è raccolto in preghiera. Per alcuni minuti, il Pontefice è stato poi in preghiera, in memoria dei migranti morti in mare. Il lancio della corona è avvenuto davanti al porto di Lampedusa. La motovedetta della Guardia costiera è stata accompagnata da un corteo di barche di pescatori. Il lancio della corona in mare da parte di papa Francesco è stato salutato dal suono delle sirene delle barche dei pescatori.
Poi papa Francesco è arrivato al porto di Lampedusa, a Punta Favarolo. Sul molo lo attendevano gruppi di migranti, che il Pontefice ha salutato al suo passaggio. Ha salutato e ha stretto la mano a numerosi migranti africani, quasi tutti giovanissimi, che lo attendevano. Il Papa ha sorriso e scambiato con loro parole di saluto.
"Vi saluto tutti e ringrazio per l'accoglienza, tutti siamo qui oggi nella preghiera e anche per questo non ho parlato. E' per questo che oggi sono qui. Grazie, grazie". Così il Papa si è rivolto al Molo Favarolo al gruppo di immigrati. I profughi sono per metà cristiani e per metà musulmani, molti eritrei, tra loro anche tre donne e per la maggioranza sono minorenni.
Il Papa è arrivato al Molo Favarolo con la motovedetta della Capitaneria di porto che in otto anni ha tratto in salvo dal mare 30 mila persone. Prima di giungere al molo il Pontefice aveva sostato per un breve momento di raccoglimento prima di lanciare una corona di crisantemi bianchi e gialli presso la "porta d'Europa" di Punta Maluk, in ricordo delle tante persone che hanno perso la vita in questo braccio di mare nel tentativo di raggiungere l'Italia e una vita migliore. Al Molo Favarolo Papa Bergoglio ha stretto la mano ad uno ad uno a tutti gli immigrati presenti, in maggioranza ragazzi, scambiando anche alcune battute con qualcuno di loro. Come ha spiegato nel suo breve intervento prima che il giovane profugo gli consegnasse la lettera, Papa Francesco vuole dare a questa giornata a Lampedusa un senso di preghiera e, nel ricordo di quanti sono morti, un senso di vicinanza alle loro famiglie e alla popolazione di questa piccola isola che generosamente si fa carico del difficile compito di accoglierli.
"Noi siamo fuggiti dal nostro Paese per due motivi, politico e economico, per arrivare in questo luogo tranquillo abbiamo superato vari ostacoli, siamo stati rapiti da vari trafficanti. Per arrivare qui in Italia abbiamo sofferto tantissimo". Così un giovane immigrato si è rivolto a Papa Francesco al quale ha anche consegnato una lettera sul Molo Favarolo di Lampedusa. Nell'intervento il ragazzo, che si è anche interrotto per la commozione, ha chiesto aiuto per la situazione particolare: "Siamo qui - ha detto - costretti a rimanere in Italia perché abbiamo lasciato le impronte digitali e per questo non possiamo andare via. Quindi - ha aggiunto - chiediamo agli altri Paesi europei di aiutarci".
A bordo della "campagnola" scoperta, poi, il Pontefice ha percorso le strade di Lampedusa, salutato e acclamato dalla folla, per dirigersi al campo sportivo "Arena", in località Salina, per la messa. Il Pontefice è circondato dalla folla che lo acclama: stringe al petto e bacia bambini, li accarezza, stringe le mani che i fedeli gli tendono, sorride a tutti e li saluta con la mano. L'ingresso al campo sportivo è stato accolto da grida dei presenti e dallo sventoli dei cappellini bianchi e gialli.
E' il primo viaggio apostolico dall'inizio del suo Pontificato. L'aereo, un Falcon 900 dell'Aeronautica militare, con a bordo il Pontefice è decollato poco prima delle 8.00 dall' aeroporto militare di Ciampino.
Intanto un barcone carico di migranti a Lampedusa. L'imbarcazione, con 166 stranieri a bordo, e' stata intercettata dalle motovedette della Guardia di Finanza e della Capitaneria di Porto. Sull'isola, intanto è tutto pronto per accogliere il Pontefice e il campo sportivo, dove celebrerà la Messa, è già affollato di gente.