Nairobi. Il futuro è nero
unimondo.org di Fabio Pipinato - 12 marzo 2014
Il passato era bianco (occidente); il presente è meticcio (Cindia) ma il futuro è decisamente nero (Africa)! Se volete vedere il terzo millennio non dovete più andare a Shanghai ma a Nairobi. In Kenya. Ogni settimana, dico, ogni settimana c’è un new building. I nostri anni ‘80. Gru ovunque.
Non più condomini in pietra che si vedevano costruire una decina d’anni fa con improbabili impalcature in legno ma grattacieli con gru montate sul piano. A mo’ di Bilbao o Singapore. Il vetro cemento spopola in centro, alla faccia dell’architettura armoniosa ed in sintonia con il paesaggio. Chissenefrega; più urla e più è bello. È l’Africa, amici!
Pulita. Nairobi è pulita. Certo; sto parlando dell’ Hururu Park con le sue aree riservate ai fumatori e del centro storico tra Ministeri, ambasciate ed una sede del Cardinal Njue da paura e non certo delle decine di slum che la circondano. Ma è incredibilmente pulita con un’infinità di alberi indigeni piantati a divider le carreggiate laddove un tempo v’era solo spazzatura.
Ma Nai-robi (in lingua Masai “luogo dell’acqua fredda”) con il suo parco al centro, salvato in extremis dal nobel per la pace Wangari Mathai dalla cementificazione, sembra il Central park di New York. Al posto di vecchi edifici del ‘700 vi sono hotel di lusso abitati da business men, ambasciatori, turisti con portafoglio gonfio e cooperanti. Cooperanti? Si; certo! Una sorta di missionari laici che dovrebbero pensare in primis ai poveri ma che poi, una volta lì, pensano soprattutto a loro stessi ed ai report da fare alle holding umanitarie. Non è difficile vedere auto di grandi organizzazioni internazionali fuori dai 4 stelle. (tranquilli; ho dormito alla Consolata Fathers).
La “Safari Capital of the World” ha dei centri commerciali grandi come quartieri. Uno di questi fu oggetto di un attacco terroristico che lasciò sul campo 62 morti lo scorso settembre. La gente sembra averlo dimenticato. Il supermarket è chiuso ufficialmente per “rinnovo locali”. Avanti; sempre più avanti. Un appartamento in città costa come a Milano; smog compreso.
I semafori sono dei mercati all’aperto. Si vende di tutto: cellulari, gadget, mappe geografiche, occhiali; persino scarpe. Le strade sono perennemente intasate, a parte il week end. Mancano ancora pochi mesi per terminare le circonvallazioni - bypass. I bilici per la Tanzania o l’Uganda passano ancora per il centro storico. Fumo nero. Un disastro. Tra le auto ferme sfavillano i Suv, 4 x4 e le Jeep. Saranno anche i più di seconda mano che arrivano va Dubai ma tutte scure e metallizzate. Sfoggio e status symbol. Vengono sfiorate da mototaxi che sfrecciano incuranti del rosso. Moto cinesi; durata scarsa. Se la polizia li ferma basta pagar qualcosa; senza ricevuta, of course.
Sabato sera. Locali ovunque; matatu e bus everywhere. Le ragazze degli slum vestono al meglio per le vasche serali. Tutti si chiedono come possano uscire immacolate da Kibera, il secondo slum al mondo dopo Soweto (Sudafrica) ove le baracche arrivano sino ai binari...eppure, è possibile. Se usciamo noi dai “sotterranei della storia”, per dirla con Alex Zanotelli, saremo sudici.
La domenica nel cortile antistante la cattedrale la gente si affolla non per assistere alla Santa Messa ma per prepararsi ad assistere alla Santa Messa. Una ogni due ore. A rotazione. Fuori una folla, dentro un’altra. Con il vestito migliore. Il prete, durante la predica, dice 3 cose: approfittiamo del boom economico per lavorare di più e non di meno; un cristiano non deve accontentarsi delle sue 8 ore. 2) Votare per il deputato della propria zona e della propria etnia non è sempre bene; meglio studiare bene i programmi e votare per il migliore che potrebbe abitare lontano da noi. 3) Ho parlato abbastanza; ora lascio la parola ad una madre di famiglia che vi narra la sua storia! Ecco, come in Italia. Ove i preti si affannano a far intervenire i laici al loro posto.
The Daily Nation, principale newspaper, pubblica la foto dei 10 magnati kenyoti. Non si parla d’altro. Il giorno seguente si scende dalla classifica. Il top è avere! E l’essere? Cerco una libreria ma fatico un bel po’ a trovarla; stanno per lo più dentro le molte Università e campus, sempre a rischio sciopero, che affollano la capitale. Il vecchio dittatore Moi: “per pascolar le capre non servono i libri” e l’arricchito, senza scrupoli, necessita d’esser un po’ ignorante. Avete mai visto intellettuali ricchi sfondati?
Insomma il tasso di crescita di Nairobi, parimenti altre capitali subsahariane, è incredibilmente alto. I locali riferiscono di grattacieli che nascono come funghi e si chiedono se il sistema sotterraneo fognario e relativo approvvigionamento acqua potabile (nere e bianche) sarà in grado di adeguarsi a questo sviluppo in superficie. Anche l’agenzia delle Nazioni Unite Un Habitat, nel suo ultimo rapporto, evidenzia rischi e problemi di una crescita esponenziale di città che non stanno soffrendo la crisi a discapito delle loro periferie ove si sopravvive con 1,2 $ al giorno.
Ma non è solo Nairobi a viaggiare ai mille all’ora con smartphone e palmari ma tutto il Kenya usa la telefonia mobile (e chi l’ha mai conosciuta quella fissa?) non solo per telefonare ma per pagare beni e servizi. E con un tasso di crescita, di anno in anno, del 22%; al confronto statistico siamo noi i sottosviluppati. Le nuove tecnologie hanno anche fatto lievitare la percentuale di popolazione che ha ora accesso a servizi bancari. Secondo un sondaggio di FinAccess, l’inclusione finanziaria tra gli adulti è passata dal 27,4% del 2006 all’attuale 66,7%.
Ma non è finita. Si sta ipotizzando la stampa di farmaci in 3D anche negli ambulatori periferici. Siamo ancora alla fase sperimentale ma il futuro è già qui.
E l’Italia? Va al traino! Vuole cavalcare il boom con un accordo siglato pochi giorni fa a Nairobi tra confindustria Sicilia ed un rappresentante del governo del Kenya. C’è il nuovo aeroporto internazionale di Nairobi che diventerà un Hub da ristrutturare; la modernizzazione e l’estensione della rete ferroviaria fino all’alta velocità; il potenziamento della rete stradale; lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili; l’attuazione di politiche avanzate nel settore dei rifiuti e dell’ambiente; interventi nei settori delle risorse idriche, dell’agroindustria, del turismo e dei beni culturali. What else?
Nairobi sta aiutando l’Italia. Mettetevi in riga; non spingete. Ce n’è per tutti.
Kenya, "i terroristi si sono fatti saltare in aria"
Almeno 70 morti. Forze speciali al lavoro per neutralizzare il commando del centro commerciale Westgate
Affaritaliani.it - 23 settembre 2013
E' salito intanto ad almeno 69 morti il bilancio dell'attacco terroristico al Westgate di Nairobi, in Kenya. Il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta ha intanto confermato che tra le vittime ci sono anche un suo nipote con la moglie. Il viceministro Dassu' ha invece reso noto che sono stati 13 i cittadini italiani coinvolti nell'attacco, 'ora sono tutti in salvo'.
13.40 - La polizia kenyota afferma di aver salvato altri ostaggi nell'operazione condotta al centro commerciale Westgate di Nairobi. "Stiamo guadagnando terreno rispetto agli assalitori", e' scritto. Un tweet successivo afferma che il bilancio delle vittime e' di 62 morti.
13.30 - Si sarebbero fatti saltare in aria alcuni dei miliziani asserragliati da tre giorni nel centro commerciale 'Westgate' di Nairobi: lo ha riferito il notiziario televisivo 'Sky News', senza indicare fonti. Dal canto suo l'emittente satellitare 'al-Jazira' ha reso noto che gli assalitori avrebbero fissato cinture esplosive agli ostaggi. Un portavoce militare kenyota, colonnello Cyrus Oguna, non ha confermato ne' smentito le voci secondo cui i terroristi, appartenenti al gruppo jihadista somalo al-Shebaab al-Mujaheddin, avrebbero piazzato cariche in diversi punti dell'edificio. Un loro portavoce aveva comunque annunciato che sono stati "autorizzati" a sopprimere i prigionieri nel caso in cui fossero prossimi alla capitolazione. Frattanto nella struttura sembra essere in corso una nuova offensiva da parte delle forze governative, e i giornalisti sono stati fatti allontanare dal sito dell'assedio.
13.10 - E' stata confermata la morte di un altro inglese al centro commerciale. Secondo quanto riferito dal ministero degli Esteri di Londra, le vittime inglesi dell'attacco sono in totale quattro. La morte degli altri tre, un inglese e un australiano-inglese era gia' stata confermata nei giorni scorsi.
12.00 - Le almeno tre nuove esplosioni risuonate nel centro commerciale 'Westgate' di Nairobi, e la colonna di denso fumo nerastro vista levarsi dal complesso, sarebbero state provocate dal tentativo delle unita' speciali kenyote di penetrarvi passando dal tetto: lo hanno riferito fonti delle forze di sicurezza, che hanno preteso di restare anonime. "Siamo noi che abbiamo causato le esplosioni, stiamo cercando di entrare nel centro commerciale attraverso il tetto", hanno dichiarato le fonti. La televisione nazionale ha trasmesso immagini dal sito dell'assedio, mostrando soldati in tuta mimetica correre intorno all'edificio per prendere posizione in punti diversi dai precedenti. Anche un blindato per il trasporto truppe e' stato visto spostarsi. Giornalisti e operatori erano gia' stati fatti allontanare in precedenza, soltanto al personale sanitario e' stato consentito rimanere vicino al 'Westgate'.
"UCCIDETE TUTTI GLI OSTAGGI" - i miliziani somali jihadisti di al-Shebaab al-Mujaheddin hanno avvertito che i loro compagni asserragliati nel centro commerciale 'Westgate' di Nairobi, da loro assaltato sabato, giustizieranno gli ostaggi che ancora detengono se le forze di sicurezza del Kenya tenteranno di sopraffarli. "Autorizziamo i mujaheddin che si trovano all'interno del complesso a intraprendere azioni contro i prigionieri, nel momento in cui si trovassero sotto pressione", ha annunciato via Twitter il portavoce del movimento legato a al-Qaeda, Ali Mohamoud Rage.
ANCHE DONNE NEL COMMANDO - Secondo il presidente del Kenya ci sono anche donne nel commando che ha attaccato il Westgate. Prosegue comunque il lavoro per identificare gli attentatori, nonostante l'attacco sia stato rivendicato dagli shabaab somali. Il gruppo Shabaab, che ha legami con al Qaida, ha rivendicato l'attacco e in passato aveva più volte minacciato attentati sul territorio se Nairobi non avesse ritirato le proprie truppe dal Corno d'Africa. L'attacco è partito ieri verso l'ora di pranzo, quando il gruppo di assalitori - 10-15 persone secondo il ministro dell'Interno - ha fatto irruzione nel mall sparando all'impazzata e colpendo numerosi ostaggi. In quel momento nel centro commerciale c'erano oltre 1.000 persone, molte famiglie con bambini, gran parte delle quali sono state evacuate. Già ieri sera, il bilancio provvisorio dell'attentato sembrava un bollettino di guerra, con vari stranieri uccisi, tra i quali due francesi e due canadesi, incluso un diplomatico.
MOLTE VITTIME GIUSTIZIATE NEL PARCHEGGIO - Tra i morti ci sono anche alcuni parenti stretti del presidente kenyota Uhuru Kanyatta e il poeta e romanziere ghanese Kofi Awoonor. Nella lista delle vittime ci sono anche due francesi e due canadesi, tra i quali un diplomatico, una cinese e due indiani. Le due francesi, madre e figlia, sono state «giustiziate nel parcheggio del centro commerciale», ha detto la ministra per i francesi all'estero, Hélène Conway-Mouret. Tre le vittime britanniche. Il premier David Cameron ha definito l'attacco un «atto spregevole, di spaventosa brutalità». Due americani sono rimasti feriti. Il viceministro degli Esteri italiano Marta Dassù ha riferito che sono 13 i cittadini italiani coinvolti direttamente nell'attacco, "ora tutti in salvo". Tra le vittime c'è anche un cittadino somalo sposato con una italo-somala che ha il permesso di soggiorno a Torino. Fonti mediche hanno riferito che 19 delle persone uccise, di cui almeno quattro bambini, sono morte all'ospedale Shah di Nairobi. «Abbiamo almeno due pazienti in condizioni critiche, uno con proiettili localizzati vicino alla spina dorsale», ha detto Manoj Shah, direttore dell'ospedale. Nella clinica non si ferma l'arrivo di nuovi feriti.
Kenya: tra crimini contro l’umanità
e risorse di comunità
unimondo.org - di Alessandro Graziadei - 15 Settembre 2013
Il 5 settembre scorso il parlamento del Kenya ha approvato una mozione per ritirarsi dalla Corte penale internazionale. Il voto è arrivato pochi giorni prima dell’inizio del processo, all’Aja, nei confronti del vicepresidente kenyano William Ruto, accusato di crimini contro l’umanità in relazione alle sollevazioni post-elettorali del 2007-8 contro le quali il regime reagì uccidendo oltre 1.100 persone, causando 350.000 feriti e 650.000 profughi e al quale avrebbe dovuto seguire in novembre quello nei confronti del presidente, Uhuru Kenyatta, indiziato a sua volta in un procedimento simile, ma separato. È accusato, infatti, di crimini contro l'umanità, omicidio, deportazione, stupro, e persecuzione, oltre ad aver assoldato i Mungiki (un gruppo criminale) per colpire i sostenitori dell’opposizione.
“Il voto del parlamento del Kenya è un allarmante tentativo di negare una giustizia penale internazionale a centinaia di persone che vennero uccise. È inaccettabile cercare di proteggere chi deve rispondere di crimini contro l’umanità e permettere loro di evitare la giustizia. È anche un pericoloso precedente per il futuro della giustizia in Africa” - ha dichiarato Netsanet Belay, direttore del Programma Africa di Amnesty International. “Ogni volta che la Corte fa un passo in avanti, il regime fa di tutto per sbarrargli la strada”, ha aggiunto Daniel Bekele direttore per l’Africa di Human Rights Watch. “Una mozione del Parlamento per il ritiro del Kenya non può però fermare questi processi, né offrire a Ruto una scusa per non comparire in aula”, visto che il ritiro non diventa effettivo prima di un anno e il Kenya ha quindi ancora l’obbligo di cooperare ai lavori del Tribunale penale internazionale. “Per decenni coloro che trasformarono le elezioni keniote in un bagno di sangue sono riusciti a cavarsela - ha spiegato Bekele - Ora questo processo affronterà in ogni caso il problema dell’impunità nel Paese e potrà forse offrire ai cittadini un’opportunità di giustizia finora negata dal governo stesso”.
Alla vigilia del processo nell’opinione pubblica sembra prevalere un clima di sfiducia: “Questi due pensano di poter vincere” ha affermato Macharia Munene, docente presso l’Università di Nairobi. “A loro favore vanno i precedenti della Corte, che finora conta solo una condanna” quella di Thomas Lubanga in Congo. Ma mentre i media locali, pur formalmente impegnatisi a seguire il caso, sembrano di fatto tenere un basso profilo, più ottimisti sono invece gli utenti online, che sperano in una svolta storica raccontata dal sito ICC Kenya Monitor che offre tutte le informazioni necessarie per capire e seguire la vicenda, con la diretta dalle sessioni da l’Aia e gli annessi rilanci via Twitter, Facebook e Rss grazie al sostegno della Open Society Justice.
Ma il Kenya in questi giorni non sta facendo i conti solo con “un passato che non passa”. Migliaia di famiglie originarie del distretto di Moyale, nel nord del Kenya, alla frontiera con l’Etiopia, sono, infatti, ancora sfollate dopo il riesplodere degli scontri tribali che dal 30 agosto hanno provocato almeno 20 morti. In due giorni di scontri tra i clan Gabra, Burji e Borana sono state incendiate diverse capanne, ci sono stati numerosi conflitti a fuoco, trentadue scuole primarie e secondarie sono state chiuse dal 2 settembre e le agenzie umanitarie dicono di non essere in grado al momento di fare una valutazione degli aiuti necessari per la popolazione che vive in alcune delle aree più instabili del distretto. Nelle zone di Somare e Teti tutte le attività economiche sono paralizzate e, nonostante le violenze siano finite, la tensione è ancora molto alta.
L’Humanitarian news and analysis (Irin), l’agenzia stampa umanitaria dell’Onu, ha confermato che “Queste violenze si inscrivono nel quadro di una serie di rappresaglie che sono cominciate durante gli scontri tra i Borana ed i Gabra, che il 15 luglio hanno fatto una vittima e tre feriti”. Stephen Bonaya, coordinatore della Kenya Red Cross Society(Krcs) a Moyale, ha raccontato che “Più di 38.000 persone, cioè 6.381 famiglie, sono state obbligate ad abbandonare il loro domicilio. Una maggioranza degli sfollati ha oltrepassato la frontiera con l’Etiopia, mentre altri si sono installati presso dei parenti a Moyale e nelle contee di Marsabit e di Wajir. Un buon numero di bambini, donne ed uomini sono ancora separati dalle loro famiglie, altre persone sono scomparse. Un team sta aiutando le famiglie a ritrovare i loro parenti ed a riunirli. Per il momento, sono state riunite 60 famiglie. Le famiglie sfollate hanno però bisogno urgente, tra le altre cose, di aiuto alimentare, di riparo, di medicinali, di utensili da cucina, di vestiti e di zanzariere”.
Le comunità della regione, che vivono a cavallo del confine tra Kenya ed Etiopia, lottano da sempre per le loro risorse più preziose: i pascoli e l’acqua per il bestiame, non di rado travalicando lo scontro politico.
Isaiah Nakoru, il commissario della contea di Marsabit, ha detto all’Irin che “Il governo ha ormai il pieno controllo. Le milizie delle comunità in conflitto sono state eradicate dalla polizia e dall’esercito. Alcuni sono fuggiti ed hanno attraversato la frontiera […] visto che le inchieste preliminari hanno dimostrato che anche delle milizie straniere armate di mortai e bombe hanno partecipato ai combattimenti”. Alcuni keniani accusano, infatti, gli etiopi di essersi infiltrati nel loro territorio per dar man forte alle milizie tribali che moltiplicano i loro attacchi da quando in Etiopia è iniziata la costruzione di alcune grandi dighe idroelettriche che stanno diminuendo la portata dei fiumi che vanno a finire in Kenya, nell’arida regione del lago Turkana.
Secondo i profughi però non è vero che è tutto sotto controllo e le violenze giurano continueranno se il governo centrale di Nairobi non affronterà le cause profonde del conflitto per i pascoli e l’acqua, coinvolgendo le comunità in guerra ed i loro leader. Come ha detto all’Irin un abitante di Moyale, “Si tratta di un problema politico. Né l’esercito, né la polizia del Kenya possono gestire questo conflitto o mettervi fine. Bisogna fermare i rappresentanti politici, coinvolgere le comunità nel processo politico e condividere equamente le risorse”. Una via possibile, perché in Kenya c’è anche chi nella comunità ci crede tanto da poter dire “Only through community”. Si tratta di un motto ormai iscritto nel dna del Saint Martin, un’associazione religiosa di base, registrata come Fondazione, che dal 1999 cerca di rispondere alle esigenze di gruppi di persone vulnerabili, sofferenti e dimenticate. “Proprio attraverso la comunità ove il farsi carico assieme dell’altro è la modalità per costruire il futuro, possiamo mettere in campo quelle energie e risorse che né un singolo, né una famiglia, né la politica possono trovare da soli”. Parole, quelle che arrivano dal Saint Martin, che sembrano un eco di quelle pronunciate dall’ex presidente dell’Assemblea nazionale del Kenya, Francis Ole Kaparo, per il quale “una soluzione pacifica al conflitto in Moyale passa dalla capacità di fare comunità e mettere fine ai agli scontri condividendo le risorse e le speranze”.