Le président du Rwanda Paul Kagame. (Photo Evan Schneider. AFP)
INTERVIEW
Le Président rwandais critique violemment le rôle de Paris
dans les massacres de 1994 et la lenteur de la justice française.
Une chaise vide à l’heure du souvenir. La ministre française de la Justice, Christiane Taubira, n’assistera pas aux commémorations des vingt ans du génocide au Rwanda, prévues lundi à Kigali. La décision a été prise samedi à Paris, en réaction aux déclarations du président, Paul Kagame, qui a accusé la France d’avoir «participé» au génocide dans l’hebdomadaire Jeune Afrique. Une accusation qui n’est pas nouvelle : c’est aussi ce qu’il a dit lors de l’entretien de deux heures qu’il a accordé à quelques journalistes, dont Libération. «La France n’aurait pas dû réagir aussi vivement», déplorait dimanche Bernard Kouchner, venu assister aux commémorations à titre privé. «Avec Sarkozy, nous avions amorcé une vraie réconciliation. On va à nouveau reculer, donner du grain à moudre à tous les négationnistes», souligne l’ex-ministre des Affaires étrangères, qui rejette le terme de «participation». Mais rappelle aussi que «le gouvernement génocidaire a été formé dans l’enceinte de l’ambassade de France en avril 1994», et que «Paris lui a livré des armes jusqu’en août 1994». L’incident diplomatique montre en tout cas que le malaise demeure. Pourtant, au Rwanda, l’absence de Taubira aux commémorations -la France n’étant représentée que par son ambassadeur, Michel Flesch - ne suscite qu’une indifférence désabusée : «Ils ne veulent pas venir ? Tant pis, on s’en fout», déclarait dimanche, en off, un responsable rwandais. Quant à l’homme fort du pays, il ne mâche pas ses mots.
Quelles sont vos relations avec la France, vingt ans après le génocide ?
La France a été impliquée au Rwanda avant et pendant le génocide. Et peut-être même après. Depuis 1994, nos relations sont changeantes : elles se réchauffent, puis sont plus tièdes, et puis ça change encore. Beaucoup de responsables du génocide ont trouvé refuge en France. Désormais, les justices de nos deux pays collaborent, c’est bien. Mais il faudrait que je sois satisfait, simplement parce qu’un premier procès, celui de Pascal Simbikangwa [un ancien officier rwandais jugé, fin mars, par la cour d’assises de Paris, ndlr], a eu lieu cette année ? Et qu’il été condamné à vingt-cinq ans de prison ? Une seule personne en vingt ans ! La France comme la Belgique ont joué un rôle néfaste dans l’histoire de mon pays, ont contribué à l’émergence d’une idéologie génocidaire. Quand, en France, la justice est si lente, nous ne pouvons pas imaginer que c’est neutre. Dans nos relations avec ces deux pays, notre grille de lecture est forcément liée aux compromissions du passé.
Comment le Rwanda est-il sorti d’une telle tragédie ?
Un génocide n’est pas un accident de l’histoire. Nous n’avons pas pu l’empêcher, mais nous l’avons arrêté. Après, il a fallu reconstruire ce pays, créer de nouvelles institutions, promouvoir l’éducation. Faire en sorte d’extirper les racines de la tragédie. Aujourd’hui, le Parlement compte 64% de femmes. En seulement cinq ans, un million d’habitants sont sortis de la pauvreté. Nous avons aussi mis en place une mutuelle de santé dont bénéficient désormais 80% des Rwandais. Le développement est une réalité, mais on ne nous juge jamais sur nos réalisations. On préfère spéculer sur Kagame, les Tutsis, etc.
Rwanda 20 anni dopo
unimondo.org di Piergiorgio Cattani - 7 aprile 2014
Rithy Panh è un regista e scrittore cambogiano sopravvissuto agli anni del regime di Pol Pot durante i quali è avvenuto un tragico genocidio. Così scrive: “Per ricominciare a vivere ci vogliono molti anni. È necessario riapprendere tutto. Ci si dice che non vale la pena andare avanti, ci si chiede perché mangiare, perché ridere, perché amare. Si deve iniziare a riflettere su come rendersi utili. Là dove il regime ha tentato di cancellare io ricostruisco. Anche noi cancelliamo le vittime dicendo che il genocidio ha fatto un milione e 800 mila morti: sono molti e niente, sono un milione e 800 mila vite differenti, inglobarle in una cifra le nasconde. Bisogna imparare a vivere con quello che è successo. Parlando la storia diventa universale e questo è importante perché gli uomini possano comprendere”.
Sappiamo che, nella giurisprudenza internazionale, il termine genocidio si applica in pochi casi, soltanto laddove gli stermini di massa sono perpetrati con l’intenzione di cancellare un’intera popolazione o etnia, quando si pianifica l’omicidio di migliaia, se non di milioni di persone. Quello di “sterminismo” è un concetto quasi apocalittico, si vuole purificare il mondo, renderlo uniforme, giusto, finalmente liberato da chi lo sta portando alla rovina. Naturalmente i buoni siamo sempre noi, i cattivi quelli che vengono massacrati: questa l’ideologia di chi pianifica i genocidi. Ricordiamo però sempre che gli sterminatori erano (sono) uomini come noi. Erano di volta in volta tedeschi – europei, colti, cristiani -, turchi, rwandesi, cambogiani, russi, cinesi, ma un tempo anche spagnoli in Sud America, americani negli Stati Uniti. Vittime e carnefici appartengono alla stessa razza, quella umana. Certo non si potranno mai mettere sullo stesso piano assassini e assassinati, esisterà per sempre un solco incolmabile. Tuttavia in queste stragi che ci sembrano così lontane e così impossibili possiamo rispecchiare l’odio per il diverso che alberga dentro di noi e che, a livello collettivo, può davvero generare mostri.
Chi non ha vissuto in prima persona questo tipo di tragedie può solo ascoltare i testimoni. Dobbiamo imparare da persone come Rithy Panh, che ha perso padre, madre, sorelle e cugini nell’incubo della rivoluzione di Pol Pot. L’ultimo film documentario di Panh, “The missing picture”, parla direttamente del genocidio, ma non ci sono attori, soltanto pupazzi: troppo il dolore ancora vivo per rappresentare le vittime come uomini in carne ed ossa. Sarebbe come mettere in scena un’opera teatrale in cui i protagonisti non hanno vissuto la tragedia e che quindi non possono capire. Per questo anche noi dobbiamo metterci in ascolto. Prima di tutto ricordando che questi avvenimenti sono accaduti.
Oggi si commemorano i 20 anni dal genocidio in Rwanda. Non si è d’accordo neppure sulla data di inizio dei massacri. Ma questo ha poca importanza. Fare memoria significa ricercare le colpe, portare gli sterminatori in tribunale (magari internazionale), ma prima di tutto significa ascoltare i testimoni. Unimondo dedica tutta questa settimana a un approfondimento sui genocidi. Il nostro Fabio Pipinato, che era lì, in Rwanda, proprio in quei terribili giorni, ci offrirà un racconto in prima persona. Ci farà capire che nulla è avvenuto a caso, che il genocidio ha certamente radici storiche lontane, ma che è pure stato organizzato nei mesi precedenti a quella terribile primavera.
Una carneficina preparata a tavolino. Così scrive Daniele Scaglione, un giornalista che ha ricostruito passo dopo passo quella tragica primavera del 1994: “nulla di quanto accadde fu improvvisato, ma avvenne secondo un piano accurato e moderno che includeva l’uso di mezzi di propaganda come la radio, l’acquisto e la distribuzione di un quantitativo di armi spaventoso e una sofisticata organizzazione che consentì di massacrare decine di migliaia di persone al giorno per cento giorni di fila. Che la tragedia stava per accadere era noto: lo sapevano i dirigenti dell’Onu e i governi più potenti del mondo”. Nessuno ascoltò i disperati appelli che nei mesi precedenti il responsabile del contingente Onu nel Paese, generale Dallaire, aveva rivolto al suo superiore Kofi Annan o alla rappresentante Usa in Consiglio di sicurezza Madaleine Albright: dopo il genocidio ambedue furono “promossi”.
Insomma, parlando del genocidio in Rwanda possiamo riflettere sulle organizzazioni internazionali, sulle “potenze” che si addormentano davanti a quello che succede in Africa o in altre zone di poca importanza geopolitica. Possiamo riflettere sugli strumenti giuridici che ci diamo per prevenire ulteriori tragedie. Infine possiamo riflettere su quel disperato amore per l’odio e per la guerra che purtroppo abbiamo tutti dentro.
RUANDA
Elezioni, vince il partito del presidente
Paul Kagame
Notizie Geopolitiche - 17 settembre 2013
A scrutinio ancora in corso, con ¾ delle schede aperte, il Fronte Patriottico Ruandese (RPF) risulta nuovamente essere vincitore delle elezioni che si sono tenute ieri nel paese africano, con il 76% delle preferenze: si tratta del partito del presidente Paul Kagame, il quale è conosciuto per il suo ruolo determinante nel porre fine al genocidio del 1994 ed alla seconda guerra ruandese.
Il Partito Socialdemocratico (PSD) ha ricevuto il 13%, il Partito Liberale il 9,4%, il PS-Imberakuri e quattro candidati indipendenti meno dell’1% dei voti ciascuno.
I 5,9 mln di elettori chiamati al voto dovevano scegliere i 53 deputati del Parlamento e numerosi rappresentanti delle amministrazioni locali per un totale di 15.410 candidati tra gli indipendenti e quelli presentati da otto formazioni politiche.
A vegliare sulla regolarità del voto 1.600 osservatori della società civile, dei partiti politici, dell’Unione Africana, dell’Africa orientale e dell’Unione Europea.