SERBIA
Serbia-Croazia: il verdetto
La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, che ha respinto le accuse di genocidio presentate da Serbia e Croazia, apre una nuova stagione nei rapporti tra i paesi della regione
La Corte Internazionale di Giustizia, principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha ieri respinto i ricorsi presentati vicendevolmente da Croazia e Serbia per violazione della Convenzione internazionale sul genocidio. La sentenza arriva dopo 16 anni. Il primo ricorso era stato presentato il 2 luglio 1999 da Zagabria contro l'allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Nel 2008 la Serbia, stato successore, aveva deciso di presentare la propria contro accusa nei confronti della Croazia. La sentenza è definitiva e non appellabile.
Il giudice slovacco Peter Tomka, presidente della Corte, ha iniziato a leggere il lungo dispositivo alle 10. La posizione dei giudici – 15 contro due nel primo caso, unanimità nel secondo – ha progressivamente confermato quanto atteso dalla maggior parte degli osservatori ed esperti.
La CIG ha infatti seguito in larga misura le conclusioni del Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia che, nel giudicare responsabilità individuali negli stessi fatti contestati da Serbia e Croazia, non ha mai emesso sentenze di genocidio. Il caso di Srebrenica resta l'unico, per quanto riguarda il decennio di guerre nei Balcani, per il quale sono stati pronunciati verdetti per genocidio. L'ultimo in ordine di tempo, con sentenza definitiva, venerdì scorso.
Il verdetto di ieri della CIG, secondo quanto riportato nel sommario già disponibile online, stabilisce tuttavia che entrambe le parti hanno commesso atti genocidari. I giudici della CIG hanno cioè stabilito l'esistenza dell'actus reus, cioè dell'elemento oggettivo del reato, sia per quanto riguarda crimini commessi nei confronti della popolazione croata nelle Slavonie e in Krajna, che nei confronti della popolazione serba durante l'operazione Oluja, condotta dall'esercito croato nell'agosto 1995. Né Belgrado né Zagabria, tuttavia, avevano l'intento di commettere un genocidio. Nessuna delle due parti, secondo i giudici, è stata cioè in grado di provare l'esistenza nell'altra del dolus specialis, cioè dell'intento di distruggere “in tutto o in parte un gruppo etnico, nazionale o religioso in quanto tale”. Nessuna delle due parti viene quindi giudicata colpevole di aver violato la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
Dopo la parte letta “in punta di diritto”, il presidente della Corte è passato alla lettura delle raccomandazioni. Si è trattato, forse, della parte più significativa dell'intera vicenda. Serbia e Croazia sono infatti state invitate a “cooperare”, in particolare per risolvere la questione delle persone ancora scomparse e per offrire “adeguate riparazioni alle vittime”, consolidando così “la pace e la stabilità nella regione”. Dopo 16 anni, i giudici hanno restituito la palla.
Responsabilità
Per troppo tempo, nei Balcani, è stato demandato alle Corti il compito di fare i conti con il passato, scrivere la storia, avviare un percorso di riconciliazione. Ora quel tempo è finito. Sono la politica, la diplomazia, la società civile, le forze che possono e devono guidare il processo di normalizzazione nella regione. Fornire informazioni sugli scomparsi, arrestare i (propri) criminali, dare le riparazioni alle vittime, chiedere scusa, sono gli elementi che possono aiutare a voltare definitivamente le pagine dolorose degli anni '90.
Su questo tenore ad esempio il commento del Centro per il Diritto Umanitario di Belgrado che, in un comunicato congiunto pubblicato ieri insieme alla Iniziativa Croata dei Giovani per i Diritti Umani, sottolinea come le conclusioni legali e fattuali raggiunte dalla Corte “rappresentano un [ulteriore] motivo e un obbligo per le istituzioni di entrambi i paesi ad assumere la responsabilità storica di affrontare i crimini commessi dalle forze sotto il loro controllo, e fornire tutte le condizioni per intraprendere chiare e concrete misure volte alla riconciliazione tra le due nazioni sulla base della giustizia e della verità”, e esortano le istituzioni di entrambi i paesi a sostenere la creazione di una commissione regionale per stabilire i fatti rispetto a quanto avvenuto negli anni '90 (RECOM).
La sentenza di ieri, e la fine delle accuse incrociate tra Serbia e Croazia, riporta dunque in primo piano il ruolo della politica, e potrebbe aprire una stagione nuova. In questo senso argomenta anche Eric Gordy (University College London) che, in un commento alla sentenza, sostiene che le questioni poste da Serbia e Croazia “non erano problemi legali che richiedevano una soluzione da parte di una Corte, ma problemi politici che richiedono negoziati e accordi tra rappresentanti di governi responsabili.” I problemi legali, secondo Gordy, “sono di natura interna: entrambi gli Stati devono adempiere ai propri obblighi perseguendo e punendo quanti hanno commesso crimini, sostituendo il negazionismo e le versioni autoconsolatorie della storia con ricostruzioni accurate, e facendo fronte ai bisogni delle vittime.”
La Corte Internazionale ha infatti confermato in larga parte cose già note, in primo luogo l'ampiezza dei crimini commessi, dalla pulizia etnica agli omicidi, il fatto che pochi sono quelli che sono stati perseguiti per questi crimini, e infine la circostanza che le vittime non hanno ricevuto alcuna compensazione.
John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per Europa e Asia centrale, pone l'accento sullo scandalo rappresentato dalle persone ancora scomparse, a 20 anni dalla fine dei conflitti, sostenendo nel comunicato pubblicato ieri dall'organizzazione che “Serbia e Croazia devono ora concentrare i propri sforzi nell'assicurare alla giustizia i responsabili di crimini di guerra e crimini contro l'umanità che – come provato dalla Corte – sono stati commessi da individui da entrambe le parti, e offrire riparazioni alle vittime.”
Fino a ieri Zagabria e Belgrado potevano demandare la soluzione di tutte queste questioni alla conclusione della causa in corso. Ora non è più così. I giudici chiedono esplicitamente agli ex contendenti di iniziare ad affrontare i crimini commessi dalle proprie forze, non da quelle del nemico, unendosi alle voci di quelle associazioni – come il Centro per il Diritto Umanitario di Belgrado o Documenta di Zagabria – che da anni lavorano in questa direzione.
L'autunno russo della Serbia
Non è l'aereo di Putin che si avvicina all'aeroporto ma è l'aeroporto che si avvicina all'aereo di Putin: questo è il messaggio circolato sui social media serbi il giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin è arrivato a Belgrado. La parafrasi di una delle numerose barzellette di Chuck Norris serviva a divertire il pubblico, ma potrebbe essere anche assunta come metafora della visita del presidente russo in Serbia.
La visita di Putin è l'apice di tutta una serie di iniziative pensate con l'intento di sottolineare l'importanza dell'amicizia tra Russia e Serbia e per fugare ogni dubbio sulla possibilità che Belgrado possa far sue le sanzioni che l'Unione europea ha imposto alla Russia a causa del conflitto in Ucraina. Il tutto è iniziato in ambito culturale: il regista russo Nikita Mikhalkov ha anticipato di una decina di giorni Putin a Belgrado, per la prima mondiale nella capitale serba del suo film “Insolazione“ (Burnt by Sun).
Nel discorso tenuto alla prima belgradese Mikhalkov ha insistito sulla prossimità spirituale tra il popolo russo e quello serbo, affermando che la prossima proiezione del film sarà in Crimea. È impossibile che il famoso regista russo non sia consapevole del fatto che una tale programmazione del suo film ha un’inequivocabile connotazione politica. In Serbia nessuno si permette di sollevare critiche ma è evidente che la Russia in questo modo, almeno indirettamente, sta mostrando la sua strategia in politica estera.
Alla vigilia della visita di Putin, nel centro di Belgrado è stata inaugurata una statua dedicata allo zar russo Nikola Romanov. Operazione con cui il governo serbo desiderava sottolineare il ruolo avuto dalla Russia zarista nella difesa della Serbia durante la Prima guerra mondiale. La Serbia con questa mossa desiderava compiere una sorta di scarto nei confronti del periodo comunista e mettere in mostra che le buone relazioni e il sostegno russo hanno un’importante e lunga tradizione.
Un altro evento degno di nota nel quadro delle relazioni russo-serbe si svolgerà il mese prossimo, quando è prevista la visita in Serbia del patriarca russo Kiril. La Chiesa serba ortodossa si oppone fermamente alla politica sul Kosovo condotta da Aleksandar Vučić e non nasconde nemmeno il suo euroscetticismo. Su quest'ultimo punto è perfettamente d’accordo con la Chiesa ortodossa russa, e c'è da aspettarsi che questa comunanza di visioni sarà ribadita anche durante la prossima visita.
Parate e potere
Il governo serbo ha deciso, per la prima volta dopo quasi 30 anni, di organizzare a Belgrado una parata militare per commemorare il 20 ottobre, Giorno della liberazione di Belgrado dall'occupazione nazista. Alla commemorazione ha invitato Vladimir Putin ma dato che quest'ultimo non poteva però essere presente il 16, la parata militare è stata semplicemente anticipata. Lo spostamento di data può essere interpretato in un modo solo: l'obiettivo principale era che alla parata fosse presente Putin.
Per Putin non è stata preparata una marcia militare di veterani o un qualche programma culturale, ma bensì una sfilata del potere militare serbo. In una regione in cui solo “ieri” è finita la serie di guerre sanguinose in cui l'esercito serbo ha avuto quanto meno un ruolo controverso, mettere in scena una simile parata militare difficilmente potrebbe sollevare simpatie. Alla parte russa, per la quale la stabilità dei Balcani è meno importante dell'espansione della sua sfera di influenza, un tale scenario non poteva invece che fare piacere. Manifestazioni come la parata militare sono modi per dimostrare potere e l'influenza. È logico supporre che Mosca abbia avuto voce in capitolo su tutta la programmazione della visita.
Mentre Putin era sul palco ufficiale sopra la sua testa e sopra quella degli altri funzionari sfrecciavano i Mig russi (a dire il vero non di ultima generazione) e sul boulevard davanti al palco rombavano i carri armati e altri veicoli corazzati di fabbricazione russa, oltre a veicoli di produzione della industria militare serba. Per Mosca disperatamente in lotta per mantenere la sua traballante influenza in Europa un tale scenario ha un duplice significato. Conferma il ruolo della parte russa (Armata rossa) nella liberazione della regione dal fascismo e mostra che il potere russo e l'influenza russa non sono definitivamente scomparsi dai Balcani.
Putin durante la visita si è rivolto al pubblico tre volte: dopo la seduta con il presidente serbo Tomislav Nikolić, dopo l'incontro con il premier Aleksandar Vučić e alla parata militare. Nikolić e Vučić hanno posto l'accento sulla fratellanza tra i popoli, e si sono dilungati sulla Prima guerra mondiale dove la Russia zarista ha aiutato la Serbia, col che hanno voluto ancora una volta inviare un messaggio all'opinione pubblica locale sullo storico sostegno della Russia. Putin, invece, ha parlato della lotta contro il fascismo durante la Seconda guerra mondiale, dei partigiani jugoslavi e di altri temi, mentre alla fratellanza tra i due popoli praticamente nessun cenno.
Conseguenze
Il premier serbo Aleksandar Vučić gode della reputazione di essere un politico vicino a Bruxelles e Washington e per questo atteggiamento filo occidentale è apertamente criticato dalla destra ultranazionalista, quindi proprio da chi ritiene molto importante la visita di Putin. È del tutto possibile che il premier serbo non abbia avuto un grande piacere nella preparazione dell'intero programma, ma è stato costretto a farlo ritenendo che fosse nel reale interesse della Serbia mantenere buone relazioni con Mosca e per dare una risposta alle forti richieste di un maggiore avvicinamento alla Russia, avanzate proprio da parte dell'elettorato che lo sostiene.
La visita di Putin però in futuro potrebbe portare a Belgrado più danni che vantaggi. È ovvio che influirà sulla posizione della Serbia nei rapporti tra Bruxelles e Washington, e di questo Vučić ne è perfettamente consapevole. Ora la Serbia dovrà continuare a dimostrare convinzione e decisione nel voler continuare con l'euro-integrazione e mostrare una collaborazione totale nella soluzione della crisi kosovara. È probabile che su questo aspetto ci si attenda dalla Serbia molto più entusiasmo, di quanto ha mostrato alla vigilia della visita di Putin Belgrado.
Allo stesso tempo, per quanto concerne la collaborazione economica con la Russia, le due parti si sono limitate alla firma di alcuni contratti generali, quali si siglano di solito durante simili visite. C'è la promessa di intenti da parte di Mosca sul fatto che la Serbia potrebbe iniziare a esportare automobili di produzione della Fijat di Kragujevac in Russia, ma ancora non ci sono segnali concreti che un tale accordo possa entrare in vigore. È certo invece che continua ad esserci spazio per aumentare l'export serbo di propri prodotti agricoli, ma la Serbia né sotto il profilo della quantità né sotto quello della qualità può ancora concorrere sul mercato russo.
Le forniture di gas russo alla Serbia sia per questo che per il prossimo anno non dipenderanno dagli accordi tra le due parti, ma dalla soluzione dei problemi politici all'interno del triangolo Mosca-Kiev-Bruxelles, e quindi la visita di Putin non avrebbe comunque potuto portare particolari garanzie alla Serbia. Il gasdotto South Stream, in cui la Serbia ripone grandi aspettative, continua ad essere in forse, mentre la parte russa, ancora alla vigilia dell'arrivo di Putin a Belgrado, ha fatto sapere che la sua realizzazione costerà addirittura il 45% in più di quanto previsto. Nemmeno su questo fronte, quindi, le prospettive sono particolarmente rosee.
I media serbi hanno sottolineato in modo entusiastico che c'è la possibilità che la Russia investa in Serbia 10 miliardi di euro, ma questa cifra enorme non ha riscontro in alcun programma concreto. Le affermazioni sui miliardi che arriveranno sono indirizzate più che altro all'opinione pubblica locale, preoccupata dalla fragile economia, con l'obiettivo di mantenere alta la convinzione che il governo in carica è pronto a risolvere efficacemente i problemi del paese.
In Serbia vincono i conservatori
internazionale.it - 17 marzo 2014
Il leader del Partito del progresso Aleksandar Vucic al seggio a Belgrado, il 16 marzo. (Darko Vojinovic, Ap/Lapresse)
In Serbia il Partito del progresso serbo ha vinto le elezioni parlamentari con il 48,8 per cento delle preferenze. Il partito filoeuropeo guidato dal conservatore Aleksandar Vucic, che è già al governo del paese, ha promesso riforme economiche sostanziali.
Il Partito socialista ha preso il 14 per cento, arrivando secondo. Solo altri due partiti hanno superato lo sbarramento del 5 per centoì: il Partito democratico (Ds) col 5,9 per cento e il Nuovo partito democratico al 5,7 per cento. L’affluenza è stata del 53,2 per cento, in calo rispetto al 57,7 del 2012.
Aleksandar Vucic sarà il prossimo primo ministro e guiderà il delicato passaggio dell’annessione del paese all’Unione europea. “Il mio obiettivo non è diventare ricco, il mio obiettivo è che il popolo serbo riesca a vivere meglio”, ha detto Vucic dopo le elezioni.
Riforme sostanziali. Quella del Partito del progresso è stata una delle vittorie più schiaccianti dagli anni novanta.
Nel suo discorso dopo la vittoria Vucic ha dichiarato di voler combattere la corruzione e la criminalità e di voler introdurre nuove riforme economiche che possano dare una scossa all’economia del paese, in seria difficoltà.
In Serbia, infatti, la disoccupazione è oltre il 20 per cento, il debito pubblico è superiore al 60 per cento del pil e il deficit di bilancio è al di sopra del 7 per cento.
Ma la sfida più grande del nuovo governo sono i negoziati cominciati il 21 gennaio tra la Serbia e l’Unione europea per diventare stato membro. Il nuovo governo dovrà convincere che gli standard europei non penalizzeranno il paese come sostiene la folta schiera degli euroscettici serbi. E allo stesso tempo Vucic dovrà convincere Bruxelles di essere un partner affidabile, soprattutto per quanto riguarda la lotta alla corruzione e alla criminalità.
L’altra questione aperta è il rapporto tra Belgrado e Pristina, la Serbia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo nel 2008. Le relazioni tra i due paesi si stanno normalizzando proprio in vista dell’adesione della Serbia all’Unione.
L’opposizione accusa Vucic di voler introdurre una leadership molto forte e di voler concentrare nelle mani del primo ministro tutti i poteri.
Belgrado festeggia avvio negoziati
adesione Ue, sarà 21 gennaio
Primo ministro: fissazione data un risultato storico
ilmondo.it - 18 Dicembre 2013
C'è soddisfazione a Belgrado dopo che ieri i ministri degli Esteri dell'Unione europea hanno fissato per il 21 gennaio l'inizio dei negoziati di adesione per la Serbia. Il primo ministro Ivica Dacic, secondo quanto riferisce il sito internet di B92, ha definito "storica" la decisione. "E' un risultato storico per l'attuale governo", ha detto Dacic, ringraziando i membri dell'esecutivo e il presidente Tomislav Nikolic. Dacic ha sottolinrato che, pur essendoci stato qualche problema nei più recenti incontri tecnici con Pristina, l'Ue è andata avanti e ha ringraziato per questo la responsabile della politica estera dell'unione Catherine Ashton. In particolare, Dacic s'è rallegrato che, nella cornice dei negoziati, la necessità di una "piena normalizzazione" dei rapporti con il Kosovo, condizione necessaria per l'integrazione europea della Serbia, sia stata sostituita da una "complessiva normalizzazione". Questo cancella "la possibilità che tutte le aree dei negoziati siano connesse col Kosovo". Ieri i ministri degli esteri Ue hanno "preso atto della riforma e degli sforzi di normalizzazione" con il Kosovo fatti dalla Serbia e hanno fissato per il 21 gennaio l'inizio dei negoziati d'adesione. La Serbia vorrebbe diventare il 29esimo membro dell'Unione europea. L'ultima a entrare nel raggruppamento è stata la Croazia. AFP
Serbia: il costo politico del gas russo
balcanicaucaso.org di Dragan Janjić - 2 dicembre 2013
Amore fraterno? Sembra tutt'altro. Tra i vari paesi europei dell'est la Serbia sembra quella più dipendente dal gas russo e con accordi con Mosca più svantaggiosi. Potrà questo mettere a repentaglio il suo avvicinamento all'Unione europea?
In Serbia, il 24 novembre scorso, è stata inaugurate ufficialmente alla presenza di tutto l’establishment del paese, la posa delle prime condotte del gasdotto South stream. I lavori in ogni caso dovrebbero iniziare fra tre mesi, ossia a febbraio ma i media serbi parlano del gasdotto in questione come cosa già fatta, contando sullo stimolo che arriva dai centinaia di milioni di euro che la Serbia ogni anno dovrebbe incassare per le tasse sul trasporto del gas verso altre destinazioni europee.
Il costo della realizzazione di questo gasdotto attraverso la Serbia è passato dagli iniziali 1,4 miliardi di euro agli attuali 1,9 miliardi. La Serbia deve assicurarne la metà, ma questo denaro non c’è e quindi si farà prestare dei crediti dalla russa Gazprom. Il garante di questo finanziamento, di fatto, sarà il governo serbo. Un prestito che verrà restituito grazie alla tassa sul trasporto del gas. Nei fatti quindi la Serbia, anche nel caso in cui l’intero gasdotto venisse terminato in tempo, ossia entro i prossimi due anni, non riuscirà per anni a vedere quelle centinaia di milioni di euro di cui oggi scrivono i media serbi.
Ma non è questo l'unico aspetto a far credere che la Serbia sia il partner ad aver ottenuto le condizioni peggiori, rispetto agli altri paesi dove il South stream passerà. Alla Russia è stato lasciato il 51% del gasdotto ed ha ottenuto una posizione dominante tanto quanto sul passaggio di gas e petrolio che sulle risorse di gas e petrolio di cui la Serbia dispone. La Serbia con il cosiddetto "accordo energetico" con la Russia si è persino impegnata a non modificare le condizioni di mercato del gas e del petrolio senza il via libera di Mosca.
Futuro europeo?
Questo tipo di accordo, alla base, è contrario all’accordo energetico europeo che esclude la possibilità che una stessa azienda abbia il controllo sia della produzione che della distribuzione del gas. L'accordo tra Serbia e Russia offre a quest’ultima un totale monopolio sul traffico di gas e petrolio nel paese, cosa che non combacia con la posizione dell’accordo energetico europeo che sancisce il diritto a terzi di accedere al mercato. Quindi se la Serbia vuole entrare nell’UE, dovrà implementare seri cambiamenti all’accordo con la Russia.
Modifiche che non passeranno facilmente perché la parte russa già da ora ha in mano potenti mezzi per esercitare pressioni sula Serbia. Infatti, Srbijagas è debitrice nei confronti di Gazprom per oltre un miliardo di euro di gas russo piazzato sul mercato locale. La Serbia non dispone di tale denaro e se la parte russa le chiedesse di pagare il debito, cadrebbe in una profonda crisi, con la possibilità che le vengano bloccate del tutto le forniture di gas. Si può pertanto affermare che la Russia, attraverso l’accordo sul gas, ha in mano le chiavi del futuro europeo della Serbia, allo stesso modo con cui può influire sulla prospettiva europea dell’Ucraina.
Politica
Tutta questa storia ovviamente ha avuto delle conseguenze politiche. Alcuni giorni dopo l'inaugurazione delle prime condotte del South stream, nell’inserto Ruska reč (La parola russa), venduto insieme al quotidiano filogovernativo Politika, è stato pubblicato un testo in cui, tra le altre cose, si affermava che il Centro per la protezione civile di Niš (Serbia centrale) diverrà una base militare russa.
Nel frattempo, l’ambasciatore russo a Belgrado Aleksandar Čepurin in varie interviste sui maggiori giornali serbi ha tenacemente insistito sul fatto che l’ingresso della Serbia nella NATO verrebbe accolto piuttosto male dalla Russia e che sarebbe una “mossa stupida”.
È chiaro quindi che la Russia non ha alcuna intenzione di concedere alla Serbia di “scivolare” così facilmente verso l’UE, e che in quest’ottica è in grado di usare tutto il potere offertole dall’accordo energetico.
La maggior parte dei partiti politici serbi continua a convincere l’opinione pubblica che la Russia difende gli interessi serbi. Ma la Serbia invece di essere “premiata”, come paese che esprime un orientamento filo russo, con un accordo energetico più favorevole e un prezzo del gas più basso rispetto ad altri paesi, si è trovata nella situazione opposta. È ricattata dai debiti e il prezzo del gas sul mercato serbo è di circa il 30 percento più alto che negli altri paesi europei.
Questa situazione è conseguenza di una conduzione del tutto amatoriale della politica estera negli ultimi anni, compresa l’incapacità dell’establishment politico serbo di valutare realmente le possibilità che il paese ha. Una politica incapace di risolvere i problemi cruciali e prigioniera di miti come quello del Kosovo. La Serbia non ha fatto per tempo passi decisivi verso l’eurointegrazione. Di conseguenza gli accordi con la Russia sono stati presi senza avere già alle spalle l'UE, come è stato invece per Bulgaria, Romania e altri paesi. Le suppliche sull’amor fraterno non hanno sortito alcun effetto, la Russia infatti ha freddamente sfruttato l’occasione che le veniva offerta.
Per come stanno le cose adesso, le relazioni proseguiranno nella stessa direzione, come dimostrano le dichiarazioni dell’ambasciatore Čepurin e anche solo l'ipotesi che venga realizzata una base militare russa a Niš. La coalizione di governo sembra essere alquanto allarmata da come si stanno sviluppando le cose e il premier Ivica Dačić ha iniziato ad addossare la responsabilità all’UE, accusandola di non aiutare abbastanza la Serbia che per questo si trova a dover rinforzare la collaborazione con la Russia e altri paesi dell’Est. Un argomento analogo è stato usato dal governo ucraino, come spiegazione del motivo per cui, dopo le minacce di Mosca, ha rinunciato alla firma dell’accordo di associazione con l’UE.
Lavori
Il gasdotto “South stream” a dire il vero non è russo-serbo, bensì è un progetto russo-europeo. E' stato lanciato nel 2008, quando la congiuntura economica sembrava nettamente favorevole a questo tipo di progetti. Poi è arrivata la crisi e le cose sono cambiate. La prima stima dei costi della realizzazione dell’intero gasdotto era di circa 10 miliardi di euro, oggi però sarebbero lievitati sino a non meno di 19 miliardi di euro. Inoltre i paesi coinvolti nel progetto sono più poveri di cinque anni fa, motivo per cui potrebbero rivedere il proprio impegno economico nel progetto.
Per il momento in Serbia l'unica cosa concreta sono due tubi saldati, mentre tutto il resto relativo al gasdotto è ancora solo un progetto. La domanda cruciale che in questo momento non ha una risposta è la seguente: in Italia, Svizzera, Austria e negli altri paesi europei vi è una domanda sufficientemente alta da poter motivare una rapida realizzazione di questo costoso progetto? Perché la richiesta del gas russo in Europa è scesa di circa un quinto, mettendo così in discussione la posizione dominante della Russia come unico fornitore di gas.
I paesi europei, scottati dalla cosiddetta crisi del gas tra Russia e Ucraina e altri paesi attraverso i quali passano i gasdotti già realizzati, hanno infatti iniziato a fornirsi di gas liquido. Si sta inoltre progettando un potenziamento del “North stream” che, evitando l’Ucraina e altri paesi di transito, aumenterebbe il trasporto potenziale di gas russo verso l'Europa.
Infine l'incognita Mar Nero: la Russia ha iniziato a costruire il gasdotto partendo dai giacimenti dai quali il “South stream” dovrà approvvigionarsi e a posizionare le tubature nel Mar Nero. Ma non si sa con precisione quanto il lavoro stia procedendo e se sono stati risolti tutti i problemi tecnici legati al passaggio in acque molto profonde e poco adatte.