Stefano Bolzonello è un cooperante italiano che ha vissuto gli ultimi due anni a Juba, capitale del Sud Sudan. Non si parla praticamente mai della situazione del più “giovane” Paese del mondo, nato con il referendum del 2011. Dopo il brevissimo periodo di euforia per l’indipendenza, il Sud Sudan ha dovuto fare i conti con la guerra e la povertà, mali endemici in Africa. Come per il vicino conflitto centrafricano le ragioni delle violenze vanno ricercate sicuramente in dissidi etnici, ma soprattutto negli appetiti economici delle grandi potenze globali. In questa intervista concessa a Unimondo, Bolzonello, non ignaro di questo scenario, cerca di raccontarci cosa succede tra la popolazione, con uno sguardo “dal basso” che ci fa capire la situazione molto meglio dei “lanci di agenzia” del circuito mediatico internazionale.
Può raccontarci come nasce la sua esperienza?
Ho lavorato negli ultimi 2 anni a Juba, la capitale del Sud Sudan, con l’associazione OVCI la Nostra Famiglia, che si occupa di disabilità in Italia e all’estero.
Ho collaborato ad un progetto di Riabilitazione su Base Comunitaria, con l’obiettivo di sostenere le famiglie e le realtà sociali (scuole, gruppi) a prendersi cura anche delle persone con disabilità: il progetto prevede che un gruppo di colleghi locali segua a domicilio circa 150 persone all’anno, oltre a percorsi di formazione nelle scuole per alunni e insegnanti, assemblee comunitarie, incontri con i leaders dei quartieri della città per sensibilizzare sulla presa in carico di tutti.
Bellissima opportunità che mi ha permesso di incontrare tante persone, di entrare in tante case, di partecipare a incontri e conoscere storie.
Quando è arrivato in Sud Sudan, come era la situazione?
Sono arrivato percependo l’onda lunga della gioia per l’indipendenza celebrata pochi mesi prima, ma il re è nudo in fretta quando la vita continua ad essere fragile.
Fragilità di uno stato africano nato da poco: confini non ancora definiti
(soprattutto nelle zone petrolifere), costo della vita molto alto dal momento che in loco si produce poco o nulla, dipendenza economica dal petrolio che obbliga a continue trattative con il Sudan, paese da cui ci si è appena staccati che però ha l’unico oleodotto utile per portare il petrolio ad un porto. Le infrastrutture sono molto carenti, c’è solo una strada asfaltata che collega Juba al confine ugandese, il resto sono piste di terra inservibili per dei mesi nella stagione delle piogge.
L’apparato statale è grande ma funziona poco e male: insegnanti pagati poco che stanno assenti da scuola, stipendi pagati con ritardo anche di mesi. Negli uffici pubblici non c’è niente per lavorare né una direzione chiara: scrivanie vuote, non c’è la carta per le lettere, non ci sono i mezzi per spostarsi. Ogni attività ha bisogno di denaro extra: se convochi una riunione, spesso bisogna provvedere a pagare il trasporto ai partecipanti, sennò la volta seguente non vengono più.
Come è evoluto il clima generale?
Nel tempo ho sentito uno scollamento tra il sentimento di appartenenza al Sud Sudan e il ri-sentimento verso una situazione di precarietà che resta faticosa da vivere. Si può parlare di delusione? Credo di sì.
La classe dirigente è la “cerniera” tra un ideale alto di un paese libero e la realtà povera; classe dirigente a cui chiedere il cambiamento e su cui riversare il proprio malcontento per quello che non va. In questa situazione di fragilità diffusa, la via dell’uomo forte, del leader che risolve i problemi sembra la più affascinante e veloce.
L’altra “scorciatoia” è la via dello scontro etnico: il Sud Sudan è un paese segnato da moltissimi anni di conflitto anche interno, da tradimenti e alleanze tra i vari comandanti appartenenti a gruppi diversi che negli anni del grande conflitto col Sudan hanno sviluppato piccoli o grandi “feudi” su cui far pesare adesso la loro influenza.
Due generazioni di guerra e isolamento, l’analfabetismo diffuso, la presenza di risorse, le lotte per il potere degli ex comandanti militari che si trovano a gestire uno stato e non una caserma, la massiccia “contaminazione” dall’esterno (sia per affari che nel settore umanitario) difficile da gestire: ingredienti che hanno portato alla crisi politica e poi civile dell’anno scorso, con il cambio di governo a luglio e le violenze scoppiate a dicembre.
Cosa le ha colpito maggiormente del recente conflitto?
Le violenze di fine 2013 mi hanno sorpreso per la velocità e l’intensità con cui si sono diffuse, non per la violenza in sé: il riconoscimento di uno stato dall’esterno non basta per farlo riconoscere anche “dall’interno”, dalle persone che ci abitano. Questo è un percorso lungo, che richiede tempo, interesse e competenza. Chiuso in casa con i colleghi mentre fuori sparavano, mi chiedevo come avrebbero fatto i vicini di casa a tornare a fidarsi gli uni degli altri, a mandare i figli nelle stesse scuole, a fare la spesa negli stessi mercati.
Lavorare sulle relazioni sociali è necessario tanto quanto costruire un palazzo del ministero, e servono entrambi per far funzionare il paese. Per quello che ho visto, la costante logica di emergenza non supporta lo sviluppo di uno sguardo sul lungo periodo, sia nella gestione della cosa pubblica sia nei progetti di aiuto.
Nei giorni successivi alla crisi, con migliaia di persone accampate nel terreno delle Nazioni Unite a Juba, non c’era nessuna organizzazione in grado di occuparsi del loro sostegno psicologico, secondo me un dato eloquente. Certamente distribuire cibo e teloni è importante, ma se non si lavora anche sulla costruzione di appartenenza non si va lontano.
Ora c’è la percezione di un’attesa di qualcosa: a Juba vige ancora il coprifuoco alle 23, ci sono moltissimi militari, l’orecchio da una parte ai negoziati di pace di Addis Abeba che proprio non decollano, dall’altra agli scontri nel resto del paese che sono violenti e offuscano il futuro.
Ci sono segni di speranza?
Sulla costruzione di identità e di appartenenza non si scappa dalla scuola: un paese giovanissimo deve investire sulla scuola per il futuro.
Mi ha colpito a Juba la rincorsa a tutti i livelli di certificati, diplomi, titoli di studio, lauree. Persone giovani e adulte che cercano di migliorare la propria posizione sociale anche attraverso lo studio. Ecco, al di là delle motivazioni per cui le persone si iscrivono, credo che questa rincorsa sia una grande opportunità per il paese: questi corsi, dalle scuole elementari alle università, potrebbero essere “palestre dello stare insieme”, per creare legami, relazioni e consapevolezza di un tessuto sociale che va certamente mutando.
Può raccontarci qualche storia particolare?
Michael è un bambino di tre anni ormai. Ha avuto una paralisi celebrale che lo rende incapace di camminare, di parlare, di deglutire cibi solidi. Sua madre Mary è venuta a Juba con lui due anni fa da un villaggio distante cento chilometri, quando le han detto che quel bambino “malato” poteva essere curato in capitale in un centro per bambini disabili. E lei è partita da sola, con i tre figli di uno, quattro e sei anni. Si è costruita una baracca con pali di legno e due teloni vicino al mercato, dentro c’è una sedia e un vecchio materasso che si inzuppa quando piove perché i teloni del tetto non tengono più.
Nei giorni caldi Mary vende acqua: ne compra una tanica, compra e mette il ghiaccio, poi la divide in bottigliette che raccoglie per strada e la rivende ai negozianti del mercato sotto il sole.
Due volte a settimana viene al centro di riabilitazione per le terapie del figlio: ogni volta si aspetta di vederlo camminare, anche se le à stato detto che non succederà. In braccio a lei Michael sorride sempre.
Nel Paese è anche importante il ruolo delle donne…
All’interno del progetto abbiamo dato un piccolo prestito ad un gruppo di cinque donne per aprire un ristorante locale e aiutare così le loro difficili situazioni familiari. Avrebbero dovuto aprire il giorno in cui sono cominciati gli scontri a Juba a dicembre, invece sono scappate o sono rimaste ovviamente chiuse in casa.
A metà gennaio si sono ritrovate per aprire: dopo i primi quattro giorni in cui i clienti erano pochi, tre di loro hanno lasciato il gruppo dicendo che non si guadagnava abbastanza ed era meglio restare a casa. Un’altra aveva il figlio malato e non si è più presentata. L’ultima ha tenuto duro. A inizio gennaio ha riaperto una scuola professionale proprio vicino al ristorante: ogni giorno gli studenti vanno a mangiare lì, le venti sedie sono sempre poche per le persone che arrivano, gli affari vanno bene. Prima di partire, ho chiesto un incontro con le donne del ristorante: ora sono in quattro, quelle che avevano lasciato sono tornate quando hanno visto che il lavoro c’è e funziona.
Ecco, un grazie a quell’ultima donna, Suzan, che ha tenuto duro quando nessuno ci credeva.
[PGC]