Turchia

Perché Erdogan bombarda i curdi e sostiene l’Isis

 

 

  notiziegeopolitiche.net  di Shorsh Surme - 2 novembre 2014

erdogan serio

Ormai è chiaro che sia l’Akp, il partito islamico “Giustizia e Sviluppo” di Erdogan, sia lo Stato Islamico (Isis) condividono lo stesso desiderio di vedere l’affermazione di un forte potere sunnita sia in Iraq che in Siria. Questo nonostante si sia da più parti auspicata una netta separazione fra Stato e religione.
Per il presidente turco prendere parte alla lotta contro i propri correligionari sunniti equivarrebbe ad andare contro gli insegnamenti del Corano e dell’Hadith, che impone la solidarietà tra musulmani e il divieto di collaborazione con gli infedeli.


La cosa è del tutto strumentale, in quanto il neo-presidente della Repubblica turca è senza dubbio al corrente di ciò che stanno facendo gli assassini dell’Isis (decapitazioni, stupri e vendita delle donne come schiave sessuali), ovvero quanto vi sia di più lontano dall’interpretazione del Corano. Detto questo non dimentichiamo che lo stesso Erdogan nel 2007, in occasione di un’intervista per la tv turca Kanal D, ebbe a dire che “Non c’è un Islam moderato. L’Islam è l’Islam”.


E non è neppure un segreto che i generali turchi in questi tre anni di guerra civile siriana abbiamo controllato e fornito armi ai terroristi islamici in Siria attraverso il confine fra i due paesi. E questo fatto è stato denunciato dai curdi molto tempo fa, ma in Occidente si è fatto orecchie da mercante.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha cercato anche di portare divisione fra i curdi e di mettere gli uni contro gli altri, insinuando che sarebbero stati i combattenti del Partito curdo dell’Unità Democratica (PYD), fondato nel 2003, a non volere l’aiuto dei loro fratelli peshmerga dell’Iraq. Il tutto è falso. Proprio due giorni fa il co-presidente del PYD, Salih Müslim, ha dato il benvenuto ai peshmerga per liberare la città di Kobane.


Il popolo curdo, in buona fede, aveva creduto nel dialogo tra Erdogan e Öcalan, ma la Turchia si è posta di traverso alla collaborazione fra i combattenti del Pkk e del Ypg in Siria. E non è venuta incontro neanche ai peshmerga in Iraq, quando i terroristi dell’Isis avevano occupato la città di Maxmur (Makhmour), nel agosto scorso.


Erdogan aveva la possibilità di dimostrare di essere intenzionato a portare avanti il processo di pace con il partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk (partî krêkaranî kurdistan), cominciato nel marzo 2013, dando sostegno a Kobane. Invece ha bombardato le postazioni del Pkk, il quale sta cercando di aiutare le forze curde in Siria. Queste negli ultimi tempi hanno guadagnato a livello internazionale la reputazione di essere il più forte nemico dello Stato Islamico.
Certamente l’assedio della città di Kobane e la fuga della popolazione curda rappresentano un fatto positivo per la Turchia di Erdogan, in quanto i curdi siriani vengono accusati di essere alleati ai “terroristi” del Pkk, gli stessi “terroristi” con i quali un anno fa Erdogan aveva iniziato il dialogo: un’evidente contraddizione.
Attraverso il sostegno a Kobane, Erdogan avrebbe potuto dimostrare la sua sincerità riguardo al processo di pace con il Pkk, invece ha scelto di utilizzare l’assedio della città come un’occasione d’oro per indebolire i curdi, mostrando la sua totale mancanza di interesse per la distensione con il Partito curdo dei Lavoratori .


In Turchia i funzionari del governo hanno dichiarato che non c’è differenza tra il Pkk e lo Stato Islamico. Eppure, con il suo rifiuto di sostenere il Rojava (Kurdistan siriano), Erdogan suggerisce che il progetto democratico “dal basso”, inclusivo, egualitario di genere, e dell’auto-governo, rappresenta per la regione una minaccia “terroristica” maggiore dell’ISIS.

 

TURCHIA.

140 giornalisti iraniani scrivono ai colleghi turchi,

‘denunciate la verità su Kobane!’

 

 

   notiziegeopolitiche.net  di Ehsan Soltani – 21 ottobre 2014

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Oltre 140 giornalisti iraniani hanno firmato un appello ai colleghi turchi chiedendo loro di assumere un atteggiamento corretto ed intervenire in merito alla situazione di Kobane, la città curdo-siriana situata a poche centinaia di metri dal confine turco e che da un mese è sotto attacco dalle forze jihadiste dell’Isis.
Nella lettera si legge che “I vostri colleghi iraniani stanno seguendo con preoccupazione quanto sta accadendo in questi giorni a Kobane, ovvero l’oppressione che un gruppo estremista sta esercitando in nome dell’ideologia e della religione sugli esseri umani, in un paese vicino a voi. (…) Oggi Kobane non è solo una città, ma anche rappresenta gli occhi di una coscienza risvegliata. Noi crediamo che le persone che stanno ora affrontando una delle ingiustizie più ingiuste della storia, non possano e non debbano essere rinchiuse in una gabbia etnica. (…) Coloro che oggi stanno uccidendo, un domani sicuramente verranno verso di noi e metteranno il coltello alla nostra gola: ieri era Shengal/Sinjar ad essere seduta sul sangue, oggi Kobane, domani toccherà a noi”.
Infine i giornalisti iraniani firmatari hanno chiesto ai colleghi turchi di compiere uno sforzo per mostrare la verità su quanto sta succedendo a Kobane, ovvero che la popolazione curda di quella città sta combattendo senza appoggio e a mani nude i jihadisti; li hanno invitati quindi ad utilizzare la loro penna per chiedere al mondo un sostegno internazionale nella lotta di difesa della città.


La lettera è stata pubblicata in lingua curda, persiana e turca.

 

SIRIA. Kobane: armi Usa ai curdi. E Ankara è pronta a far passare i peshmerga

Ankara potrebbe finalmente uscire dall’immobilismo e, almeno, far giungere forze peshmerga a sostegno dei curdi di Kobane, la cittadina siriana posta a poche centinaia di metri dal confine turco e teatro da settimane del tentativo di sfondamento delle milizie jihadiste dell’Isis, come pure di una strenua difesa dei curdi.
Sono diversi i fattori che hanno spinto la Turchia a non intervenire attivamente nel conflitto, primo fra tutti il fatto che il paese di Ankara ha avuto un ruolo primario nella nascita e nello sviluppo del gruppo terrorista (come Usa, alcuni paesi europei e Qatar) per intervenire nel conflitto siriano contro al-Assad, alleato di ferro della Russia: i combattenti jihadisti provenienti dal Nordafrica, dall’Occidente e dal Caucaso sono infatti entrati in Siria passando attraverso i porti, le strade e gli aeroporti turchi, come pure gli armamenti e i finanziamenti. Tra la Turchia e l’Isis vi sarebbe anche una sorta di trattato segreto, che ha già portato alla liberazione in blocco di 49 turchi ostaggi dei jihadisti. Non di meno per la Turchia rappresenta un problema l’unità dei curdi, tanto che i militari hanno bloccato al confine i molti profughi in fuga dalla città. E sempre al confine sono fermi 10mila militari turchi.
Nella notte gli Usa hanno rifornito tramite il lancio da tre Hercules C-130 di armi i curdi di Kobane, un “di grande aiuto”, come lo hanno definito il portavoce dell’Ypg (Unità di protezione del popolo), Redur Xelil.
L’apertura della Turchia consiste nel fatto di aver annunciato l’intenzione di concedere ai peshmerga provenienti dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno di raggiungere Kobane e, come ha spiegato il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, “Aiuteremo i peshmerga a entrare a Kobane: stiamo negoziando la questione”, in quanto “Non abbiamo alcun desidero di veder cadere la città”.
Il passaggio attraverso il territorio turco è indispensabile per far confluire tali forze a Kobane, in quanto il centro abitato è assediato su tre lati, est, sud e ovest, dai jihadisti.

Restano per il momento bloccati i curdi del Pkk (quindi turchi), anche se, ha precisato Cavusoglu, “Vogliamo disfarci di tutte queste minacce” nella regione, con riferimento all’Isis.

 

 Turchia nel caos, 14 manifestanti curdi uccisi

 

Manifestazioni in solidarietà con Kobane sotto assedio jihadisti

 

   Ansa  8 ottobre 2014

 

E' di 14 morti morti il bilancio degli scontri in Turchia nel corso di violente manifestazioni filocurde che sono esplose in solidarietà con la città siriana di Kobane sotto assedio dei jihadisti dell'Isis. Lo riferiscono diversi media di Ankara. Nella gran parte dei casi, si precisa, uomini armati hanno aperto il fuoco sui dimostranti. Solo due gli uccisi negli scontri con la polizia, afferma l'Anadolu. Almeno 5 i morti a Diyarbakir, la più grande città a maggioranza curda della Turchia. In sei province epicentro degli scontri è in vigore il coprifuoco.

 

Mercoledì la situazione resta tesa nelle sei province curde del sudest, dove il governo di Ankara ha imposto ieri il coprifuoco per cercare di riportare la calma. A Diyarbakir, principale città curda della Turchia, militari e blindati pattugliano le strade.

 

Gli scontri sono scoppiati martedì durante le manifestazioni organizzate in tutto il paese dal principale partito curdo, il Partito democratico del popolo (Hdp), per protestare contro il mancato intervento militare della Turchia a Kobane, città siriana al confine turco assediata dai jihadisti dell'Isis e strenuamente difesa dalla popolazione curda. Secondo la stampa nazionale, esponenti del Pkk (il partito comunista curdo che combatte da decenni una sanguinosa guerra di indipendenza con Ankara) hanno cominciato a sparare contro la polizia, che ha risposto al fuoco. Altri scontri sono scoppiati fra i curdi e i sostenitori di partiti e movimenti islamisti, come l'Huda-Par, simpatizzanti dell'Isis. Solo a Istanbul la polizia martedì ha arrestato 98 persone.

 

Per mercoledì mattina alle 11 il primo ministro Ahmet Davutoglu ha convocato una riunione per fare il punto della situazione.

 

Erdoğan chiede un intervento di terra in Siria

 

 

  Internazionale 7 ottobre 2014


Durante gli scontri i tra manifestanti curdi e la polizia turca, a Diyarbakir. (Ilyas Akengin, Afp)

 

La città curda di Kobane, in Siria, è “sul punto di cadere” nelle mani dei jihadisti, ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha aggiunto di ritenere necessario un intervento militare di terra per fermare i jihadisti dello Stato islamico. La città, considerata dai jihadisti dello Stato islamico uno snodo nevralgico per il controllo del nord della Siria, è teatro di violenti combattimenti tra gli islamici e le truppe curde.

 

I combattenti dello Stato islamico, secondo quanto riferito dall’Osservatorio siriano sui diritti umani, hanno preso il controllo di tre quartieri della città e stanno tentando l’assalto ad alcune aree a nord e a est del centro cittadino.

 

Intanto una persona è stata uccisa e almeno due sono state ferite negli scontri tra polizia e manifestanti che in molte città della Turchia protestano per chiedere ad Ankara di intervenire a Kobane.

 

Hakan Buksur, 25 anni, è stato ucciso da un proiettile dopo che la polizia ha caricato i manifestanti con pallottole, lacrimogeni e idranti nel distretto di Varto, nella provincia orientale di Mus. Negli stessi incidenti è stato ferito un secondo dimostrante.

 

Un avvocato identificato come Tamer Dogan è stato portato in ospedale a Istanbul, nel quartiere asiatico di Kadikoy, dopo una carica della polizia sulle persone che volevano manifestare per Kobane nonostante il divieto imposto dalle forze dell’ordine. Dogan aveva tentato di negoziare con la polizia prima dell’attacco, ha detto un suo collega al quotidiano Radikal, spiegando che l’avvocato è stato colpito in testa da un lacrimogeno mentre tentava di farsi da parte.

 

La Turchia sta ancora assistendo

nei propri ospedali gli jihadisti dell’Isis

 

 

notiziegeopolitiche.net  di Guido Keller - 7 ottobre 2014

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L’Isis (Stato Islamico) è il frutto di un’iniziativa spericolata principalmente di Usa, Qatar e Turchia ideata per combattere Bashar al-Assad in Siria, paese in cui non è stato possibile intervenire direttamente come in Libia e in Egitto in quanto alleato di Mosca. E difatti a Tartus vi è una fornitissima base militare russa, fino a poco fa l’unica in un panorama che dal Marocco al Kirkizistan, con l’esclusione di Iran e Siria, vedeva basi statunitensi.


In particolare il contributo turco alla nascita e allo sviluppo dell’Isis è consistito nel far transitare i molti combattenti jihadisti nordafricani, caucasici e occidentali attraverso il proprio territorio, come ha confermato a Notizie Geopolitiche uno dei leader di Ansar al-Sharia, il tunisino Hassan Ben Brik: “In Libia c’è il caos, organizzare campi di addestramento da quelle parti sarebbe impossibile per chiunque. Chi va in Siria passa per la Turchia, viene addestrato una volta entrato in Siria, da lì”.”


Sempre dalla Turchia sono passati armamenti e denaro, ma il Paese di Ankara ha fornito anche assistenza nei propri ospedali ai combattenti feriti.
A differenza del supporto logistico al transito di uomini e armamenti diretti all’Isis, che è oggi stato interrotto con l’annunciata partecipazione della Turchia alla coalizione anti-Califfato, l’assistenza ai feriti jihadisti che combattono in Siria e in Iraq per il Califfato sembra continuare: il quotidiano Diha ha infatti reso noto che presso Urfa, non distante dal confine con la regione curdo-siriana (Rojava), è possibile vedere il doppio atteggiamento del governo turco in materia di Isis, proprio perché le bande di jihadisti entrano nel territorio turco sotto il controllo dei militari di Ankara e portano i loro feriti negli ospedali pubblici della città.
Il tutto mentre il governo guidato da Ahmed Davutoglu (in realtà dallo stesso Erdogan), ha annunciato di aver stanziato 10mila soldati lungo la stessa porzione di confine e mentre i jihadisti combattono per prendere la città curda di Kobane, della quale hanno già conquistato alcuni quartieri.


Sempre Diha riporta una foto, diffusa sui social media, dove si vede uno jihadista dell’isis muoversi liberamente per le strade di Urfa.

Lo Stato islamico avanza verso la Turchia

 

 

   Internazionale 6 ottobre 2014


Gli scontri a Kobane, in Siria, il 6 ottobre 2014. (Aris Messinis, Afp)

 

 

Kobane, la città siriana al confine con la Turchia, è al centro da almeno tre settimane di aspri combattimenti: il 6 ottobre alcune bandiere nere dello Stato islamico sono state avvistate da militari e giornalisti sulle colline circostanti.

 

A difendere la città e a respingere l’assalto delle milizie islamiste sono soprattutto le truppe curde, appoggiate dai raid aerei della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, che cercano di rallentare l’avanzata dei jihadisti. Secondo i combattenti curdi, tuttavia, i bombardamenti non sono sufficienti: servirebbero aiuti anche via terra, armi e munizioni.

 

Esmat al Sheikh, capo dell’autorità di difesa di Kobane, ha detto: “Se entreranno questa città diventerà un cimitero per tutti. O vinciamo o moriamo. Resisteremo fino alla morte”. Dall’inizio dei combattimenti almeno 160mila persone sono fuggite in Turchia, dove aumenta la paura che la regione frontaliera cada nelle mani dello Stato islamico.

 

La Turchia. Questo timore potrebbe costringere Ankara a superare la tradizionale diffidenza verso i curdi. Per rispondere alle critiche di non aver aiutato i curdi a difendere Kobane, il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha sottolineato il 5 ottobre che per il governo turco lo Stato islamico e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sono la stessa cosa.

Turchia: se internet è ancora una sfida 

 

 

Internet - Duncan Hull/flickr
 

A inizio settembre la Turchia, paese che conosce crescenti limitazioni in rete, è stata protagonista del dibattito sulla libertà di internet. Un tema di importanza globale, ma troppo spesso definito esclusivamente da una cerchia ristretta di esperti

 

La stretta su internet sta diventando sempre più soffocante in Turchia. Lo scorso 10 settembre il parlamento ha approvato - all’interno di una legge omnibus - due articoli che attribuiscono al Direttorato per le telecomunicazioni e le comunicazioni (TİB, un ente governativo) il diritto di limitare siti web che pubblichino contenuti ritenuti rischiosi per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, ma non solo.

Lo stesso ente, alla cui guida si trova un ex dirigente dell’intelligence turca, potrà ottenere senza l’autorizzazione del tribunale i dati sul traffico dei navigatori della rete. Ciò significa che il TİB avrà accesso alla cronologia dei siti web visitati dagli internauti, potendo oltretutto conservare i metadata come gli indirizzi di posta elettronica degli utenti. “Informazioni che sono in grado di esporre dei dettagli estremamente personali relativi alle attività online, portandoli ad essere politicamente etichettati”, come afferma l’Human Rights Watch.

 

Internet (un)Governance Forum

 

Proprio qualche giorno prima dell’approvazione della legge, si tenevano a Istanbul due importanti appuntamenti internazionali riguardanti la rete. Il primo, l’Internet Governance Forum (IGF), svolto tra il 2 e il 5 settembre, è un evento che si realizza da nove anni sotto l’egida dell’ONU e ha come obiettivo quello di procurare un terreno di incontro tra governi, società private e ONG sulle politiche relative a internet. Ma la scelta della Turchia - dove sono in atto misure restrittive su internet - quale paese ospitante dell’evento, è stata duramente criticata tra i sostenitori della libertà della rete.

Proprio per discutere della censura dei contenuti che circolano su internet, con particolare riferimento al caso della Turchia, dove nei mesi scorsi Youtube e Twitter sono rimasti bloccati per diverse settimane (così come restano attualmente inaccessibili circa 50mila siti), l’Associazione di informatica alternativa, che riunisce attivisti, giuristi e accademici turchi del settore, ha presentato al Governance Forum la proposta di realizzare quattro workshop che sono però stati respinti. La motivazione ufficiale fornita dall’organizzazione del forum è stata la necessità di trattare temi di più ampia portata, che non restino legati al contesto di un unico paese, anche se, a dirla tutta, il tema della censura è stato proprio tra i meno dibattuti del Governance Forum.

L’Associazione di informatica alternativa non ha comunque boicottato il forum ufficiale, cui ha partecipato con uno stand e gli interventi dei suoi relatori a diversi dibattiti, ma ha organizzato il 4-5 settembre un evento parallelo ad esso, chiamato per reazione Internet Ungovernance Forum (IUF), inteso a trattare questioni rimaste escluse dal primo, a partire proprio dalla messa in discussione del concetto di “governance”.

Mentre infatti la società civile che aderisce all’IGF sostiene la struttura “compartecipativa” (governi, società private, ong) del forum, gli altri ritengono che il processo che deriva da una tale struttura, date le evidenti differenze di mezzi economici e di interessi in questione degli attori coinvolti, non può essere realmente paritaria, prospettando un inevitabile risvolto contro gli interessi e le libertà degli internatuti. Da qui la necessità espressa dalla IUF di produrre alternative ai processi dell’IGF su come intendere e gestire internet.

 

Internet libero: un dibattito aperto

 

All’IUF – realizzato con poche migliaia di lire turche ma con una nutrita partecipazione di attivisti arrivati da diverse parti del mondo, incluse anche numerose persone aderenti all’IGF – il dibattito si è incentrato essenzialmente su tre temi: il concetto di “governance” – appunto, da rivedere e proseguire negli anni a venire, con l’obiettivo di dare più voce in capitolo alle ONG, rinforzando i legami tra i partecipanti e senza ricadere in strutture gerarchiche; le censure e i controlli messi in atto nella rete dai governi con la collaborazione delle grandi società attive nel settore; le precauzioni e gli accorgimenti da adottare per preservare la privacy contro questi meccanismi mirati a violarla.

Riguardo a quest’ultimo punto sono stati organizzati dei “cripto-party” per discutere i metodi da utilizzare per criptare i computer e le comunicazioni. L’Associazione di informatica alternativa e la Electronic Frontiers Foundation hanno presentato a tal proposito alcuni siti come KemGozlereSis.org.tr e Prism-Break.org, come pure sono stati segnalati https://help.riseup.net/ o https://securityinabox.org/ da altri attivisti.

Anche al Governance Forum sono stati realizzati numerosi laboratori, incontri e dibattiti su vari temi tra cui la cyber-security, sulla possibilità di portare la banda larga ai paesi in via di sviluppo e sulla libertà d’espressione. Tra gli elementi centrali delle discussioni anche il rischio di perdita della “neutralità” della rete, che consentirebbe ai providers di privilegiare la velocità di connessione dei siti web delle aziende (paganti) a scapito di quelli che non pagano, creando una rete meno sicura e meno libera. Un altro motivo di preoccupazione dibattuto al forum è la frammentazione della rete in giurisdizioni nazionali e network, processo che comporta per ciascuno requisiti legali e limitazioni di contenuti differenti.

Ma al centro delle discussioni all'IGF c’erano anche gli organi decisionali di Internet, primo fra tutti la ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), ente privato e non profit gestito dal Dipartimento del commercio statunitense che dal 1998 si occupa dell’assegnazione dei domini e della gestione degli indirizzi IP. Dopo lo scandalo di spionaggio della National Security Authority degli USA rivelato un anno fa dall’ex dipendente della CIA Edward Snowden, che ha messo in luce come Internet sia stato trasformato in un’area di spionaggio globale per il tramite di grandi società come Google, Facebook e Microsoft, la predominanza degli Stati Uniti sull’ICANN è messa in seria discussione, e anche al forum si sono dibattute proposte sul trasferimento della sua gestione alla comunità internazionale.

 

Laboratorio Turchia

 

Sebbene la “governance” di internet riguardi circa 3 miliardi di utenti al mondo, la questione viene dibattuta solo da qualche migliaio di esperti. E la mancanza di esiti concreti dopo nove anni di riunioni IGF, fa sì che la funzione di quest’ultima sia sempre più spesso messa in discussione. Il fatto che un forum alternativo, che voglia unire le voci che credono nella libertà della rete, sia nato quest’anno in Turchia dove internet e i social media hanno avuto un ruolo di prima importanza a partire dalle manifestazioni di Gezi dell’anno scorso per arrivare alle accuse di corruzione contro il governo, è significativo. Non a caso le misure di controllo delle autorità turche su internet già in atto con la legge 5651 si sono inasprite proprio dopo questi eventi.

“Centinaia di account Twitter sono stati chiusi, la riforma di legge è stata giustificata con la difesa della privacy, ma ricordiamo che una legge sulla privacy in Turchia non viene formulata da dieci anni”, afferma İlden Dirini dell’Associazione di informatica alternativa. Secondo quanto affermano gli attivisti dell’associazione l’esecutivo turco avrebbe acquistato dalla NetClean e dalla Procera Networks, società che producono “prodotti di intelligence per la rete”, dei programmi che forniscono un servizio di filtro per internet, che serve per la profilazione degli utenti e a bloccarli quando necessario. “Potranno rallentare e controllare i servizi https o i VPN e lo stato potrà etichettare gli utenti che li utilizzano” prosegue Dirini.

Mentre gli attivisti si stanno già mobilitando per consolidare l’esperienza dell’Ungovernance Forum l’anno prossimo in Brasile, in occasione del prossimo IGF, un contributo al dibattito sulla censura in internet è arrivato anche da Julian Assange, che ha partecipato in video conferenza all’Ungovernance Forum dall’Ambasciata dell’Equador, dove si trova rifugiato da due anni.

Il fondatore di Wikilieaks ha ricordato che le pratiche di controllo su internet non sono altro che un serpente che si morde la coda. “Se installate un sistema per ascoltare il vostro popolo gli USA e gli altri paesi la utilizzeranno per ascoltare voi. (…) La tecnologia cambia continuamente a partire dalla Rivoluzione industriale e influenza la nostra vita. La lotta che va fatta oggi è quella di riuscire utilizzare queste tecnologie a favore dell’umanità”.

 

Il nemico alle porte di Internet

 

  balcanicaucaso.org -  12 settembre 2014

 

Il nemico alle porte di Internet

 

“Chi è il nemico di Internet?” Il portale informativo Bianet ha posto questa domanda ai partecipanti dell'Internet Ungovernance Forum, che si è tenuto ad Istanbul dal 4 al 5 del settembre scorso

 

Ad Istanbul dal 2 al 5 settembre 2014 si è tenuto il nono meeting annuale dell'Internet Governance Forum (IGF). Parallelamente ed in alternativa, presso il Santral Campus di Istanbul Bilgi University, è stato ospitato l'Internet Ungovernance Forum, che ha avuto tra i suoi partecipanti molti difensori della libertà di espressione e attivisti Internet da tutto il mondo.

Questo secondo forum desiderava sottolineare come IGF non desse la giusta attenzione ai problemi più urgenti di Internet: in particolare, la censura alla libertà di parola; l'eccessiva sorveglianza statale; l'iper-commercializzazione e la monopolizzazione della rete da parte di grandi aziende e dei governi.

Si è voluto creare uno spazio diverso per poter raccogliere le voci di iniziative della società civile, attivisti e gente comune per discutere apertamente di questi problemi. L'obbiettivo degli organizzatori era quello di mettere in connessione le lotte che si stanno portando avanti in tutto il mondo per mantenere Internet come una piattaforma libera e indipendente al fine di divulgare informazione e lotte di giustizia.

Durante il forum, Bianet - un portale on-line turco - ha chiesto agli attivisti “Chi è il nemico di Internet?” e, nonostante le differenti risposte, la maggior parte di queste si è focalizzata sul tema della “centralizzazione” statale.

Gli attivisti hanno sottolineato che gli sforzi governativi nel centralizzare i propri paesi stanno minacciando la neutralità della rete attraverso una censura di Internet e forme di sorveglianza sempre più stringenti.

 

Chi è il nemico di Internet?

 

Julia Reda, Euro-parlamentare del Partito dei Pirati

Il più grande nemico di Internet è la centralizzazione. Internet è stato fondato come una rete attraverso cui gli individui potessero interagire tra loro senza avere un centro. Tuttavia, grandi compagnie come Facebook e i governi cercano di limitare Internet in una specifica geografia. Questa è una minaccia che potrebbe far collassare la fondazione stessa di Internet. Di conseguenza, abbiamo bisogno di maggior controllo sulla piattaforma di Internet, ma deve trattarsi di un controllo sulla neutralità della rete. Inoltre, abbiamo bisogno di stabilire sistemi sub-strutturali, fondamenta decentralizzate e meccanismi di controllo democratico su queste fondamenta.

Erkan Saka, Facoltà di Comunicazione, Istanbul Bilgi University

La più grande minaccia è che i governi e le aziende conservino troppo controllo su Internet. Quello che sta accadendo con i media di Internet è lo stesso che è accaduto con i mass media agli inizi del 20esimo secolo. Questo significa anche la perdita di una idea di sfera pubblica. Quando Internet viene commercializzato e comincia ad essere controllato dagli stati, anche le possibilità di creare un media indipendente diminuiscono proporzionalmente. Per questo motivo, l'oggettività del web è davvero molto importante.

Fieke Jansen, HIVOS- Partenariato di Difensori Digitali

Tutti noi siamo nemici di Internet. Come dice un mio amico, Internet fu creato come un prodotto tecnologico inizialmente per gli individui e in seguito per le università. I governi sono gli ultimi della lista. Tuttavia, ognuno è nemico di Internet perché ognuno detiene i suoi propri interessi in Internet e tutti desidererebbero controllare questo campo. Allora, siamo noi stessi l'effettiva soluzione. Dovremmo provare a mantenere la decentralizzazione di Internet, sviluppare tecnologie per questo fine, e prevenire i governi dalla centralizzazione di Internet con il pretesto della sicurezza nazionale.

Johann Bihr, Reporters senza Frontiere

Internet è un'area importante, in cui l'informazione può propagarsi velocemente, ma che è attualmente in un periodo critico. Molti governi stanno cercando di convertire Internet in un'area nazionale ristretta, che possano censurare e controllare facilmente. La censura e il controllo sono molto comuni tra gli Stati, che si definiscono democratici e questa situazione minaccia la libertà di espressione.

Come in Turchia, la libertà di Internet è messa seriamente sotto pressione. Nel 2014, restrizioni, prevenzioni e specialmente normative su Internet hanno creato una grave minaccia. Alcune istituzioni amministrative come le Autorità di Telecomunicazioni sono state dedicate al controllo e alla censura di Internet. Questo può provocare decisioni arbitrarie. Anche la Legge di Organizzazione Nazionale dell'Intelligence (MIT) consente che gli utenti vengano rilevati e messi in una lista nera; d'altra parte, permette a chiunque di pubblicare in MIT nuove news da far sanzionare.

Işık Mater, Associazione Informatica Alternativa

L'essenziale nemico di internet è costituito dai poteri oppressivi, cioè da stati e governi. In questo caso, non importa se i governi siano composti dall'AKP (Partito di Giustizia e Sviluppo) o dal CHP (Partito Repubblicano delle Persone). Tutti loro vogliono controllare internet. L'unico modo di contrastare questo fatto è esserne consapevoli e far crescere la consapevolezza. Argomenti come: “Perché dovrebbero controllarmi?”, “Non ho niente da nascondere”, oppure “Io posso superare la censura cambiando il mio nome di dominio” non hanno senso. Attraverso la più semplice attività su Internet, i nostri dati personali possono essere accessibili ad una terza parte. Dobbiamo esserne consapevoli.

Geoffrey King, Comitato di Protezione dei Giornalisti

Internet è ancora una volta il suo stesso nemico per molteplici aspetti: l'arena di lotta per la libertà di espressione delle persone ha un potenziale di controllo sociale che deriva dalla stessa rete. Di conseguenza, abbiamo bisogno di essere astuti e in questo modo devono essere sviluppate fondamenta legali e tecnologiche. Diversamente, ci potrebbe essere una irrimediabile catastrofe se Internet venisse bloccato o ristretto. Noi dovremmo mantenere Internet dinamico e funzionale. In questo senso, il giornalista ha una importante responsabilità: noi possiamo pubblicare prove sulla violenza della polizia o sulla corruzione in Internet; e possiamo mantenere la dinamicità di Internet creando un'area dove i diritti umani siano moltiplicati.

 

 Turchia: donne sfidano vicepremier,

ridono su Twitter

 

Islamico Arinc aveva detto "ridere in pubblico è peccaminoso"

 

   Ansa - 30 luglio 2014

 

Il vicepremier islamico dice che le donne non devono ridere in pubblico, perché è peccaminoso, e centinaia di donne per risposta mettono sui social network le loro foto sorridenti. Succede in Turchia, dove la cultura laica tradizionale si scontra con il ritorno prepotente di quella musulmana, spinta da dieci anni di successi economici del premier islamico Erdogan.

Il quotidiano Hurriyet riferisce che il vice primo ministro, Bulent Arinc, braccio destro di Erdogan, lunedì si è lasciato andare a commenti da imam integralista: "La donna saprà quello che è peccaminoso e quello che non lo è. Non riderà in pubblico.

 

Non sarà seducente nel suo comportamento e proteggerà la sua castità".

Le parole di Arinc hanno suscitato la reazione di centinaia di donne turche, che su Facebook e Twitter hanno postato loro foto sorridenti. Sono donne giovani, vestite all'occidentale, a capo scoperto, non distinguibili dalle loro coetanee italiane o spagnole

TURCHIA

Ancora intercettazioni del premier:

nuova ondata di arresti

 

  Notizie Geopolitiche 22 luglio 2014

 

erdoganA distanza di poco più di un mese dallo scandalo delle intercettazioni che avevano interessato il premier Recep Tayyp Erdogan, inchiesta che aveva portato all’arresto di 11 persone, la Turchia si trova a doversi confrontare nuovamente con un caso di conflittualità fra poteri, sempre per via di intercettazioni effettuate nei confronti del Primo ministro: numerosi arresti di poliziotti e di alti ufficiali sono stati effettuati oggi in 22 provincie, accusati di aver approfittato di un’indagine anti-terrorismo per spiare Erdogan e i suoi collaboratori.
Come ha spiegato il procuratore capo Hadi Salihoglu, sono stati spiccati mandati d’arresto per “76 poliziotti che stavano indagando su un gruppo chiamato selam-tevhid, ma il cui vero obiettivo era quello di spiare” Erdogan e gli altri apparati dello Stato.


Va detto che in passato la Turchia ha dovuto fare i conti con colpi di Stato e tentativi di golpe, per cui è giustificabile una certa prudenza da parte di chi è al governo.


L’ex capo dell’anti-terrorismo di Istanbul, Yurt Atayun, portato via in manette, ha sostenuto che quella di oggi èuna manovra politica in vista delle presidenziali che si terranno fra poche settimane.

 

I grattacieli di Istanbul

 

 balcanicaucaso.org  di Matteo Tacconi  - 17 luglio 2014

 

 

La costruzione di grattacieli sempre più alti ad Istanbul è sotto accusa, per il danno che i giganti porterebbero al patrimonio paesaggistico dell'antica capitale bizantina e ottomana. Ma il vero scontro sembra piuttosto sul modello di sviluppo economico voluto dal governo dell'AKP

 

Grattacieli a Istanbul (foto L. Zanoni)

Sono tre palazzi di trentasei, trentadue e ventisette piani. Contengono in tutto quasi cinquecento appartamenti. Intorno si sviluppa un’ampia area di venticinquemila metri quadri, adibita principalmente a negozi e parcheggi. È questa la scheda tecnica, breve ma importante nei numeri, di Onaltı Dokuz . Si tratta di un complesso residenziale e commerciale tirato su nel distretto di Zeytinburnu, nella parte occidentale di Istanbul.

 

Nel sito di Onalti Dokuz si legge del panorama mozzafiato che gli inquilini, dai loro appartamenti, possono ammirare. La vista si posa sulle moschea blu e di Solimano, su Aya Sofya e sul palazzo Topkapı, storica residenza dei sultani. Oltre il Corno d’Oro, la lingua di mare che divide in due la parte europea della città, emerge invece la sagoma tozza della torre di Galata, che completa il celebre skyline di Istanbul.

 

Il problema è che questo stesso skyline, se inquadrato dall’altro versante di Istanbul, risulta inquinato dalle tre torri di Onaltı Dokuz, che s’incuneano con irruenza in questa silhouette. Per tale motivo lo scorso dicembre un giudice del distretto giudiziario di Istanbul ha ordinato di “limare” i grattacieli di Onalti Dokuz, in modo da salvaguardare lo skyline.

 

La sentenza non è stata applicata. La ditta costruttrice, Astay, controllata da Mesut Toprak, ha presentato ricorso. Questione di soldi. L’azienda, dovesse davvero abbattere alcuni dei piani dei tre grattacieli, avrebbe ripercussioni negative in termini finanziari. S’attende comunque l’appello.

 

Grattacieli e politica

Questa vicenda ha anche delle venature politiche. Mesut Toprak è ritenuto vicino al primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e alcune ricostruzioni giornalistiche, tra cui quella di Al-Monitor , hanno rivelato che l’imprenditore avrebbe ottenuto il terreno a prezzi agevolati. Non solo: il comune di Istanbul, retto dall’Akp, il partito di Erdoğan, avrebbe cambiato il piano regolatore in modo discutibile, così da permettere a Toprak, che avrebbe donato allo stesso Akp il terreno dove sorge la sua sede di Istanbul, di sviluppare il progetto schivando vincoli culturali e architettonici.

Erdoğan, tramite i suoi collaboratori, ha fatto sapere che a suo tempo aveva esplicitato a Toprak la propria contrarietà al progetto. Ma l’ex ministro della Cultura, Ertuğrul Günay, ha fornito un’altra versione dei fatti. Günay, uscito dal partito dopo che lo scorso dicembre è emerso lo scandalo della corruzione nelle alte sfere dell’Akp, ha spiegato che aveva fatto presente al primo ministro i problemi che le torri di Onaltı Dokuz ponevano a livello paesaggistico. «Ma anziché ascoltarmi Erdoğan disse che stavo esagerando e che gli edifici non avrebbero disturbato la silhouette», ha spiegato Günay al quotidiano Zaman , vicino a Fetullah Gülen. Quest’ultimo è il predicatore che, muovendo gli ingranaggi di Hizmet, la potentissima congregazione civile-religiosa che ha fondato, sta cercando di opporsi a quella che a suo avviso è la deriva autocratica di Erdoğan.

 

Sviluppo economico o paesaggio?

 

La vicenda dell’Onaltı Dokuz non è un caso isolato. Le istanza ecologiste emerse durante la protesta di Gezi Park, accoppiate alla questione ancora scottante delle tangenti, a sua volta legata allo scontro in corso tra Erdoğan e Gülen, nonché alle imminenti presidenziali di agosto e alle politiche del prossimo anno, hanno fatto partire una campagna stampa, coordinata proprio dai media gulenisti, intenta a denunciare la foga edilizia che sta ridisegnando o scarnificando, a seconda dei punti di vista, il paesaggio urbano della capitale finanziaria e culturale della Turchia.

 

instanbul Un altro esempio riguarda la Spine Tower. Con i suoi 200 metri è l’edificio più alto, tra i tanti incapsulati nel distretto commerciale di Maslak. Anch’esso si trova nella porzione europea della città. Dei suoi 47 piani, 27 sarebbero stati edificati irregolarmente. L’area che si sviluppa intorno, invece, avrebbe una superficie verde inferiore rispetto a quella pattuita all’inizio dei lavori. Il bestione, che secondo i detrattori oscura la vista del Bosforo e del palazzo Dolmabahce , che fu sede amministrativa dell’Impero ottomano tra la metà dell’800 e gli anni ’20 del secolo scorso, è stato costruito da Alp Gurkan, un altro imprenditore del mattone considerato vicino all’Akp. Ma Gurkan è anche il proprietario della miniera di carbone di Soma, dove a maggio 300 operai sono rimasti intrappolati sottoterra, perdendo la vita.

 

Il disastro di Soma ha squadernato il rapporto controverso tra crescita e sicurezza in Turchia. Secondo i critici l’avanzata economica turca, uno dei grandi vanti dell’era Erdoğan, è stata dettata da una scarsa sensibilità verso le condizioni dei lavoratori. La corsa alla ricchezza – questo il succo – è più importante della tutela dell’individuo. Usando una lente più larga, si può dire che la polemica sui grattacieli rientra nello stesso discorso. Le torri ingombranti che sono spuntate in questi anni a Istanbul – ma anche i progetti faraonici come il tunnel sul Bosforo e il nuovo aeroporto – sono il simbolo di un modello socio-economico fondato su regole turbo-capitaliste, in cui quello che conta è il progresso a ogni costo. La differenza è che in questo caso la tutela viene meno non verso il lavoratore, ma nei confronti dello skyline e della stratificazione storica e culturale che lo sorregge.

 

Alle accuse, l'Akp risponde coi numeri

 

Sempre sul quotidiano  Zaman , recentemente, l’intellettuale Taha Akyol è intervenuto sul tema dei grattacieli, legandolo al concetto di conservatorismo, di cui Erdoğan e l’Akp sono interpreti. Secondo Akyol, tuttavia, quello del primo ministro e della sua formazione non è vero conservatorismo. E per sostenere questa tesi ha usato come caso scuola la realizzazione dell’imponente moschea di Çamlıca, situata sul colle più alto di Üsküdar, sulla sponda asiatica di Istanbul. L’edificio, di quindicimila metri quadri, fortemente voluto da Erdoğan, risulterà visibile da ogni punto della città, una volta ultimato. «Un conservatore o un partito di governo conservatore vedrebbero nella costruzione di una simile moschea, che rivaleggia con quelle più antiche, un gesto irrispettoso verso i valori storici». Quella di Erdoğan è dunque una forma di esibizione, che nulla c’entra con la volontà di ossequiare la fede, intesa come pilastro del conservatorismo.

 

A queste contestazioni, Erdoğan e la sua squadra rispondono come al solito con i numeri. Quelli economici, come quelli politici. Mai come oggi la Turchia ha goduto di buona salute. In dieci anni il Pil pro capite è triplicato. Il paese ha oggi una classe media che compra, consuma, investe. Mentre l’Akp, dal 2002 a oggi, non ha perso una sola contesa elettorale.

 

TURCHIA. Erdogan come Maduro,

‘la stampa estera fomenta i disordini, sono spie’

 

   Notizie Geopolitiche –  3 giugno 2014

erdogan

 

Come Nicolas Maduro in Venezuela, anche il premier turco Recep Tayyp Erdogan ha accusato i media, soprattutto quelli stranieri, di fomentare i disordini in Turchia con giornalisti “a cui viene assegnato il compito di lavorare come spie”.


Sabato scorso un inviato della Cnn, Ivan Watson, è stato arrestato in diretta con la sua troupe mentre stava lavorando ad un servizio sulle proteste di Istanbul ad un anno dalla rivolta di Gezi Park, un’azione delle forze dell’ordine lodata da Erdogan nel suo intervento alla Camera dei deputati per “l’atteggiamento fermo”: “i media internazionali – ha detto il premier – venuti a Istanbul per realizzare servizi esagerati o provocatori se ne sono andati a mani vuote”. (…). “La Cnn – ha continuato – non è interessata a una stampa libera, imparziale, indipendente, il loro compito è di lavorare come spie”.


In realtà anche sabato vi è stata una dura repressione degli agenti nei confronti dei manifestanti con tanto di ricorso a idranti e lacrimogeni volti ad impedire l’afflusso dei contestatori in Piazza Taksim.


Il commissario Ue all’Allargamento, Stefan Fuele, ha criticato le affermazioni di Erdogan, affermando che “quello di riunirsi pacificamente è un diritto fondamentale che deve essere rispettato” e ricordando che “Qualsiasi Paese che aspiri all’ingresso nell’Ue deve garantire i diritti umani, compreso quello di assemblea e di associazione dei suoi cittadini”.

 

Due morti a Istanbul negli scontri

tra manifestanti e polizia

 

   Internazionale23 maggio 2014


Una donna scappa dai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia a Okmeydani, a Istanbul, in Turchia. (Bulent Kilic, Afp)

 

Nuovi scontri sono scoppiati il 23 maggio a Istanbul, in Turchia, quando è stata diffusa la notizia della morte di una seconda persona negli scontri andati avanti tutta la notte tra polizia e manifestanti nel quartiere di Okmeydani.

 

Anche il 23 maggio la polizia ha sparato colpi di pistola in aria per disperdere la folla, prima di lanciare dei gas lacrimogeni, secondo quanto riferito da un fotoreporter della France-Presse presente sul posto. Il 22 maggio la polizia ha sparato contro la folla, che protestava per ricordare la morte di un ragazzo di 15 anni durante le proteste per Gezi Park nell’estate del 2013.

 

Un colpo di arma da fuoco ha colpito un passante: un ragazzo di 34 anni, Uğur Kurt, che è stato gravemente ferito alla testa e al collo ed è stato trasportato d’urgenza in ospedale, dove è morto. Kurt stava partecipando a un corteo funebre che è passato vicino ai manifestanti.

 

Una seconda persona è morta a causa delle ferite riportate per l’esplosione di una granata.

 

Il portavoce del governo Hüseyin Avni Mutlu ha dichiarato che la seconda persona è morta a causa dell’esplosione di una bomba carta. Mutlu ha difeso l’operato della polizia e ha chiesto di mantenere la calma per “la sicurezza della nazione”.

 

Anche il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan ha difeso l’operato della polizia in un discorso durante un comizio del suo partito l’Akp: “Una molotov è stata lanciata dentro a un veicolo della polizia, gli agenti si sono bruciati e ora sono ricoverati in ospedale. La polizia deve sopportare e non fare niente? Io non capisco. I mezzi d’informazione non scrivono mai a proposito dei poliziotti feriti.

 

L’annuncio della morte del ragazzo ha provocato proteste e scontri che sono andati avanti tutta la notte. Una seconda persona è rimasta uccisa e nove altre persone sono rimaste ferite.

 

Era dalla primavera del 2013 che non c’erano proteste così violente contro il governo a Istanbul.

 

UNA NUOVA TURCHIA

Una Nuova Turchia

Mentre un Erdoğan vittorioso nell'ultima competizione elettorale proclama un nuovo futuro per la Turchia, la sua guerra ai social media e i nuovi poteri dei servizi segreti nascondono risvolti inquietanti.

 

Poche ore dopo il delinearsi di una chiara vittoria elettorale alle amministrative dello scorso 30 marzo, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan si è lasciato andare, da un balcone trasformato in pulpito, ad un discorso fiume , durato ben 46 minuti e trasmesso da tutte le TV. Erdoğan ha annunciato l’avvento di una Nuova Turchia, destinata ad essere ripulita dallo “stato parallelo” che l’ha finora corrotta e senza altre registrazioni audio o scandali ad infangarla. “I responsabili di queste macchinazioni saranno perseguiti e la Nuova Turchia sarà nuovamente libera”, dichiarava con sicurezza il capo del governo.

 

Lontana da quel pulpito e dalla folla che si era ammassata per ascoltare l’accorato discorso, un’altra fetta di Turchia si scopriva meno giubilante. Quel nuovo paese che andava delineandosi nelle parole di Erdoğan, sembrava sempre più lontana dall’essere anche casa loro.

 

Una minaccia di nome Twitter

Quando la Turchia fu travolta da quella che fu presto nota come protesta di Gezi Park (o OccupyGezi nel gergo online), non furono i media turchi a mostrare la brutalità della polizia, i feriti e le violenze. I giovani manifestanti furono ben più rapidi nell’organizzarsi e condividere con il mondo quanto stava accadendo, attraverso i loro cellulari ed i social media, con Twitter protagonista indiscusso. “Questa rivoluzione non sarà trasmessa, sarà twittata”, recitava un murale nei dintorni di piazza Taksim. Così è stato.

 

Twitter e Facebook sono le due piattaforme più largamente diffuse in Turchia, ma questo genere di crescita non è tra quelle che rende il primo ministro turco un uomo felice, soprattutto da Gezi Park in poi.

 

Con lo scandalo tangenti dello scorso dicembre e l’ondata di arresti e dimissioni che ha coinvolto le alte sfere governative, dopo che tramite i social network vennero divulgate informazioni coperte da segreto istruttorio, Erdoğan promise di “spazzar via” il famoso sito di microblogging, minacciando di bandirlo insieme ad altre popolari piattaforme. E così fece, al momento più opportuno. Giusto pochi giorni prima delle elezioni amministrative, le autorità turche bloccarono Twitter , seguito a ruota da Youtube . Erdoğan fu fedele ai propri proclami , gridati il 21 marzo da un palco: “Noi sradicheremo questo Twitter! Sì, tutti loro (NdT i social media). E non mi importa nulla di quel che la comunità internazionale ha da dire a riguardo!”.

 

Da un punto di vista puramente statistico la Turchia, con i suoi 12 milioni di utenti, è tra i dieci paesi al mondo in cui il popolare social è più diffuso. Inoltre, secondo i dati forniti da Twit Turk, il giorno stesso in cui Twitter fu bloccato vennero registrati oltre mezzo milione di tweet .

 

La censura delle piattaforme non è stata l’unica arma usata da Erdoğan nella sua guerra personale contro i social media. Durante le proteste di Gezi Park, nel tentativo di scoraggiarne l’uso da parte dei cittadini, il governo promosse anche una bizzarra campagna di sensibilizzazione. Uno degli annunci così recitava: “La violenza è un crimine. [Lo è] anche su Internet? Assenza di regole non significa autentica libertà!” In parole povere, si equiparavano l’uso di internet e l’usare violenza contro le persone. Insieme allo slogan campeggiava il volto tumefatto di una donna: una scelta deprecabile, se si considera la violenza che, quotidianamente, devono subire le donne in Turchia.

 

Venne anche avviata dalla gioventù militante del partito una campagna social media pro AKP (il partito al governo), condotta monitorando i contenuti online e diffondendo i messaggi governativi attraverso tutta la rete social, in modi simili a quanto fatto in Cina con il 50-cent party o, più recentemente, in Israele . Questa iniziativa fu intrapresa poco dopo le proteste estive, che non solo sconvolsero il paese, ma soprattutto misero in luce l’incapacità del governo in carica di relazionarsi con il popolo online.

 

Il famelico YouTube

La contesa s’incendiò ulteriormente quando su YouTube apparvero alcuni compromettenti video, relativi ad uno scandalo di corruzione, che coinvolgevano esponenti di spicco del governo (tra cui tre ministri, poi dimissionari, e i loro figli). Il 6 febbraio successivo il governo si affrettò a proporre alcuni emendamenti alla Legge su Internet n° 5651 , che fu promulgata nel maggio 2007 e fornisce le basi legali alla recente ondata di censura.

 

A giudizio del popolare giornalista turco Yavuz Baydar, gli emendamenti rappresentano un indizio di grave regresso dei diritti alla libertà di espressione in Turchia, oltre ad essere stati proposti con un tempismo decisamente sospetto e preoccupante. Essi prevedono: l’ampliamento dei poteri del ministero delle Infrastrutture e delle Comunicazioni, al quale è data la possibilità di bloccare contenuti online senza la supervisione di un tribunale; la concessione al Direttorato per le Telecomunicazioni (TIB) dell’autorità utile a bloccare di propria iniziativa l’accesso a siti web, senza attendere l’ordinanza di un tribunale, qualora si ritenga sia stato leso in qualche misura il diritto alla privacy; l’applicazione di pene accessorie per autori e fruitori di contenuti online, senza che siano previste modalità di risarcimento nel caso di blocchi o censure ingiustificati; l’obbligo per le società private di telecomunicazione di agire tempestivamente, entro 4 ore, in risposta ad un’ingiunzione di blocco dal TIB.

 

La possibilità di bloccare direttamente gli URL è, secondo Ahmet Sabancı , membro della Associazione Informatica Alternativa, tra i più inquietanti poteri di cui il TIB è stato investito perché questo genere di tecnica implica che il governo ricorra a diffuse forme intrusive di sorveglianza online.

 

Geoffrey King, direttore del gruppo di tutela di Internet presso il Comitato per la Protezione del Giornalisti (CPJ), ha recentemente dichiarato che queste decisioni sono un chiaro segnale di uno slittamento della Turchia verso forme di “autoritarismo online”.

 

Salvare la faccia?

 

Altri segnali raccolti non sono certo confortanti. Lo scorso 17 aprile, in seguito agli incontri tra rappresentanti di Twitter e le autorità turche, l’Autorità turca per le telecomunicazioni ha dichiarato che “passerà al setaccio ogni singolo post su Twitter, alla ricerca di contenuti illegali”. Il ministro delle Comunicazioni Lufti Elvan ha inoltre dichiarato che Twitter ha già eliminato oltre 200 contenuti e proseguirà in questa direzione nel rispetto di cinque diverse ordinanze di tribunale (Twitter ha confermato la rimozione di soltanto una parte di questi contenuti).

 

Le cose non stanno esattamente così. Tecnicamente, le autorità turche non possono scegliere e censurare autonomamente i contenuti Twitter. Piuttosto, è Twitter stesso che dispone autonomamente di uno strumento specifico, usato unicamente in risposta ad una “valida e motivata richiesta da parte di entità riconosciute”, come spiega un post sul blog ufficiale del social network. Dichiarare di poter censurare qualsivoglia contenuto di Twitter è una mistificazione che ha lo scopo di dipingere le autorità turche come vittoriose, all’interno della diatriba cominciata quasi un anno fa.

 

Le continue accuse, rivolte a Twitter, di evasione fiscale e altri crimini, nonché la decisione del social network di non aprire un ufficio di rappresentanza in Turchia, dimostrano soltanto che in questa faccenda c’è ben più di quanto il governo voglia divulgare.

 

Inoltre nonostante la corte costituzionale turca abbia decretato che la chiusura di Twitter in Turchia sia contraria ai principi costituzionali e abbia ordinato l’immediata rimozione del bando, Erdoğan ha continuato imperterrito nella sua opera di demonizzazione dei social media, definendo Facebook “immorale” , YouTube una “forza famelica” e promettendo di “sradicare” Twitter. Così stando le cose, non c’è alcuna garanzia che quanto accaduto, nonostante l’intervento della corte costituzionale, non possa accadere nuovamente. In effetti, YouTube continua a non essere raggiungibile, mentre la legge che garantisce al governo l’autorità per intervenire è ancora in vigore.

 

Servizi segreti

 

Un’ulteriore minaccia giunge dalla nuova legge sull’Agenzia d’Intelligence Nazionale (MIT, i servizi segreti turchi), promulgata lo scorso 18 aprile e già al centro di furiose polemiche. Questa nuova legge dona carta bianca all’Agenzia, consentendo l’accesso indiscriminato alle informazioni sensibili raccolte da enti pubblici e privati (tra cui le società che forniscono l’accesso a internet). Ne amplia inoltre l’operatività sul territorio nazionale. Insieme alla già citata legge su Internet, i nuovi poteri del MIT accrescono il timore attorno al rischio di violazioni della privacy, la possibilità di essere schedati e tracciati online e, in definitiva, la nascita di uno “stato d’intelligence”.

 

Il partito repubblicano all’opposizione ha dichiarato che questa legge equivale a concedere ai servizi segreti il “diritto di uccidere”, mentre dalle fila del governo, per voce del ministro dell’Interno Efkan Ala, giunge il sostegno all’iniziativa, vista come un positivo progresso verso una migliore democrazia. Nonostante sia in attesa dell’approvazione del Presidente della Repubblica Gül, sono scarse le speranze di vedere la legge respinta dal veto presidenziale; più probabile sia invece approvata, come già accaduto con gli emendamenti alla legge su Internet.

 

In conclusione, non sembrano convincenti le giustificazioni del governo alle recenti iniziative legislative, mentre altri sono i fatti incontrovertibili: la Turchia è, secondo il rapporto annuale CPJ, la nazione con il più alto numero di giornalisti incarcerati ed è 154 a su 179 nella classifica Press Freedom Index di Reporter senza Frontiere; YouTube è tutt’ora censurato e le continue dichiarazioni del primo ministro appaiono tutt’altro che concilianti.

 

Ad oggi, nessuno ha mosso passi concreti per un futuro più sereno e stabile: né online, né offline.

 

 

Turchia: sbloccato Twitter


balcanicaucaso.org  4 aprile 2014

Turchia: sbloccato Twitter

Il governo turco ha deciso di sbloccare l'accesso a Twitter a seguito di una sentenza della Corte costituzionale turca che ha dichiarato illegittimo il blocco scattato il 20 aprile scorso a ridosso delle elezioni amministrative. Abbiamo seguito le reazioni su Twitter

 

 

Nel tardo pomeriggio del 3 aprile, appena si diffonde la notizia, la nostra corrispondente da Istanbul Fazıla Mat twitta in merito allo sblocco ma ricorda che Youtube è ancora impossibile da raggiungere in Turchia

Pochi minuti dopo, anche il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, posta sul suo profilo Twitter la notizia. Non nasconde il sollievo e nemmeno la sua incredulità per quello che il governo di Recep Tayyip Erdoğan è riuscito a fare e aggiunge l'hashtag #freedom

L'genzia di stampa turca Bianet, nostro partner nel progetto Safety Net for European Journalists, riprende la notizia e puntualizza il persistere del blocco del servizio di condivisione video Youtube

Infine TunnelBear, il servizio che consente di utilizzare un server VPN (Virtual Private Network) al fine di proteggere l’indirizzo IP e bypassare i siti bloccati, dedica una vignetta al "ritorno" di Twitter in Turchia.

 

 

Il partito di Erdoğan

vince le elezioni amministrative

 

internazionale.it - 31 marzo 2014


Il premier turco Tayyip Erdogan festeggia i risultati delle elezioni ad Ankara, il 31 marzo 2014. (Reuters/Contrasto)

 

Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato la vittoria del suo partito alle elezioni amministrative del 30 marzo, considerate una prova generale delle presidenziali in programma ad agosto. Le elezioni rappresentavano anche un banco di prova per la popolarità di Erdoğan dopo gli scandali degli ultimi mesi.

 

Il Partito giustizia e sviluppo (Akp), la formazione islamica conservatrice guidata da Erdoğan, ha preso il 47 per cento dei voti in tutto il paese, scrive al Jazeera. Il principale partito di opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp), si è fermato al 28 per cento, e il Partito del movimento nazionalista (Mhp) al 13 per cento.

 

A Istanbul il sindaco uscente Kadir Topbas è stato riconfermato con il 47,8 per cento dei voti, secondo risultati ancora non definitivi, mentre il suo avversario Mustafa Sarigül, del Partito popolare repubblicano, si è fermato al 40 per cento.

 

Ad Ankara il candidato di Erdoğan, Melih Gökçek, ha raccolto il 44,7 per cento dei voti contro il 43,8 per cento del suo rivale del Chp, Mansur Yavas, scrive Libération.


Una protesta del Partito popolare repubblicano (Chp) di fronte a un seggio di Ankara, il 31 marzo 2014. (Umit Bektas, Reuters/Contrasto)

 

Pugno di ferro. A dicembre l’esecutivo di Erdoğan è stato coinvolto in un’inchiesta su un caso di corruzione che ha portato in carcere i figli di alcuni ministri, che sono stati costretti alle dimissioni. Erdoğan ha accusato il predicatore islamico Fehtullah Gülen di aver organizzato l’inchiesta per estrometterlo dal potere.

 

Negli ultimi mesi Erdoğan ha lanciato un’offensiva contro internet. Il 6 febbraio il parlamento turco ha approvato una legge che intensifica il controllo su internet permettendo a un’agenzia governativa per le telecomunicazioni, la Tib, di bloccare l’accesso a siti che violano la privacy oppure ospitano contenuti considerati “offensivi”.

 

Il 20 marzo il governo ha bloccato l’accesso a Twitter, dopo che sul social network erano apparsi diversi documenti su possibili casi di corruzione nel governo. Ma il 26 marzo un tribunale amministrativo di Ankara ha revocato il blocco.

 

Il 27 marzo le autorità delle telecomunicazioni hanno bloccato l’accesso a YouTube, in seguito alla diffusione di alcune registrazioni che riguardavano i piani militari della Turchia in Siria.

 

Nel maggio del 2013 il violento sgombero di un sit in contro la ristrutturazione del parco Gezi a Istanbul aveva dato inizio alle manifestazioni di piazza Taksim, le prime proteste di massa contro il governo di Erdoğan, che accusavano l’Akp di autoritarismo e di violazione della laicità ed erano andate avanti per settimane, attirando le critiche della comunità internazionale per la brutale risposta delle forze di polizia.

 

 

Turchia: le elezioni,

tra le strade di Istanbul

 

 

balcanicaucaso.org di  Fazıla Mat - 28 marzo 2014

Turchia: le elezioni, tra le strade di Istanbul

 

Domenica in Turchia si vota per le amministrative. Un appuntamento il cui significato politico va ben oltre l'elezione di amministratori locali. Cosa pensa la gente di Istanbul? Un reportage

 

Domenica 30 marzo in Turchia si terranno le elezioni amministrative. Nella percezione di numerosi elettori si tratta però di una consultazione che va ben oltre la semplice scelta dell’amministrazione del proprio comune di residenza. Sono le prove generali delle prossime elezioni politiche previste nel 2015, un test fondamentale per l’esecutivo conservatore e di ispirazione islamica del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), alla guida del paese da oltre 11 anni.

 

La formazione politica al governo dal 2002 sta affrontando il momento più difficile della sua storia: la sua parabola ascendente è stata messa a dura prova dalle proteste di Gezi dell’estate scorsa, dalle operazioni anticorruzione di dicembre e dagli scandali delle registrazioni audio diffuse su internet negli ultimi mesi da fonti anonime (che sarebbero vicine al movimento dell’imam Fehullah Gülen) e che rivolgono al premier e al suo entourage gravi accuse tra cui quelle di corruzione, di interfererenze nel potere giudiziario e nelle decisioni di alcuni media. Per impedire la circolazione dei file audio all’origine delle accuse, il governo è arrivato a chiudere Twitter e, giovedì scorso, anche Youtube.

 

Ümit della pescheria

 

“Chi vince a Istanbul ha assicurato un futuro da leader in politica”. Parola di Ümit, giovane proprietario di una pescheria di Kasımpaşa, quartiere di Istanbul in cui è nato e cresciuto il premier Tayyip Erdoğan, che dal 1994 al 1998 ne divenne anche sindaco. In effetti, secondo una regola d’oro della politica turca, se si conquista la città più importante della Turchia significa che si è ottenuto la maggioranza in tutto il paese.

A Kasımpaşa, uno dei quartieri più popolari e vivaci del distretto di Beyoğlu, Ümit e la madre gestiscono la loro attività da otto anni. Originari di Rize, città sul Mar Nero, sono conterranei del premier. Qui, come pure in altre zone della stessa municipalità, c’è una forte presenza di immigrati provenienti da quella regione e la conterraneità gioca un ruolo importante nella scelta dei candidati politici. “Noi non appoggiamo nessuno in maniera incondizionata”, assicurano però i due, “siamo sempre pronti ad accettare le idee migliori. Ciò che di sicuro non vogliamo è un governo di coalizione, alla guida del paese ci deve essere un solo partito”.

 

 “Dicono che Erdoğan è un dittatore” aggiunge la madre, “ma secondo me è una persona che non si piega ai ricatti. Un leader deve stare dritto, la Turchia non deve piegarsi a nessuno. A me piacciono i leader che hanno un carattere forte. Se ha ragione deve mantenere la sua posizione fino alla fine, se invece ha torto deve anche saper chiedere perdono. Prima di decidere per chi votare ho considerato anche il rivale di Erdoğan, il partito repubblicano del popolo (CHP) fondato da Atatürk. Lui ha fatto tante cose importanti, ma è già morto da ottant’anni. Il leader attuale del CHP, Kemal Kılıçdaroğlu, è debole, non ha alcun progetto da proporre. Ha fondato la propria campagna elettorale sullo scandalo di corruzione attribuita al governo. Dice che ci darà i soldi che quelli hanno rubato. Ma nemmeno i bambini crecederebbero alle sue parole!”

Commentando gli scandali di corruzione e le intercettazioni attribuite al premier e ai suoi uomini, Ümit afferma che “in parte saranno anche vere ma secondo me sono prevalentemente dei montaggi”. Poi aggiunge, “queste elezioni rappresentavano una grande opportunità per il CHP, ma l’hanno sprecata”.

 

Più punti positivi che negativi

 

Poco oltre la piazza centrale dello stesso quartiere, due donne con il velo fanno acquisti in un calzolaio. Una di loro, una robusta trentenne, inizia a parlare della sua ammirazione incondizionata per il premier citandone una frase: “Non ci fermeremo, avanti tutta!”. “Lui fa tutto di testa sua e nel modo migliore. Seguo da vicino la politica e tutti i progetti presentati per Istanbul dal primo ministro mi sembrano eccezionali. Sa parlare a nome dei cittadini. Se l’opposizione venisse al governo oggi dovrebbe fare le stesse cose. La questione è che nessuno è in grado di rivaleggiare con il premier”.

Lo scandalo delle intercettazioni? Le accuse di corruzione? “Non ci credo”, ribatte pronta. “È ovvio che ruba, che intasca dei soldi. Non dico che fanno tutto in modo perfetto. Ma pur rubando continua a costruire autostrade, nuovi aeroporti, infrastrutture. E questo non può essere considerato peccato. Perché fa talmente tante opere buone che i punti positivi superano di gran lunga quelli negativi”.

 

Il rivale principale è Mustafa Sarıgül, popolare sindaco del distretto di Şişli, prima membro del DSP, ora candidato CHP. Accusato in passato di corruzione dallo stesso partito che ora lo vuole portare alla guida della città, negli ultimi sondaggi risulta in svantaggio rispetto a Topbaş. La campagna mira ad attirare i giovani sottolinenado la necessità di salvaguardare l’ambiente (un malcelato tentativo di raccogliere i voti dei manifestanti di Gezi Park) e aprendo loro nuovi sbocchi lavorativi e sociali. Il suo slogan elettorale è “Ci siamo. È giunto il momento”.

 

La questione assume un altro tono quando si tratta di esprimersi del rapporto incrinato con Fethullah Gülen. “A me lui non piace” risponde, mentre una donna più anziana che si unisce alla conversazione ammette che lei, che fa parte della confraternita di Gülen, è molto dispiaciuta della situazione. “Il premier Erdoğan mi piace molto anche se qualche volta non approvo alcune sue uscite”, afferma. “Ma vedere due musulmani che litigano mi addolora profondamente. Io penso che qualcuno dall’esterno abbia voluto creare un conflitto tra i due” dice, e mentre le altre due donne si allontanano aggiunge, “noto sempre con dispiacere che diverse persone afferenti alla confraternita sono molto arrabbiati con il premier. Se lo vedono parlare in televisione si alzano e la spengono”.

 

Il cuore di Istanbul

 

La municipalità di Beyoğlu, cuore della città, è tra i luoghi più importanti per lo scontro tra gli avversari politici della prossima tornata elettorale. I suoi oltre quaranta quartieri popolati da circa 250mila anime, sono qualche volta molto simili tra loro dal punto di vista della composizione sociale e del reddito degli abitanti. Altre volte invece basta attraversare un viale per passare dai locali alla moda del centro e ritrovarsi tra abitazioni in stato di abbandono con inquilini che vivono in estrema povertà.

Intorno al viale Istiklal, l’arteria più importante di Beyoğlu gremita di gente a tutte le ore, sono sparsi locali di ogni genere e negozi grandi e piccoli. La signora Aliye possiede una lostracı , un negozio di lustrascarpe, un’attività tramandatale dalla famiglia. “Te lo dico io, vincerà l’AKP” dice. “Noi siamo presenti in questa zona dal 1951. Ho visto diverse amministrazioni comunali ma nessuno ci ha fornito dei servizi così buoni. Ricordo i tempi in cui l’entrata del mio negozio era sommerso dalla spazzatura. Ora non abbiamo più problemi del genere, le strade sono tenute bene, anche le vie più marginali sono diventate sicure per le donne. E questo è possibile perché c’è coordinamento tra il governo centrale e quello locale”.

 

Quale vecchia abitante di Istanbul confessa però che la preoccupano i progetti di trasformazione urbana in atto in città. “Non voglio che ne venga rovinato l’aspetto originario”, dice. “Non mi piace vedere spuntare un centro commerciale ad ogni angolo” aggiunge, affermando di avere appoggiato il movimento di Gezi durante i primi giorni, “poi però le intenzioni sono cambiate e le scene cui ho assistito non mi sono piaciute per niente” .

 

Viva Gezi

 

“Ho sostenuto il movimento di Gezi e continuo a farlo anche adesso” racconta invece il proprietario di una Tekel , negozi dove si vende di tutto, ma la cui fonte di reddito principale è costituito dalle bevande alcoliche . “In quei giorni abbiamo respirato una quantità esagerata di fumo dei lacrimogeni, ma ho resistito e non ho mai chiuso il negozio”. Da quando è stata approvata la legge che limita la vendita al dettaglio dell’alcool dopo le 22, le Tekel si trovano in seria difficoltà. E anche se molti infrangono il divieto, rischiano di andare incontro a multe salatissime. “Quella legge ci sta rovinando”, spiega l’uomo, “pago 5mila lire (circa 1.700 euro) di affitto al mese. Il negozio resta aperto 24 ore su 24 e per questo motivo non riesco a vedere quasi mai la mia bambina di 2 anni, ma non posso dire di essere benestante. Dieci anni fa, quando ho iniziato l’attività stavo molto meglio. Per me queste elezioni sono come quelle generali. Spero tanto che quest’anno l’amministrazione cambi”.

 

Quando si tratta di alcool e locali di divertimento, le lamentele sull’amministrazione di Beyoğlu non si contano. Aydın Kara, co-proprietario di una Türkü Evi (un esercizio in cui strumenti classici della musica turca accompagnano melodie composte su testi della poesia popolare) dal 1995, ne sa qualcosa. “L’amministrazione dell’AKP è nemica delle attività in cui si servono bevande alcoliche”, spiega, “subiamo pressioni continue. Il divieto di sistemare tavoli fuori dai locali, l’innalzamento della tassa sul divertimento che ora va da un minimo di 650 lire mensili (210 euro c.ca) a 2.250 (700 euro c.ca) ci ha obbligato a lasciare a casa tre persone del nostro staff”.

 

Kara, che fa anche parte del consiglio di amministrazione dell’associazione degli esercizi di divertimento di Beyoğlu (BEY DER), racconta che molte volte non è facile nemmeno ottenere le licenze per i nuovi locali, “a meno che non si faccia una ‘donazione’ alle sedi indicate dalla stessa municipalità”. L’esercente, che confessa di aver considerato persino di abbandonare tutto e trasferirsi all’estero, afferma che “in Turchia vige una oligarchia parlamentare. Pensare di poter chiudere twitter in quest’era per impedire la diffusione di registrazioni scottanti mi sembra assurdo. Credono davvero di potere impedire l’uso dei social media in questo modo?”, chiede. “Ciò che mi interessa è che non vengano rubati soldi al popolo e non ci vengano limitati i diritti”. “Per queste elezioni”, aggiunge Kara, “circa 2.500 operatori del settore hanno trasferito la residenza a Beyoğlu, per potere avere un peso sul futuro di Beyoğlu”.

 

Un referendum

 

Erdal è un elettore del Partito democratico del popolo (HDP), formazione politica costituita recentemente su iniziativa del partito filo-curdo della Pace e della democrazia (BDP) per unire sotto un unico tetto nelle zone occidentali del paese il movimento curdo e la sinistra. “Per questa volta però” spiega a Osservatorio, “ho deciso di votare il candidato sindaco del CHP, pur di non dividere i voti dell’opposizione. Basta che l’AKP se ne vada, non importa chi verrà al suo posto” dice. Erdal racconta di risiedere a Tarlabaşı da 14 anni, uno dei quartieri di Beyoğlu in cui i progetti di trasformazione urbana si sono abbattuti con maggiore violenza. Nella stessa zona, in una bottega decorata con i colori della bandiera del Kurdistan e che vende tabacco (ma sembra più un piccolo circolo dove fumando e bevendo del tè si filosofeggia), in un gruppo di persone che si autodefiniscono “anarchici “ e “anormali” solo due dichiarano di volere andare a votare.

 

“È già chiaro che vincerà l’AKP. Queste elezioni sono più che altro un referendum” dice il primo, che dichiara di votare per l’HDP. “Il movimento curdo, che si presenta alle elezioni per la prima volta con un nuovo partito, vuole vedere il potenziale dei suoi voti. Non penso che il cosidetto ‘spirito di Gezi’ potrà influirà sull’esito delle elezioni”, spiega. Anche l’unica donna presente nel negozio pensa di votare per l’HDP. “Non è certo mio dovere cercare di non sottrarre voti all’altra opposizione. Inoltre una recente indagine ha messo in chiaro che l’HDP è vista da molti come alternativa all’AKP e non al CHP, che oltre tutto ha rifiutato l’alleanza precedentemente offertagli dall’HDP”.

 

Gli altri del gruppo, che dichiarano di non credere “nei sistemi parlamentari” e in “nessuna struttura organizzata”, ritengono di non avere bisogno di persone che li guidino. “Il popolo è piu intelligente dei leader dei partiti. Ma devono rendersi conto da soli che quelli non fanno altro che sfruttarli , altrimenti non cambierà mai niente”.

 

 

Tensione fra Turchia e Siria dopo

l’abbattimento del jet. Possibile risposta

a quello turco colpito nel 2012

 

 

notiziegeopolitiche.net di Guido Keller - 24 marzo 2014

siria aereo abbattuto

Sale la tensione fra la Turchia e la Siria dopo l’abbattimento ieri da parte dell’aviazione di Ankara di un jet di Damasco impegnato in un’azione contro i ribelli nel nord della Siria: secondo il governo turco il velivolo aveva sconfinato, ma la dinamica dell’incidente non è del tutto chiara, anche perché l’Osservatorio siriano dei diritti umani, vicino agli insorti e con sede a Londra, ha comunicato che il velivolo “Ha preso fuoco ed è caduto in territorio siriano”.
Secondo la Turchia il superamento del limite dello spazio aereo da parte di due Mig-23 siriani sarebbe avvenuto almeno “quattro volte” e solo dopo l’aviazione turca avrebbe fatto decollare i propri F-16 abbattendo uno dei due caccia.
Le autorità siriane non ci stanno ed insistono nel sostenere che il velivolo abbattuto non aveva sforato lo spazio aereo, al punto che il governo di Damasco ha parlato di “flagrante atto di aggressione che dimostra il sostegno di Erdogan ai gruppi terroristici, nel quale la difesa antiaerea turca ha abbattuto un aereo militare siriano che stava combattendo i terroristi a Kasab, in territorio siriano”.


Anche il pilota, che è riuscito a gettarsi ed a salvarsi, ha riferito in un’intervista dal letto dell’ospedale siriano dove si trova per accertamenti di essere stato colpito nel territorio siriano, in quanto la sua missione prevedeva un’azione con un margine di 7 km. dal confine.


Intervenendo ad un comizio elettorale il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha gettato benzina sul fuoco sostenendo che “Un aereo siriano ha violato il nostro spazio aereo. I nostri F-16 si sono levati in volo e lo hanno abbattuto. Perché? Perché se voi violate il mio spazio aereo, la nostra risposta sarà pesante”.
Quanto accaduto non rappresenta tuttavia una novità nel quadro degli scontri che sono in corso nel nord della Siria, anche perché la Turchia sostiene e finanzia gli insorti e addirittura chiude un occhio sui molti jihadisti legati ad al-Qaeda che entrano in Siria dal confine settentrionale, i quali ricevono così un vero e proprio supporto da parte di Ankara: il 17 settembre dello scorso anno la contraerea turca ha abbattuto un elicottero siriano MI-17 di fabbricazione russa che si trovava per due chilometri nel suo spazio aereo e nel luglio 2012 gli F-16 turchi si sono alzati in volo in risposta ad elicotteri siriani in avvicinamento al confine, per quanto in quel caso non c’era stata violazione dello spazio aereo.


Tuttavia è del giugno 2012 l’incidente più rilevante: in quel caso era stata la contraerea siriana ad abbattere un F4 turco che si era avvicinato troppo allo spazio aereo di Damasco, anche se il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu aveva spiegato alla televisione TRT Haber che i velivolo ”non era coinvolto in alcuna operazione contro la Siria ed era disarmato”, che si trovava a una distanza di 13 miglia dalla costa siriana” e che i militari di Damasco ”sapevano a che paese apparteneva l’aereo dalla sua sagoma, dai colori e dalla traccia di volo”.


Nonostante le pronte scuse dalla parte siriana, la Turchia aveva cercato di trasformare l’incidente in un “casus belli”, arrivando a chiedere ed a ottenere la riunione del Consiglio Atlantico della Nato, di cui il paese fa parte dal 1952.


Il caso venne archiviato, anche per non innescare una pericolosa escalation e per non dare alla Russia, presente nella città siriana Tartus con una base fornitissima di aerei, navi, lanciamissili, mezzi blindati e sottomarini, l’occasione di intervenire.
Appare però evidente che quanto accaduto ieri sia in qualche modo la risposta all’abbattimento dell’aereo turco nel 2012, in un contesto che vede l’opinione pubblica mondiale non disposta, com’era allora, ad appoggiare ad occhi chiusi un’opposizione siriana alleata fino a poco fa di gruppi jihadisti come Jabar al-Nusra e l’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante): è un controsenso che al cittadino medio si chieda di combattere idealmente e culturalmente al-Qaeda in Afghanistan, ma di appoggiarla in Siria.

 

Erdogan "estirpa" Twitter.

Storia della repressione digitale in Turchia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È bastata mezza giornata. Ieri, durante un comizio elettorale a Bursa, Erdogan aveva annunciato l’”estirpazione” di Twitter perché “contro la sicurezza nazionale”. Così già prima di mezzanotte molti account risultavano irraggiungibili e in tutti i modi si è cercato di far girare informazioni per continuare a cinguettare tramite sms. “Stiamo tornando al terzo mondo”, “Abbiamo bisogno di supporto internazionale, ciò va contro la Dichiarazione dei diritti dell’uomo”, sono solo alcuni dei messaggi allarmati che in queste prime ore abbiamo raccolto in redazione.

 

Guerra ai social. A pochi giorni dalle elezioni amministrative e con lo scandalo di corruzione che lo vede coinvolto da inizio febbraio, Erdogan dichiara così guerra ai social. “Siamo decisi a impedire che il popolo turco diventi schiavo di YouTube Facebook, come governo prenderemo le misure necessarie, qualunque esse siano, compresa la chiusura dei due siti”, aveva detto circa due settimane fa sul canale televisivo Atv. La guerra di Erdogan contro internet era cominciata nel maggio dello scorso anno, quando durante le proteste di Gezi Park il Premier turco si era scagliato contro i social media definendoli “la peggiore minaccia alla società”. Anche in quel caso, l’obiettivo principale degli attacchi era stato soprattutto Twitter che, grazie ai 20 milioni di post associati agli hashtag  #occupygezi e #geziparkieylemi, aveva contribuito in maniera decisiva alla diffusione della protesta contro il governo. Nelle ultime settimane, ancora una volta, il popolo turco ha dimostrato di avere un feeling particolare con i cinguettii : l’hashtag #BerkinElvanOlumsuzdur (BerkinElvanImmortale), creato per solidarizzare con Berkin Elvan, il 15 enne morto dopo 9 mesi di coma perché colpito durante gli scontri del maggio scorso, ha registrato in due giorni più di 12 milioni di tweet.

 

Intercettazioni ed elezioni. Del resto l’incessante condivisione delle intercettazioni telefoniche che riguardano proprio Erdogan e il suo partito, l’Akp, che rischia così di vedere compromessa la vittoria, già data per scontata, alle prossime elezioni amministrative fissate per il 30 marzo.“Fai sparire tutti i soldi che sono in casa, la magistratura sta facendo perquisizioni a 18 persone” direbbe Erdogan al figlio Bilal in una delle quattro intercettazioni pubblicate su YouTube e ascoltata in un solo giorno da più di due milioni di persone. Dalle altre telefonate, inoltre, emergerebbe un quadro non troppo edificante del premier e del suo partito, fatto di tangenti, pressioni sui magistrati e flussi di denaro sospetti. E da qui l’accesa difesa del Premier, che da un lato minaccia il bavaglio per la rete – secondo fonti turche una legge che blocca i due siti potrebbe divenire operativa dopo le elezioni del 30 marzo – e dall’altro bolla le intercettazioni come “falsi montaggi”organizzati ad arte dal suo storico rivale Fethullah Gülen, l’influente studioso turco fondatore del movimento Hizmet.

 

Presidenziali incerte. Ma ciò che più preoccupa Erdogan è soprattutto il possibile calo di popolarità derivato dalle intercettazioni, che rischia di compromettere, oltre alla tornata elettorale incombente, anche le elezioni presidenziali di agosto, le prime con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e per la quale l’attuale premier è dato per sicuro candidato. Pur non avendo ancora ufficializzato la sua nomina alle presidenziali, Ergodan ha però già annunciato che non si candiderà – per via dello statuto dell’Akp che non prevede la candidatura per il quarto mandato consecutivo – alle elezioni politiche del prossimo anno. Difficile pensare che l’uomo che guida la Turchia dal 2002 possa abbandonare la politica per un semplice cavillo burocratico, più probabile, invece, un avvicendamento tra lo stesso Erdogan e l’attuale Presidente, Abdullah Gul, sempre dell’Akp, cui spetterebbe poi la carica di primo ministro alle politiche dell’anno prossimo. Secondo gli opinionisti turchi, inoltre, una volta divenuto Presidente della Repubblica, Erdogan porterebbe a termine la riforma costituzionale in senso presidenziale della Turchia. Un cavallo di battaglia elettorale molto caro all’Akp, che permetterebbe all’attuale premier di mantenere il potere nelle sue mani anche in veste di Presidente della Repubblica.

 

Libertà di espressione. Dal suo insediamento nel 2002, la Turchia è scivolata dal 99esimo al 138esimo posto per quanto riguarda il rispetto della libertà di stampa, mentre, secondo le stime di agenzie indipendenti come  Reporters Sans Frontières, sarebbero 76 i giornalisti turchi in prigione per reati d’opinione e addirittura più di 10mila i processi instituiti contro i cronisti. Un numero elevatissimo, che non ha pari in nessun Stato dell’Unione Europea: proprio dove Erdogan vorrebbe portare la Turchia.

 

 

 

 

Turchia: incidenti vicino Piazza Taksim

 

Polizia usa lacrimogeni per impedire accesso piazza

 

   Ansa - 13 marzo 2014

 

La polizia turca ha usato cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per impedire l'accesso a Piazza Taksim, nel cuore di Istanbul, a migliaia di persone che accompagnavano il corteo funebre di Berkim Elvan. Le forze anti-sommossa sono intervenute per fermare la folla all'altezza di Halaskargazi e Erdgenekon, riferisce Hurriyet online.

 

Quattro blidati Toma della polizia turca appoggiati da decine di agenti antisommossa affrontano in un viale di accesso verso Taksim nel quartiere di Osmanbay diverse centinaia di manifestanti. La polizia usa gas lacrimogeni, spray urticanti e idranti per disperdere la folla. Decine di migliaia di persone hanno accompagnato nel pomeriggio il corteo funebre di Berkim Elvan attraverso la zona europea di Istanbul. Buona parte e' tornata verso l'area di Taksim dopo che il ragazzo e' stato seppellito nel cimitero di Ferikoy. Secondo Hurriyet online circa 50mila persone si trovano su Viale Halaskargazi, a Osmanbey, da dove si accede a Taksim. Un dispositivo di polizia imponente circonda la piazza simbolo della rivolta dei giovani nella primavera scorsa contro il governo del premier Recep Tayyip Erdogan. La polizia ha fatto allontanare dalla piazza i passanti e ha disposto un cordone di agenti in tenuta antisommossa attorno a Taksim. La zona di Osmanbay e' avvolta in un nuvola di gas lacrimogeni.

 

 

Governo turco rimuove

altri 500 poliziotti ad Ankara

 

Ieri allontanati due pm titolari di tangentopoli sul Bosforo

 

 

  ilmondo.it - 30 Gennaio 2014 

 

Il governo turco ha licenziato o trasferito circa 500 agenti di polizia nella capitale Ankara proseguendo la purga tra le forze dell'ordine a le magistratura
in risposta alle indagini per corruzione che hanno sfiorato l'esecutivo. Lo riferisce la stampa turca, sottolineando che le rimozioni riguardano anche molti investigatori di alto livello.
Ieri a Istanbul sono stati trasferiti circa cento magistrati, tra cui i due pubblici ministeri incaricati dell'inchiesta anticorruzione Celal Kara e Mehmet Yuzgeclus, sollevati dall'indagine dopo aver chiesto un mandato di comparizione per due uomini d'affari, secondo fonti giudiziarie. Erano gli ultimi due pm rimasti alla procura di Istanbul tra quelli che aveano lanciato l'inchiesta venuta a alla luce a metà dicembre.

I media turchi stimano che il governo islamico conservatore di Recep Tayyip Erdogan a oggi abbia sanzionato seimila poliziotti in tutto il paese, compresi dirigenti, in reazione all'inchiesta che ha colpito il cuore dell'élite politica del paese. Centinaia i magistrati trasferiti d'ufficio. Erdogan accusa i sostenitori
dell'imam in autoesilio Fethullah Gulen, suo ex alleato che ha una considerevole influenza su polizia e magistratura, di aver ordito l'inchiesta nell'ambito di un tentativo di golpe contro il suo governo in un cruciale anno elettorale. Le purghe di Erdogan, unite al rafforzamento dei controlli sulla magistratura e su
internet, hanno sollevato timori sullo stato di diritto nel Paese.

(fonte Afp)

 

Crisi turca, il fattore economico 

 

Ankara (foto di Peretz Partensky)

Ankara (foto di Peretz Partensky)

 

Mentre prosegue la crisi legata alle vicende di corruzione, in Turchia si profila un altro fattore che potrebbe condizionare lo scacchiere politico: secondo molti analisti la crescita tumultuosa dell'economia turca starebbe volgendo al termine

 

Lo scontro tra il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e Fethullah Gülen, capo di Hizmet, potente movimento culturale e religioso, con forti ramificazioni nell’educazione e nei media, continua a tenere la Turchia su una corda, tesissima, di violino.

La storia ormai è nota. Tutto è cominciato a dicembre, quando è scattata un’inchiesta giudiziaria, su corruzione e dintorni, che ha portato all’arresto di diverse persone. Tra queste i figli di tre ministri. Che si sono dimessi. Erdoğan, oltre a loro, ha cambiato altri sette membri della sua squadra, cercando di allontanare dall’esecutivo l’ombra insidiosa della maxi-inchiesta.

 

Erdoğan vs Gülen

Questo è stato solo l’inizio. Nei giorni e nelle settimane seguenti il capo del governo ha dato il via a due purghe. L’una tra i quadri della polizia, con centinaia di ufficiali, tra Istanbul e la capitale Ankara, spostati da funzioni inquirenti a mansioni inferiori. L’altra nella magistratura, dove una raffica di nuove nomine ai vertici delle procure ha ridisegnato gli equilibri del potere giudiziario, in senso favorevole all’esecutivo.  

Ma perché tutto questo? Qui sta il punto. Secondo Erdoğan l’inchiesta sulla corruzione, che ha lambito anche uno dei suoi figli, Bilal, è un attacco inaudito al suo governo, costruito artificiosamente da Fethullah Gülen grazie alle sponde importanti che può vantare nei ranghi di polizia e magistratura. Ne è scaturito il contrattacco, durissimo. Gülen respinge le accuse.

In ogni caso è innegabile che i rapporti tra i due si sono incrinati. Prima erano molto buoni. L’ascesa al potere di Erdoğan, avvenuta ormai più di dieci anni fa, è legata tra le altre cose alla mobilitazione elettorale dei seguaci di Hizmet e all’assorbimento di alcune delle idee del gülenismo – molti lo dipingono come la versione islamica del calvinismo – nella piattaforma dell’Akp, il partito del primo ministro.

Molte cose sono cambiate negli ultimi tempi. A Gülen non è piaciuta la sterzata di Erdoğan sui rapporti con Israele, piombati verso il basso, né la gestione dei fatti di Gezi Park. Il suo timore è che il cosiddetto modello turco, sintesi tra democrazia e islam, evolva in qualcosa di più autoritario. In questa cornice si iscrive la “tangentopoli”, legata a doppio filo alle imminenti scadenze elettorali. A marzo ci sono le amministrative, in agosto le presidenziali, le prime con voto diretto. Non è escluso che Erdoğan voglia salire sul gradino più alto delle istituzioni, facendone il perno del sistema. Si dice che a Gülen questa ipotesi non piaccia affatto.  

 

Arriva lo “sboom”

C’è comunque un altro fattore che potrebbe ripercuotersi sulla scacchiera politica condizionando le mosse dei giocatori, specialmente quelle di Erdoğan. È l’economia. Molti analisti sono dell’avviso che la stagione d’oro della Turchia, esplosa proprio nel momento in cui l’Akp prese il potere, nel 2002, sta volgendo al termine. In questo arco di tempo il paese ha compiuto un balzo in avanti eccezionale, che tra il 2002 e il 2012 ha visto i redditi individuali passare da 3.676 a 10.666 dollari l’anno. La crescita è stata accompagnata dalla riduzione vistosa del debito pubblico (da circa il 70% a circa il 40%) e dalla contrazione di inflazione e deficit.

Adesso la curva potrebbe flettersi. Uno dei motivi è l’effetto che, sui paesi emergenti, Turchia inclusa, potrebbe avere il tapering in America, ossia la fine della politica di acquisto di titoli pubblici, che ha viaggiato in parallelo con una strategia di forte riduzione dei tassi. Questo ha spinto gli investitori a muoversi sui mercati emergenti, dove tassi più alti hanno garantito ritorni maggiori. Turchia, Brasile, India, Cina e altri paesi ne hanno beneficiato fortemente. Tuttavia gli stimoli della Federal Reserve vanno verso l’esaurimento e la tendenza dei capitali, già visibile, è quella di uscire da questi mercati, dove i rischi sono maggiori, riconcentrandosi su quelli occidentali, più sicuri e sulla strada della ripresa.

Le conseguenze, in Turchia, sono già tangibili. La Lira turca s’è deprezzata rapidamente, arrivando ai minimi sul Dollaro e schizzando giù notevolmente proprio a ridosso dei fatti di Gezi Park e delle recenti vicissitudini tra Erdoğan e Gülen. Segno che tra quadro economico e scenario politico potrebbe innescarsi o già si è innescato un intreccio pericoloso.

Ai problemi della Lira, che la Banca centrale turca ha cercato di risollevare con una manovra pesante sui tassi, appena portati dal 7,75 al 12%, anche allo scopo di contenere l’inflazione, va aggiunto il fatto che in Turchia il deficit delle partite correnti, ovvero lo scarto tra quanto si esporta e quanto si importa, è molto alto, come spesso capita in economie in espansione: si hanno risorse, dunque si compra. Attualmente il valore di questo parametro s’aggira sul 7-8% del Pil. Ankara lo copre appoggiandosi sui capitali stranieri in entrata. Il rischio di una loro fuoriuscita, stimolato dall’effetto tapering, può avere conseguenze rilevanti. Senza contare che l’economia, in generale, sta rallentando. Da qui al 2018 la crescita media dovrebbe attestarsi sul 4% (stime Fmi), ma in virtù dei tassi “cinesi” degli anni passati (9,2% nel 2010; 8,8% nel 2011), questo stesso rallentamento potrebbe essere avvertito addirittura come una recessione, sostiene qualche analista.

Insomma, Erdoğan, che ha sempre usato crescita e progresso come leve elettorali, potrebbe ritrovarsi con le armi un po’ spuntate. Lo scontro aperto con Gülen e l’esibizione dei muscoli sembrano rientrare in un gioco di polarizzazione dell’elettorato che depotenzi, facendola scivolare in secondo piano, la questione economica.

 

Turchia: rimosso capo polizia Istanbul

 

In ambito blitz anticorruzione che ha portato 52 in carcere

 

   Ansa - 19 dicembre 2013

 

Il capo della polizia di Istanbul Huseyin Capkin e' stato rimosso dall'incarico. Lo riferisce Hurriyet online. La rimozione di Capkin arriva a due giorni dal blitz anticorruzione lanciato dalla polizia della megalopoli del Bosforo, che ha portato all'arresto di 52 persone, fra cui noti imprenditori, alti funzionari e i figli di tre ministri del governo del premier Recep Tayyip Erdogan.


 

 

TURCHIA. Terremoto politico:

giudice anti-corruzione

fa arrestare 37 “uomini forti”

 

notiziegeopolitiche.net  18 dicembre 2013

erdogan

 

Terremoto politico in Turchia: 37 persone sono state arrestate all’alba con l’accusa di corruzione e turbativa d’asta. Tra loro Baris Guler, figlio del ministro degli Interni Muammer Guler, Salih Kaan Caglayan, figlio del titolare dell’Economia Zafer Çaglayan e Abdullah Oguz Bayraktardek, figlio del ministro dell’Ambiente Erdogan Bayraktar; inoltre sono finiti dietro alle sbarre l’uomo forte della banca di Stato, Suleyman Aslan, e imprenditori di alto livello.
Oltre al messaggio di pugno duro della magistratura contro la corruzione, qualcuno ha visto dietro la clamorosa retata l’esito della faida interna scoppiata tra il movimento religioso di Fetullah Gulen e il premier Recep Tayyip Erdogan. Tuttavia il Primo ministro ha dichiarato in serata che l’operazione anti-corruzione dei magistrati è “un’operazione turpe” contro il governo e che “non permetteremo trame politiche”.

 

Campi profughi siriani in Turchia

 

balcanicaucaso.org - 05 Dicembre 2013

 

Reportage di Fazıla Mat 

 

Nel 2011 con l'inizio del conflitto siriano, migliaia di profughi varcarono il confine con la Turchia per fuggire alla repressione delle truppe governative del presidente siriano Bashar al-Assad. Nella provincia turca di Hatay/Antiochia, a pochi chilometri dal confine siriano, furono allestiti campi di accoglienza 

 

Dall'inizio della guerra lo stato turco ha messo a disposizione dei cittadini siriani in fuga dal proprio paese 21 campi profughi, collocati lungo i 910 Km confinanti con la Siria. Ma le possibilità d’accoglienza delle tendopoli, la cui capacità complessiva è di 200mila posti, restano inadeguate a ricevere le oltre 600mila persone che fino a oggi si sono rifugiate in Turchia. Molti siriani si trovano nella situazione di cavarsela con i propri mezzi. 

 

Reyhanlı, cittadina in provincia di Hatay, al confine con la Siria, da oltre due anni è una delle mete principali dei profughi siriani. La popolazione della cittadina che nel 2011 era 62mila anime, ne conta ora circa 110mila. 

difficoltà maggiori generate dalla nuova situazione sono legate all’aumento esponenziale dei prezzi d’affitto delle case e dei generi alimentari. 

Gli affitti delle case arrivano fino a mille lire turche mensili (400 euro circa) e non è raro che quattro o cinque famiglie vivano insieme per sostenere le spese.

Ma trovare una casa in affitto è oramai un’impresa quasi impossibile. Molte famiglie, spesso con figli in età scolastica, tentano la sorte per qualche settimana, adattandosi nel frattempo a dormire nei parchi o nelle aree di  mercato.

 

Al varco di frontiera di Cilvegözü si contano numerose le persone che senza soldi, senza un posto dove poter stare, fanno ritorno nei propri villaggi dove i bombardamenti hanno già distrutto quasi tutto.  

 

A Reyhanlı operano diverse ONG tra cui anche la Fondazione di aiuto umanitario (İHH). L’attività della ONG è focalizzata all’invio in Siria di pacchetti di generi alimentari, sanitari e per i neonati. 

 

Una parte del magazzino è adibito alla produzione del pane. La piccola fabbrica sforna quotidianamente 200mila pezzi di pane che vengono imballati e inviati in Siria.

 

Il pane prodotto è quello arabo per la lavorazione del quale sono impiegati dei cittadini siriani che lavorano 24 ore su 24 su tre turni.

La farina del pane è fornita alla ONG dal Qatar che richiede un feedback di tutto il processo produttivo, fino alla consegna finale.

 

 

La Turchia vuole Bahar, a tutti i costi

 

Domani si terrà l'udienza che deciderà

la liberazione dell'attivista.

Ma la Turchia vuole ad ogni costo

far rientrare Kimyongur

 

 

Globalist.it   di Giorgia Pietropaoli - 2 dicembre 2013



«La Turchia vuole ad ogni costo l'estradizione di Bahar Kimyongur». Scrive così il Comitato per la libertà d'espressione e d'associazione (Clea), di cui Bahar è membro. Ed è così. Perché non si capisce come mai un giornalista (e attivista) che si batte per i diritti umani sia stato arrestato (ingiustamente) nel nostro Paese, raggiunto da un mandato di cattura vecchio e che alcune sentenze hanno già stabilito essere infondato.

Oggi è stato diffuso un comunicato da parte dell'avvocato di Bahar e della sua famiglia che ribadisce questo fatto perché pare che alcuni giornalisti nostrani (ma anche i nostri politici) non l'hanno ancora capito. Saranno duri di comprendonio. «Il Signor Bahar Kimyongur, cittadino belga, è giornalista e scrittore esperto della situazione politica mediorientale; attivista per la pace e i diritti umani, lavora per la ONG svizzera "International Institute for Peace, Justice and Human Rights". [. . .] Le accuse mosse al Signor Kimyongur dalle autorità di Ankara sarebbero sostanzialmente quelle di essere membro del DHKP-C, un'organizzazione turca classificata come terroristica. Si tratta tuttavia di addebiti che in più sedi giurisdizionali all'estero sono già stati ritenuti del tutto inconsistenti ed inidonei a giustificare un'estradizione».

Durante l'udienza che si è svolta lo scorso lunedì Kimyongur «ha spiegato dettagliatamente le proprie ragioni al Presidente della Corte, negando in modo netto di fare o aver mai fatto parte della citata organizzazione DHKP-C». Speriamo adesso sia chiaro a tutti quei giornali che hanno dato del terrorista a Bahar, a quelli che hanno preferito non parlare troppo di questo arresto e che, così facendo, hanno fatto un gran favore alla Turchia. Speriamo vi sia chiaro: Bahar è innocente ed è detenuto ingiustamente in un carcere italiano.

Nel pomeriggio si è svolta una nuova manifestazione davanti al Consolato d'Italia, a Bruxelles, per chiedere la liberazione di Bahar e domani ci sarà un nuovo presidio davanti al tribunale di Brescia, dove alle 11.00 si terrà la seconda udienza che deciderà la liberazione di Bahar; poi si terrà l'udienza che deciderà sulla richiesta di estradizione di Kimyongur (ma la data è ancora da stabilire).

Bahar rischia di essere estradato in Turchia. E se i media mainstream e i nostri politici continueranno a tacere su questo assurdo e immotivato imprigionamento, si renderanno complici delle torture che Bahar subirà se l'Italia dovesse decidere di rimandarlo ad Ankara.

 

 

Reyhanlı, la retrovia della guerra

 

La frontiera di Cilvegözü (foto A. Gilabert)

   La frontiera di Cilvegözü (foto A. Gilabert)

 

Secondo recenti stime sono oltre 600mila i profughi siriani giunti in Turchia, nella provincia di Hatay, in fuga dalla guerra. Qual è l'impatto degli “ospiti” sulla popolazione locale? Nostro reportage da Reyhanlı sul confine con la Siria

 

Reyhanlı, provincia turca di Hatay, a pochi chilometri dal confine siriano. Da quando circa tre anni fa è iniziata la guerra in Siria la presenza di profughi è diventata una costante di questa cittadina. La sua popolazione che nel 2011 contava poco più di 62mila anime negli ultimi due anni è quasi raddoppiata. Un dato che riflette direttamente il costante aumento dei siriani che raggiungono la Turchia il cui numero, secondo le ultime stime, ha oltrepassato i 600mila.

Mahmoud, originario di Aleppo, è solo uno delle migliaia di siriani fuggiti in Turchia. Ha gli occhi verdi, vent’anni e la pacatezza di un uomo anziano. In un negozio che vende pizza e börek racconta la propria vicenda indicando i segni delle ferite da bombardamento che porta sulle gambe, sul braccio, sulla pancia. Dice in un turco stentato che è arrivato in Turchia circa un mese fa. Ha trovato lavoro a Gaziantep, si trova momentaneamente a Reyhanlı per vedere dei parenti in occasione della festa del sacrificio. “In Siria non è rimasto più nessuno. Fratello, sorelle, mamma, tutti andati”, spiega. I bombardamenti hanno ucciso quasi ogni componente maschile della sua famiglia. Lo hanno voluto arruolare nell’esercito, ma lui è fuggito. Di al Assad dice che è “Şeytan”, satana. Tornerà in Siria, una volta che tutto sarà finito ed al Assad se ne sarà andato. Ma non sa dire quando accadrà. Risponde solo che “Allah è grande”.

Sui 910 km di confine che separano la Turchia dalla Siria sono aperti allo stato attuale solo tre dei tredici varchi di frontiera. Cilvegözü, a 5 chilometri di distanza da Reyhanlı, è uno di questi. Il corrispettivo varco di Bab al Hawa sul lato siriano è sotto il controllo dell’Esercito libero siriano dal luglio 2012. Per “motivi di sicurezza” l’uscita dalla Turchia è ufficialmente consentita solo ai siriani. Molte persone attraversano i varchi a piedi, trasportando qualche bagaglio o sacchetto.

Lo scorso ottobre, durante la festa del sacrificio, le entrate e le uscite quotidiane sono state circa 1.600, contro i 1.000 giornalieri che si verificano normalmente. Anche in tempi di guerra le festività continuano a rappresentare per molti un momento in cui si cerca la riunione con i propri familiari che abitano non solo a Reyhanlı, ma in gran parte della regione di Hatay e in molti altri centri dell’area sudorientale turca.

 

Affitti e sopravvivenza

Famiglia di profughi siriani (foto A. Gilabert)

  Famiglia di profughi siriani (foto A. Gilabert)

 

Ma non tutti quelli che rientrano in Siria sono stati in visita dai parenti. La famiglia di Hassan, una moglie incinta e quattro figli piccoli, ha deciso di ritornare nella propria cittadina in provincia di Hama dopo aver tentato, invano, per dodici giorni, di trovare un alloggio. L’uomo, un trentenne che prima dell’inizio della guerra lavorava come funzionario comunale, racconta di essere stato a Gaziantep ma di non avere trovato posto nei campi profughi e nemmeno una casa da potere affittare con i pochi mezzi a disposizione. In Siria abitavano in un borgo che contava una popolazione di 30mila persone. Ora sono rimasti solo 500 abitanti. Il luogo è stato quasi interamente raso al suolo dai bombardamenti, le perdite degli amici e dei parenti non si contano. Ma “non c’è niente da fare”, dice Hassan con dignità, “siamo costretti a ritornare in Siria”.

Le tendopoli messe a disposizione dallo stato turco per i profughi siriani sono ventuno, collocate tutte lungo il confine. Ma la loro capacità di accoglienza di 200mila persone da tempo non è più sufficiente ad ospitare le centinaia di migliaia di siriani che sono già in Turchia e che continuano ancora ad arrivare. Il problema dell’alloggio è una questione particolarmente sentita a Reyhanlı, dove gli affitti delle abitazioni hanno registrato degli aumenti vertiginosi. Molte famiglie siriane – di solito con numerosi figli – riescono a sostenere questi costi solo abitando assieme.

“Fino a un paio di anni fa la casa più bella della cittadina aveva un canone mensile di 400 lire turche”, spiega un ristoratore, “ora lo stesso appartamento costa 1.000 lire”, una cifra che corrisponde a circa 400 euro. Un altro commerciante, proprietario di diversi negozi, dice che il prezzo minimo per una casa “normale” parte da 500 lire. “Altrimenti”, spiega, “ci sono le stalle degli animali che alcuni locatari hanno sgomberato per darle in affitto”. La crescente domanda rivolta agli immobili fornisce una spiegazione ai numerosi palazzi appena edificati o in via di costruzione che sorgono in prossimità del centro cittadino. Nonostante i prezzi esorbitanti è infatti molto difficile, se non proprio impossibile, trovare una casa libera a Reyhanlı.

Gli ospiti

La popolazione locale sembra ormai avere accettato la presenza degli “ospiti” con i quali comunicano facilmente, dato che una buona parte delle persone della regione è bilingue turco-arabo. Lo scorso maggio, l’esplosione di due autobombe che ha causato la morte di 52 persone, lasciandone ferite altre 146, ha creato un grave momento di tensione. Attaccati dagli abitanti del luogo perché ritenuti responsabili della tragedia, centinaia di profughi sono tornati in Siria. “Sono partiti in molti, ma altri e altrettanto numerosi sono arrivati ancora”, analizza lucidamente un giovane venditore ambulante, “l’unica differenza è che ora hanno un atteggiamento più defilato, cercano di essere meno visibili”, aggiunge.

Oltre che per l’aumento dei prezzi delle case, i cittadini di Reyhanlı, si lamentano anche del costo dei generi alimentari e dell’abbigliamento, che dicono essere diventati più alti con l’arrivo dei siriani, mentre il lavoro tende a scarseggiare. Nella cittadina si trovano giusto alcune piccole fabbriche tra cui diverse adibite alla lavorazione del cotone, principale coltivazione dell’area. Ma per i turchi sarebbe diventato più difficile anche lavorare nei cantieri. “La giornata di un operaio locale è di 30 lire, mentre i siriani si adattano a lavorare a un terzo di quella cifra” spiega un giovane. In alternativa c’è chi si arrangia vendendo gasolio e sigarette portati in contrabbando dalla Siria, facendo facchinaggio o lavorando al mercato o nei negozi.

Massoud, proprietario terriero

Massoud è il padre di una famiglia composta da nove persone. Nel bilocale preso in affitto, ospita temporaneamente anche un’altra famiglia siriana, degli ex vicini di casa di Hama. Non si tratta della prima volta, “siamo tutti nella stessa situazione di disgrazia”, spiega sgranellando un rosario. L’uomo ha un’aria sicura di sé, che fa trasparire in parte il benessere economico di cui racconta aver goduto fino a qualche tempo prima, perché proprietario terriero. Un bombardamento ha interamente distrutto l’abitazione della sua famiglia, e nella stessa circostanza ha assistito alla scena straziante di un vicino che raccattava i pezzi del proprio figlio.

Fosse stato per lui, racconta, non si sarebbe mai spostato dalla Siria: l’ha fatto per i figli. “Siamo arrivati qui oltre un anno fa e inizialmente, disponendo di abbastanza denaro, siamo andati ad abitare in una casa grande. Ma i soldi ormai sono quasi esauriti e per questo ci siamo dovuti trasferire in questo bilocale”, spiega. Mentre parla, al centro di una delle due stanze arredate unicamente con materassi, cuscini e tappeti viene posato un ampio piatto di riso da offrire agli ospiti, sempre trattati nel migliore dei modi, anche nelle condizioni più difficili. La cuoca è la signora della casa. In Siria faceva l’insegnante di educazione fisica. Una delle figlie più grandi, invece, frequenta a Reyhanlı una delle scuole gestite dai siriani.

Quando il denaro finirà completamente Massoud intende tornare in Siria. Aggiunge però che non ha mai pensato di andare in un altro paese, che sia in Europa o l’Egitto. “Da qui riesco a vedere la mia terra”, spiega.

 

Aiuti

Camion della ong Fondazione di aiuto umanitario (foto A. Gilabert)

Camion della ong Fondazione di aiuto umanitario (foto A.Gilabert)

 

Con l’inverno alle porte, mentre qualcuno lotta per sopravvivere in Turchia, altri si occupano di inviare aiuti a chi invece è rimasto in Siria. La ONG islamica Fondazione di aiuto umanitario (IHH), nota al grande pubblico per l’episodio della Freedom Flottillia per Gaza del 2010, è una delle organizzazioni più attive di Reyhanlı. Il suo aiuto si concretizza in spedizioni giornaliere in Siria di 6 o 7 convogli da 27 tonnellate ciascuno contenenti pacchetti alimentari e sanitari, oltre che kit specifici per bebè e pane.

Adiacente al magazzino dove quotidianamente arriva e si smista la merce da inviare nei quattro angoli della Siria, è operativa una fabbrica dove si producono circa 200mila pezzi di pane al giorno, prodotti con farina donata dal Qatar. I responsabili della ONG spiegano, senza meglio precisare, che i loro finanziamenti arrivano sia da donatori turchi che esteri. Il governo turco concede alla fondazione alcune facilitazioni alla frontiera: i loro TIR arrivano fino alle zone tampone tra i due varchi dove i pacchi vengono trasferiti nei convogli siriani. In Siria, una cinquantina di ONG locali operano in loro sostegno nella distribuzione dei materiali d’aiuto. Il processo, precisano gli operatori della fondazione, è seguito e documentato attentamente in ogni sua fase, aggiungendo che per quanto se ne possano inviare cibo, coperte e sanitari restano sempre carenti rispetto alle necessità della popolazione.

Una presenza importante a Reyhanlı è anche quella di diverse organizzazioni di medici statunitensi di origine siriana, attivi nel prestare soccorso ai feriti di guerra in ospedali attivati ad hoc. Maria del Mar, una giovane odontoiatra di Barcellona, presta volontariato in uno di questi centri sanitari, fondato da un medico di Boston. La ventiquattrenne racconta di essere venuta a conoscenza della struttura per caso, mentre sfogliava una rivista medica, ed ha deciso di contribuire come meglio poteva. L’ospedale in cui lavora dispone di una settantina di letti dove curano feriti e mutilati. “I campi profughi della Turchia, a paragone con quelli presenti in Libano, in Giordania e in Iraq sono migliori, hanno servizi igienici, si fa veramente il possibile”, afferma la donna. “Ma è una tragedia che di fronte a una tale brutalità le Nazioni Unite non stiano intervenendo per niente. Ciò che però andrebbe fatto non è costruire altri campi, è fermare la guerra”, aggiunge. Poi, come un raggio di sole, condivide il ricordo migliore che le resta dalla sua esperienza a Reyhanlı: “È l’aver conosciuto molte persone aperte che mi hanno insegnato che in Siria, prima della guerra, gente di tutte le religioni vivevano insieme in pace e nessuno veniva a chiederti quale fosse il tuo credo. Ma di questo alla TV nessuno parla mai”. E quello peggiore: “Le immagini dei bambini innocenti che a causa di questa guerra hanno perso le gambe, le braccia e sono rimasti senza genitori e fratelli”.

 

Crisi diplomatica fra l’Egitto e la Turchia:

il Cairo espelle l’ambasciatore di Ankara

 

Notizie Geopolitiche - 23 novembre 2013

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E’ ormai crisi diplomatica fra Ankara e il Cairo, dopo che il premier turco Recep Tayip Erdogan ha nuovamente espresso condanna per le forme di repressione messe in campo dal governo egiziano nei confronti dei Fratelli Musulmani: il Cairo ha infatti provveduto ad espellere l’ambasciatore della Turchia ed a stabilire che il proprio ambasciatore, richiamato lo scorso 15 agosto nel pieno delle proteste e degli scontri conseguenti all’arresto del presidente Mohammed Morsi, non faccia ritorno ad Ankara. Nella capitale turca la rappresentanza egiziana sarà così abbassata al solo incaricato d’affari.
Il portavoce del ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelaty, ha infatti comunicato che le dichiarazioni fatte da Erdogan “rappresentano un’ingerenza inaccettabile negli affari interni dell’Egitto e sono una provocazione”.
Mohammed Morsi, del partito Libertà e Giustizia (braccio politico dei Fratelli Musulmani) è stato destituito lo scorso 3 luglio in seguito ad un colpo di Stato promosso dai militari su richiesta della piazza: diverse centinaia di manifestanti delle fazioni pro o contro Morsi sono rimasti uccisi negli scontri che si sono protratti per tutta l’estate e fino ad oggi, se si pensa che feriti ed uccisi vi sono stati anche lo scorso 22 novembre al Cairo, ad Alessandria e a Menia. Mohammed Morsi e la dirigenza dei Fratelli Musulmani sono ancora agli arresti ed i beni della Fratellanza sono stati requisiti.

Turchia riprende cammino verso Ue

con nuovo capitolo negoziale

 

Oggi apertura di un nuovo dossier negoziale,

dopo 3 anni di pausa

 

   ilmondo.it  - 5 novembre 2013

 

Turchia riprende cammino verso Ue con nuovo capitolo negoziale

 

L'Ue e la Turchia aprono oggi a Bruxelles un nuovo capitolo negoziale, rilanciando le trattative per l'adesione di Ankara dopo tre anni di stallo. Come deciso dal Consiglio affari generali lo scorso 22 ottobre, alla conferenza di adesione in agenda stamane sarà lanciato il capitolo sulle politiche regionali, concretizzando il segnale positivo che Bruxelles ha voluto dare al Paese della Mezzaluna, malgrado le perplessità sulla dura repressione delle manifestazioni anti-governative dell'estate. La Turchia è candidata a diventare membro dell'Unione dal 1999 e i negoziati sono stati avviati nel 2005, ma ad oggi sono stati affrontrati solo 14 capitoli e solo uno è stato completato. AFP

 

Jihadisti siriani pronti

a lanciare attacchi suicidi in Turchia

 

Stampa turca riferisce di due autobomba

già entrate nel paese

 

 ilmondo.it  - 5 novembre 2013

 

Jihadisti siriani pronti a lanciare attacchi suicidi in Turchia

 

I combattenti di al Qaida attivi in Siria sono pronti a lanciare attacchi contro le principali città turche. Stando a quanto riferito da fonti di intelligence turche al quotidiano Zaman, i miliziani dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isil) hanno già inviato due veicoli imbottiti di esplosivi nella provincia sud-orientale turca di Sanliurfa e ne starebbero preparando altri cinque per colpire le grandi città del Paese, tra cui Istanbul, Ankara e Smirne. Secondo le fonti di intellignce, i veicoli imbottiti di esplosivo sarebbero stati preparati nella città settentrionale siriana di Raqqa. I servizi turchi avrebbero appreso del piano di al Qaida alla fine di ottobre, lanciando subito lo stato di allerta. Le autorità hanno così rafforzato le misure di sicurezza nelle province nel sud e nel sud-est del paese. Anche gli alleati occidentali della Turchia, secondo quanto riferito a Zaman da un diplomatico occidentale di base ad Ankara, sono preoccupati per la minaccia posta da Isil alla Turchia. Già all'inizio di ottobre, una fonte militare americana aveva riferito al sito web Usa WND di possibili attacchi di al Qaida alla Turchia, a seguito della conquista della città siriana di Azaz, vicino al confine turco. Il quotidiano ricorda che Isil ha minacciato in passato di lanciare una serie di "attacchi suicidi" a Istanbul e Ankara, chiedendo alle autorità turche di riaprire i valichi di confine di Bab al-Hawa e Bab al Salameh, che Ankara ha chiuso proprio dopo la conquista della città di Azaz da parte dei jihadisti. AFP

 

Serbia. Turchia, scintille sul Kosovo

 

balcanicaucaso.org -  25 ottobre 2013

 

 Recep Tayyp Erdoğan

 

E' scontro diplomatico tra Serbia e Turchia. Durante una visita in Kosovo, il premier turco Recep Erdoğan ha detto: “il Kosovo è Turchia, e la Turchia è Kosovo”. Parole giudicate inaccettabili da Belgrado, che ha chiesto scuse ufficiali ad Ankara.

 

Il servizio di Francesco Martino per il GR di Radio Capodistria

 

Sono bastate alcune dichiarazioni emotive sul Kosovo del premier turco Recep Tayyp Erdoğan per far scattare lo scontro diplomatico tra Serbia e Turchia. Mercoledì scorso, Erdoğan si è recato in visita ufficiale in Kosovo per l'inaugurazione del nuovo aereoporto internazionale di Pristina, opera da 140 milioni di euro realizzata da un consorzio franco-turco, che gestirà la struttura per i prossimi vent'anni.

Spostatosi nella città di Prizren, in compagnia dei premier kosovaro Hashim Thaci e di quello albanese Edi Rama, Erdoğan ha sottolineato la forte presenza economica turca in Kosovo, con investimenti che si attestano intorno ai 350 milioni di euro. Il premier turco si è poi rivolto alla folla con parole fortemente emotive. “Il Kosovo è Turchia, e la Turchia è Kosovo. Condividiamo una storia e una civilizzazione comune. Le lingue, le religioni e le facce possono essere diverse, ma siamo tutti figli di una stessa nazione”, ha dichiarato Erdoğan, facendo evidentemente riferimento al passato ottomano.

Come prevedibile, vista la particolare sensibilità sul Kosovo, che Belgrado ritiene pienamente parte del proprio territorio, nonostante la dichiarazione di indipendenza di Pristina del febbraio 2008, le reazioni negative da parte serba non hanno tardato ad arrivare.

Per il premier Ivica Dačić le parole di Erdoğan rappresentano una chiara provocazione nei confronti della Serbia. “E' una dichiarazione scandalosa, chiederò le scuse pubbliche della Turchia e del premier Erdoğan”, gli ha fatto eco con durezza il vice-presidente del consiglio Aleksandar Vučić.

In un comunicato ufficiale, il ministero degli Esteri di Belgrado ha ribadito che “le parole di Erdoğan non possono essere ritenute amichevoli”, e che le dichiarazioni del premier turco non aiutano lo sviluppo di buone relazioni tra i due paesi.

 

Turchia/ Pkk: Ankara non vuole risolvere questione curda

 

Governo non ne ha "nè la mentalità nè la capacità"

 

ilmondo.it - 01 ottobre 2013

Turchia/ Pkk: Ankara non vuole risolvere questione curda

 

 I ribelli curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) hanno accusato il governo turco di non avere alcuna volontà di risolvere la questione curda, all'indomani dell'annuncio del "pacchetto democratizzazione" di Ankara, che contiene misure a favore delle minoranze. "Il pacchetto di riforme che è stato annunciato mostra che l'Akp (il Partito per la giustizia e lo sviluppo al governo) ha adottato uan politica di non soluzione" della questione curda, ha affermato la direzione del Pkk in un comunicato ripreso dall'agenzia filocurda Firat. "Si comprende da questi annunci che non è stata preso in considerazione altro aspetto se non un nuovo successo elettorale" ha proseguito, accusando il governo di non avere "nè la mentalità nè la capacità" di mettere fine al conflitto curdo. Il premier islamico conservatore Recep Tayyip Erdogan ha annunciato una serie di riforme mirate a migliorare gli standard democratici della Turchia, molto attese nell'ambito del negoziato aperto a dicembre con il leader del Pkk in carcere Abdullah Ocalan per chiudere una guerra che in 29 anni ha fatto 45.000 morti. In primavera il Pkk ha avviato il ritiro dei suoi combattenti verso il nord Iraq, ma ha interrotto l'iniziativa a inizio settembre, chiedendo misure concrete per la minoranza curda.  AFP

 

 

 

TURCHIA. Con oggi le donne possono portare

il velo islamico nei locali pubblici

 

 Notizie Geopolitiche - 30 settembre 2013

 

Nuova azione del contro-kemalista Erdogan, il quale si sta sempre più distinguendo per le sue riforme di ispirazione islamista: come già il premier turco aveva annunciato, con oggi le donne turche potranno entrare nei luoghi pubblici indossando il velo.
Nonostante Edogan stia cercando di avvicinare la Turchia all’Europa, continua sfornare provvedimenti anti-laicisti; negli ultimi tempi ha imposto restrizioni alle libertà di parola e di stampa, la censura su alcuni contenuti televisivi e maggiori controlli e rigidità sull’uso di internet; ha decretato il divieto notturno di consumo di alcol, ha proibito l’aborto ed ha limitato persino il diritto di riunirsi liberamente; ha introdotto il reato di blasfemia ed ha dato alle donne la possibilità di portare il velo islamico nelle università, cosa vietata nel laicissima nazione di Ataturk; ha inoltre fatto approvare dal parlamento una riforma dei programmi d’istruzione delle scuole pubbliche primarie e superiori dando spazio agli emergenti sostenitori dei princìpi islamici.

 

 

Turchia: Liberato fotografo. Scontri al Gezi Park

 

Raduno questa sera al parco riaperto al pubblico ieri

 

Ansa 08 luglio 2013, 21:57
Turchia: Liberato fotografo. Scontri al Gezi Park

 

Il fotografo italiano fermato a Istanbul è stato liberato. Mattia Cacciatori era stato fermato sabato dalla polizia turca durante i disordini nei pressi di piazza Taksim. La liberazione è avvenuta oggi e il suo arrivo in Italia è previsto presto. Il console italiano lo ha assistito fin dall'inizio della vicenda e continuerà ancora ad assisterlo - hanno assicurato alla Farnesina - fino a che il suo rientro a casa non sarà ultimato. "Sono libero e tranquillo, mi stanno accompagnando all'aeroporto e stasera sarò in Italia": Mattia Cacciatori, raggiunto telefonicamente dall'ANSA, ha una voce serena ed esprime parole di grande elogio per l'opera del consolato italiano che dice "é stato fantastico"."Mi inchino davanti al loro operato. Sono stati bravissimi e gentili". Non mi aspettavo di essere fermato - dice Cacciatori -. Stavo scattando delle foto, c'era il fumo dei lacrimogeni e la mia maschera non teneva più. Mi sono spostato e mi hanno bloccato, messo contro un muro. Non c'é stato nulla da fare e mi hanno trattenuto per due giorni e mezzo. Per loro ero un contestatore e c'é voluto del tempo per far capire che ero lì per fare foto". "Alla fine - rileva - non mi hanno contestato nulla, non c'era nessuna possibile incriminazione da farmi ma il risultato é che adesso devo uscire dal Paese. Credo che non potrò tornarci per un anno. Ci sono comunque tanti altri Paesi dove posso andare a fotografare quanto sta avvenendo". Cacciatori non sa ancora su quale volo sarà imbarcato: "penso che mi faranno salire su un aereo diretto a Milano, dovrei essere in Italia dopo le 22. Comunque, tutto bene".

 

POLIZIA USA CANNONI ACQUA A RADUNO GEZI PARK - La polizia turca ha usato cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti che stavano tentando di forzare il blocco imposto dalle autorità di Istanbul di fronte all'entrata di Gezi Park, teatro delle proteste antigovernative il mese scorso nella città sul Bosforo. La polizia turca ha infatti chiuso tutti gli accessi a Gezi Park a Istanbul nelle cui vicinanze nel pomeriggio di oggi sono previsti nuovi raduni da parte del movimenti di protesta antigovernativo. Lo rende noto un testimone alla Reuters, mentre le forze dell'ordine non hanno fornito alcuna indicazione a riguardo. I leader della protesta antigovernativa turca sfidano le autorità di Istanbul e annunciano nuovi raduni questa sera a Gezi park, l'area verde riaperta al pubblico solo ieri, dopo i violenti scontri di piazza fra manifestanti e forze dell'ordine che hanno fatto uso di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua e che hanno causato diversi morti e circa 7.500 feriti, secondo l'associazione dei medici turchi. Il governatore di Istanbul, Huseyin Avni Mutlu, ha annunciato la riapertura del parco dopo tre settimane di chiusura seguite alle violenze, ma ha avvertito che sarà vietato ogni tipo di raduno nel parco. "Non permetteremo più che si blocchi il parco, per farlo diventare uno spazio per le manifestazioni, limitandone così l'uso ai bambini, agli anziani e alla gente e causando problemi di sicurezza", ha affermato Mutlu ai giornalisti presenti nell'area verde dove sono stati piantati nuovi alberi e piante, sradicati dai manifestanti il 15 giugno scorso. L'invito del governatore non sarebbe però stato accolto dai movimenti di protesta che hanno lanciato un appello a nuovi raduni questa sera, intorno alle 19 ora locale (le 18 in Italia), proprio nelle aree intorno al parco. La scorsa settimana un tribunale ha annullato il progetto di riordino immobiliare sull'area di Gezi Park e piazza Taksim a Istanbul, perché la popolazione locale non era stata consultata e perché viola l'identità della piazza stessa

 

Istanbul, i ragazzi e l’ipotesi di una possibilità

 

di Luca Morino - 21 giugno 2013 (ilfattoquotidiano.it)

 

Istanbul. Il ponte di Galata corrisponde a uno dei passaggi obbligati della città, uno di quei luoghi abituati a trovarsi sempre al centro della storia e del mondo dalla notte dei tempi, un po’ come il Colosseo o la Grande Muraglia.

 

L’Occidente che passa in Oriente e viceversa, viaggiatori, letteratura, cinema… Al tramonto diventa spettacolare. Una leggera brezza proveniente dal mar di Marmara increspa le acque, scompiglia il fumo nero dei traghetti, spande dovunque l’odore di caldarroste (!) e sgombri cotti sulla graticola e rinfresca le migliaia di persone che bazzicano freneticamente la fermata Eminönü del tram n. 1. I venditori di carabattole sono l’unico punto fermo in questo flusso colorato.

 

Prima di partire mi hanno messo tutti in guardia sui rischi di venire qui proprio in un periodo così “caldo”: le ultime cariche della polizia sono terminate da un paio di giorni, eppure un passante anche attento non riesce a rendersi conto di ciò che è successo. Idranti, lacrimogeni, manganelli, sangue. La metropoli ha già fagocitato e digerito tutto, sono tornati i giardinieri, i turisti, i pescatori sul ponte (ma quelli non se ne erano mai andati).

 

Taksim square dista solo due chilometri e mezzo da qui. Sembrerebbe una disfatta, ma il movimento si è rinnovato nella modalità “standing man” e il web è riuscito a portare le violenze di Gezi Park davanti agli occhi di tutti (non a caso Twitter è stato descritto come una “minaccia”), i ragazzi della protesta sono diventati “uomini e donne”, modelli a cui ispirarsi, quanto meno i portabandiera di una possibilità.

 

Guardo l’Italia da lontano, tutto sembra più chiaro e facile da comprendere: il nostro Paese, sempre più “per vecchi”, non è riuscito a tenere il passo con i tempi e, pur con le dovute eccezioni, sta scivolando in un distratto qualunquismo pecoreccio e dunque molto facile da “gestire”. Purtroppo abbiamo quasi completamente dimenticato l’ipotesi “di una possibilità” e forse questo venticello fresco non è soltanto l’effetto degli sbalzi della pressione atmosferica. Chi volesse tenersi aggiornato può visitare il prezioso profilo di Fb Scoprire Istanbul.

 

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/21/istanbul-i-ragazzi-e-lipotesi-di-una-possibilita/633239/

 

 

Turchia: fermato fotoreporter italiano a Istanbul

 

Stava filmando manifestazione Gezy Park, la Farnesina segue la vicenda

 

Ansa 07 luglio 2013, 21:18
Istanbul
 
Un fotoreporter italiano, Mattia Cacciatori, e' stato fermato dalla polizia a Istanbul ''mentre stava filmando la manifestazione di Gezy park e le cariche della polizia''. Lo rende noto l'associazione Articolo 21, mentre fonti della Farnesina confermano che il consolato generale di sta seguendo la vicenda in contatto con le autorita' turche.

 

Cacciatori, originario della provincia di Verona, lavora come fotoreporter in un'agenzia. "Si tratta - denuncia Beppe Giulietti, portavoce articolo 21 - dell'ennesimo episodio di violenza contro un cronista che cerca di documentare quanto sta accadendo in quel paese e di informare le pubblica opinione italiana, e non solo".

 

Il 17 giugno scorso un altro fotografo italiano, Daniele Stefanini, è stato ferito e fermato dalla polizia turca a Istanbul durante gli scontri. Rilasciato il giorno dopo, Stefanini aveva parlato dei metodi violenti usati dai poliziotti che lo avevano buttato a terra con schiaffi, calci e avevano utilizzato lo spray urticante.

"Mi hanno arrestato, sono sul furgone insieme ad altre persone, arrestate anche loro, e mi stanno portando nella stazione centrale di Aksaray". E' il messaggio scambiato ieri sera con i familiari da Cacciatori. Lo riporta il quotidiano di Verona L'Arena, sottolineando l'angoscia dei parenti per le sorti del giovane, laureato in cooperazione allo sviluppo.

 

Da allora solo un sms da parte del professionista, specializzato in reportage dai teatri di guerra. Le ultime notizie ai familiari, Cacciatori le ha inviate con un cellulare prestatogli da un'amica, Giulia Stagnitto, rientrata da poco in Italia. "Io ho fatto rientro a casa il 20 giugno - spiega la ragazza - lui è partito il 22". Le notizie più recenti raccolte dai genitori lo davano ieri sera nella questura centrale, a Vatan.